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III

A poco a poco il sole risaliva su per le coltri del letto. Una chiazza ancor abbagliante dilagava sulla bianca parete, a capo; ancora gli origlieri se ne bagnavano e, come un casco dorato, lì, copiosa e lucida, la capigliatura dell’Ercolano accoglieva riflessi quasi metallici. Le coltri estive disegnavano una sagoma voluttuosa, un ricco e immoto seno giovanile.

Era terminata la visita. Dei ritardatarii s’indugiavano presso a’ letti, impiedi, con le mani ancora poggiate sulle spalliere delle seggiole dalle quali s’erano levati e dove pareva che stessero lì lì per rimettersi a sedere come per tornare a discorrere coi loro malati.

Un giovanotto piccolo, bruno, col cappello di feltro molle su gli occhi, ronzava da un pezzo attorno al letto della rossa. Ed era adesso così intento a contemplare l’Ercolano, così conquistato da quella dolce immobilità sopita, che non s’accorse null’affatto di due altri borghesi che gli stavano alle costole e spiavano ogni atto di lui.

A un tratto si decise. Fece due passi verso il letto e cacciò la mano in saccoccia.

– Fermo! – urlò uno dei borghesi, ch’era il brigadiere Guglielmi.

E gli fu addosso e lo abbrancò pel colletto. La guardia Cosentino gli afferrava le braccia, di fianco.

– Che vuoi fare? Un’altra rasoiata? Fermo, corpo di Dio!..

L’uomo, agguantato così d’un subito, sulle prime non aveva opposta alcuna resistenza. Ma ora cercava di divincolarsi.

– Fermo! – gridava il Guglielmi.

Cosentino gridava anche lui, voltato alla porta:

– Qua, qua! Custodi!

E mentre di laggiù, dal fondo della sala, qualche inserviente accorreva e s’udiva gridare qua e là anche da’ letti, la rossa si svegliò, di soprassalto. Ora quel giovanotto le stava quasi di faccia.

Lo riconobbe. Gli era cascato il cappello, a piè del letto.

Mise un grido rauco:

– Tu! Tu!.. Rafèle!..

– Cuccia! – le fece il Guglielmi.

Cosentino le gridava:

– Sorcio in trappola! Ora ce lo dirà lui chi è stato che t’ha sfregiata!

Lo sconosciuto mormorava, perdutamente:

– Io… sì… è vero…

Ma protesa dal letto, l’Ercolano urlava, con le braccia stese:

– No! No!.. Non è stato lui!..

– Va bene! – rise il brigadiere – E ti credo, va! Parola d’onore. Vi metterete d’accordo davanti al giudice!..

Cosentino si frugava, cercando le manette, e canticchiava:

 
E ll’ammore è na catena,
nun se po’ cchiù scatenà!..
 

– Perquisiscilo – disse il Guglielmi.

L’uomo, pallido come un morto, si lasciò fare.

– Ha le saccoccie piene di ciliege – disse Cosentino.

Ne gettò sul letto due schiocche.

E alla rossa, che mordeva gli origlieri e si torceva tra le coltri, gridò, ridendo:

– Toh, rossa! Le ciliege! E fattene buccole!..

QUARTO PIANO, INTERNO 4

Al quarto piano d’uno de’ mastodontici palazzi del Vasto, un nuovo rione risultato dalla bonifica delle paludi, rimpetto alla stazione ferroviaria, il maestro direttore d’orchestra Sponzilli – la cui moglie, scappatagli di casa con un tenore, era finita di febbre gialla in America – abitava l’interno 4 con la figliuola Sofia e una servetta, l’Emilia, che in casa chiamavano Milia – una contadinotta di Corleto Perticara.

S’era nel luglio. Presso alla finestra che affacciava sul vasto cortile del palazzo, Milia s’era posta a lavorare all’uncinetto. Le mani pienotte e arrossate che, poco prima, avevano risciacquato panni e pentole, andavan lente: di volta in volta l’uncinetto, tra quelle impratiche dita poco agili, s’arrestava e ricascava in grembo alla giovanetta. E di su ’l davanzale della finestra, tra un vaso di menta e i fascicoli d’un romanzo illustrato, il gatto di casa, che lì aveva trovato il suo posticino al sole, la contemplava, ammiccando. Un’afa sciroccale pesava sul cortile silenzioso: le ore d’un torrido pomeriggio scorrevano lente.

Improvvisamente suonò, breve, una voce. La servetta trasalì e levò il capo: si rizzò pure il gatto e fece arco della schiena, e sbadigliò. La voce veniva dalla camera da letto della signorina Sofia.

– Milia! Milia!

Il gatto scese dalla finestra e s’avviò. La servetta raccolse il merlettino, il gomitolo, l’uncinetto e ammucchiò tutto sui fascicoli del romanzo. S’alzò e scosse il grembiale.

La voce interna insisteva:

– Milia! Milia!

– Uff! – fece Milia.

E rispose forte:

– Vengo, vengo! Pronta!

Nella cameretta della signorina era buio: le imposte del balcone erano chiuse. Ma da quella commessura, avanzando fino a piè del letto, si partiva come una sottile lama d’oro. Attorno l’ombra si raffittiva.

– Dove siete? – disse Milia.

– Qui, qui. Vieni qui: senti…

E la sagoma del letto si svelò a poco a poco agli occhi della servetta. Vagamente, nella penombra, cominciarono a pigliar rilievo un tavolo tondo, il canterano, il divanetto.

– Senti, Milia, senti…

Dal letto si stese un braccio, e una mano febbrile le agguantò e strinse il polso.

– Oh, Gesù! – fece Milia, impaurita.

Di su le coltri – s’era gettata bell’e vestita sul letto – la signorina Sofia, sollevata sopra un gomito, si protendeva. Gli occhi di lei lucevano nell’oscurità e la Milia, immota, si sentiva figgere addosso quello sguardo ansioso.

– Milia, dimmi… Mi vuoi bene? E se la signorina tua ti chiede un favore… dimmi… se ti chiede un favore, che le rispondi?

– Oh, signorinella! – balbettò Milia.

– Senti, un favore da niente… Ascolta bene. Tu devi andare da Enrico… Alla ferrovia… Alle partenze, lo sai, dove si prendono i biglietti…

La signorina frugava sotto l’origliere.

– Lo farai chiamare e gli darai questa lettera.

Nella penombra la busta della lettera biancheggiava. Milia ritrasse le mani.

– Non vuoi? Non vuoi andare?..

Ora la signorina s’era levata a sedere sul letto e ricercava le piccole ruvide mani che le erano sfuggite. Le ritrovò, le strinse, dolcemente, lasciò tra quelle scivolare la lettera e le rinserrò.

– Perchè non vuoi? Di che hai paura? Tu lo sai, fino a stasera papà non torna. Nessuno saprà nulla. Su, Milia! Come te lo devo dire? Vacci! Fammi questa carità!

L’altra, irresoluta, taceva, girando e rigirando la lettera fra le dita.

– Rispondi! Che vuoi fare? Non vuoi? Dunque alla signorina tua non le vuoi più bene? Di’, non le vuoi più bene?

E a un tratto ruppe, afferrandole e squassandole le braccia:

– O vai tu, o mi levo e ci vado io!

– Date qua. – piagnucolava la servetta – Ci vado, ci vado…

La lettera era caduta a piè del letto. La servetta si chinò, sospirando, e la raccolse.

– Che gli devo dire?

– Che voglio subito la risposta. E… se è vero…

– Se è vero?..

– Se è vero quello che si dice…

– Che volete la risposta a quello che gli avete scritto e se è vero quello che si dice.

– Così. Ora va. Ti ricordi? Alle partenze. Chiamalo fuori dell’ufficio.

La servetta si ficcò la lettera nel busto e uscì. Ripassando per la stanza che poco fa aveva lasciata si fece alla finestra e guardò nel cortile. Il gran cortile era deserto: a un angolo, per una delle porte d’entrata, passava un gran chiaro e si diffondeva e dilagava sull’arido selciato. La moglie del portinaio aveva piantata al sole una seggiola e appeso alla sua spalliera un sudicio lino del suo poppante. All’opposto angolo, nell’ombra, la ruota immane per la fornitura dell’acqua gocciolava e lo stillicidio incessante turbava una pozza d’acqua, là sotto. Di fuori l’immenso rione nuovo del Vasto pareva morto: il silenzio era alto: nessun romore, nessuna voce.

Di faccia alla finestra ove la servetta s’indugiava era quella della Marangi, la maestrina comunale. A poca distanza dal parapetto, seduta a una tavola sulla quale era pur la piccola macchina da cucire, la Marangi scriveva, piegata su un mucchio di carte. Di volta in volta, sostando, si leccava il medio della mano destra che s’era insudiciato d’inchiostro, e lo fregava a una pezzuola.

– Signorina Marangi, – disse Milia – scusate tanto se vi disturbo. Io vado per una commissione e lascio sola la mia signorina. Mi volete dare occhio alla porta?

La Marangi levò il capo. Rispose:

– Va bene.

Si rimise a scrivere. S’udì lo sbattere della porta e Milia scese le scale, canticchiando. Era così alto il silenzio che la Marangi udì, chiaramente, la voce della servetta in cortile. Milia diceva al portinaio:

– Don Angelo, non lasciate salire alcuno. La signorina è rimasta sola in casa. Io vado per un soldo d’aghi e subito torno.

La maestrina, che aveva abbandonato il braccio sulla tavola e schiuse le dita dalle quali era sfuggita la penna, sospirò profondamente. I suoi grandi e dolci occhi azzurrini si velarono, stanchi, fra le ciglia. Appena tornata dalla scuola s’era posta a rivedere i compiti delle sue scolarette: un mucchio di scritti infantili aspettava ancora i suoi segni di correzione a matita azzurra. E la notte precedente ella aveva così poco dormito!

– Pazienza! – mormorò, passando e ripassando le dita sulle palpebre grevi.

Come un’eco, dalla finestra dirimpetto, una voce ripetette:

– Pazienza!

– Oh, Sofia! Sei tu? – disse la Marangi.

Immobile, ritta presso il davanzale della sua finestra, la signorina Sofia la guardava.

– E tu che fai, Laura?

La maestrina sorrise, malinconicamente. Con gli occhi indicò gli scritti sparsi sulla tavola.

– Non vedi? Correggo compiti.

Rimasero mute per un po’ tutte e due, contemplandosi.

– Che fai? – disse la Marangi.

– Nulla.

– Nulla? Troppo poco… Tu soffri. Sofia, tu soffri, lo so. Lo vedo. Come sei pallida!

Si levò dalla tavola e venne a porsi davanti alla finestra. Mise le mani spiegate sul davanzale. E, gravemente, soggiunse:

 

– Senti, Sofia, lascialo! Io te lo volevo dire da tanto tempo! Pensa a te, pensa a te! Quell’uomo lì non è fatto pel tuo carattere nobile e fine. Lascialo. Egli ti lascerà, se non lo lasci. È tristo, è ingeneroso… Perdonami, sai, non ti dolere… È tristo, è tristo!..

Sofia Sponzilli tremava, bianca come un cencio. Tremavano le sue piccole mani nervose e tormentavano i fascicoli del romanzo, il gomitolo, il ricamo che Milia aveva dimenticato sulla finestra.

Rispose, piano:

– No… non posso.

– Ti lascerà! Lo vedrai.

– Ebbene… se fa questo… Vedrai, Laura!

La maestrina scosse la testa, pietosa. E si mise a riordinare, macchinalmente, i suoi compiti sulla tavola.

– Tu non hai cuore per certe cose! – disse la Sponzilli, all’improvviso – Tu non hai mai amato!

– Oh, figlia mia! – balbettò la maestrina, con tutta la commossa voce del suo cuore pieno di ricordi e di rimprovero.

E le carte le sfuggirono di mano, ed ella chinò la testa e si sentì piegare.

La Sponzilli era scomparsa. Laura Marangi scivolò lentamente lungo la tavola, tornò a sedere al suo posto, riprese la penna e contemplò, muta, meditando, i suoi compiti. Gli occhi le si erano empiti di lagrime. Bagnò due o tre volte la penna, cercò uno degli scritti nel mucchietto che se n’era posto davanti. La mano e lo scritto, rimasero lì, immoti. Ella si risovveniva, ora, di tutte le sue pene, di tutto l’amor suo finito miseramente per una volgare questione d’interessi, di denaro. Povera, anche lei: con una mamma vecchia, cieca, poveramente pensionata, con un fratello ferroviere che ora le voleva abbandonare per ammogliarsi, e senz’altro, senz’altro, che uno stipendio meschino! E senza più amore, e senza più speranza, davanti all’oscuro avvenire!

Reclinò la testa bionda sul braccio e ve la posò, e vi nascose la faccia.

Ora tornava Milia, dalla ferrovia: si udiva il romore de’ suoi zoccoletti, su per le scale. La porta di casa della Sponzilli s’aperse e sbattette con uno strepito breve. La Marangi non si mosse, non levò il capo. Piangeva piano, col volto sul braccio piegato: piangeva amaramente, senza sapere perchè.

Suonò, all’improvviso, un alto grido angoscioso. La servetta apparì alla finestra, con le mani ne’ capelli, con la faccia stravolta.

– Milia! – gridò la Marangi.

– S’è buttata dal balcone! S’è buttata giù!.. – urlava Milia – Ah, Madonna del Carmine! Signorina! Oh, Dio! La signorina mia ha avuto la risposta da quel giovane e s’è buttata!..

La Marangi si coperse la faccia con le mani. Tentò di levarsi. Ricadde sulla seggiola.

Balbettava:

– Oh, Sofia! Oh, Sofia mia!.. Oh, Dio! Dio! Dio!..

Milia si schiaffeggiava, pazzamente, urlando:

– Dal balcone! Dal balcone!..

Disparve. La porta di casa s’aperse con un fracasso spaventoso. La servetta si precipitò per le scale, urlando. E su per ogni pianerottolo s’apersero subito altri usci, e nel cortile si popolarono tutte le finestre.

Una voce, dall’alto disse:

– Chi s’è buttata?

Un’altra rispose:

– La Sponzilli… La figlia del maestro di musica. Dall’altra parte. Nella via Brindisi…

E dalla via Brindisi un vocio confuso e crescente salì alle finestre. Ora la folla entrava nel cortile, e se ne udiva il mormorio. Portavano qualcuno, in cortile, un corpo immoto…

La Marangi, inorridita, si trasse addietro e s’appoggiò allo spigolo della tavola. Si sentì mancare. Si provò a chiamare la madre e la voce le venne meno.

Un prete, di furia, scendeva dall’ultimo piano. Era il fratello d’una vedova, cappellano a Santa Maria delle Paludi.

Si affrettava, pallidissimo, con la stola sul braccio, abbottonando, con le dita tremanti, la sottana al sommo del petto…

FEDERICA

I

Sono sei mesi da che ho dovuto lasciare una grande città del settentrione – desidero di non additarla a nome – per un paesetto che ne è lontano quindici miglia. Il mio spirito ha bisogno di quiete. Ho bisogno di vedermi circondato da cose e da persone tranquille; le capitali sono affollate di gente trista e volgare, ciarliera, spregevole, insopportabile, che vi preme e vi disgusta, che popola i caffè e li satura di vanità, di insincerità e di oziosi vaniloquii.

Qui dove sono venuto è altra cosa. Vi rimarrò a lungo? Non so. Ma mi sono suggestionato – e la mia suggestione non s’è interrotta fino a questo punto. Sì, vi rimarrò: vi devo restare parecchio. Qui scriverò, solo solo con me stesso e coi miei ricordi che hanno bisogno di prorompere una buona volta, la storia che attingerà dai molti e profondi dolori della mia stessa esistenza la materia più sincera. Vedo che mi aiuta, con la sua fisonomia placida e serena, il luogo ove ho riparato. Lo vado ancora percorrendo, in passeggiate mattutine, che non mi stancano e che oramai me l’hanno tutto quanto svelato.

A dugento passi dalla mia casetta, sul fondo verde della montagna, si disegna con semplici linee un edificio rustico e grigio. Ove la raggiunge un parco deserto appare la sua rozza facciata, qua e là striata da bianche suture di calce. Nel parco solitario spuntano da terra, come tanti fiori mostruosi e deformati, alcune antiche erme di pietra – che il padrone di quella casa, che forse fu signorile e bene architettata e ornata, sparse una volta su per un prato muscoso, il prato arcadico del suo bel tempo, ora diventato brullo e disuguale. L’ho pur amato così, nei mesi dell’inverno, quando la pioggia lo immolla, freddo pianto del cielo. Forse perchè la natura non mi pare interessante se non quando è debole o è malata.

La prima volta in cui visitai quell’edificio fu in autunno. Mi parve subito che il tono delle cose esteriori corrispondesse al palpito che da ognuna delle creature umane raccolte in quella casa s’esprimeva come cercando di superarne i muri impenetrabili. In quel vasto manicomio la vicina e grande città industriale manda all’aria ossigenata della montagna i suoi poveri folli. Città meccanica, così pare che si liberi di tutti i guasti suoi congegni: ma ne ricominciano a stridere qui gl’ingranaggi arrugginiti e, spesso, nei giorni di tramontana, all’urlìo del vento, al suo sibilo lacerante si mescola un suono che certo è umano, che da creature umane si parte, e nella cui scomposta e aneuritmica insistenza s’adunano come trasformati, e su d’un tono che ora sale ora scende, il pianto e la preghiera, l’imprecazione e il lamento.

Per quale ragione, dal primo giorno in cui ho posto tenda a X… mi ha chiamato a sè quel luogo dal quale in altri momenti della mia vita avrei certo rifuggito? Non ve lo so dire: come non saprei dirvi davvero quante volte mi vi sono recato e ho poi finito col giurare a me stesso, nell’uscirne, di non tornarvi mai più. Devo credere, per altro, che quelle mie frequenti visite siano state sollecitate pur dal piacere che ho sinceramente provato di pormi in comunione frequente con la più dotta, acuta e geniale persona che là dentro, – con la scienza che lo esamina e lo sorveglia, con la pietà che lo inganna, con occhi che affisandosi su tanti poveri esseri paiono più teneramente meditativi che indagatori – presieda a quell’ignaro dolore. Non posso indicarvi a nome quest’uomo: lo chiamerò il dottor Massimo. E poi, che v’importa di sapere come si chiami? Questa è la narrazione di un fatto i cui pochi personaggi ho io soltanto il diritto di conoscere compiutamente. Quelli che abitano la triste casa di salute mi sono noti, quasi tutti. Con alcuni dei più tranquilli mi son posto, talvolta, persino a discutere, fino a quando non mi ha separato da loro quella mossa che, all’improvviso, han fatto i loro discorsi di uscire dal campo logico per appressarsi, per tornare con un’insistenza, a volte anche pacata, a un mondo di persone e di cose irreali.

II

Ora, una ventina di giorni fa, mentre allineavo su un pluteo della mia piccola libreria un bell’esemplare, in tredici volumi, Della vita e delle opere di Federigo il Grande, – edizione francese del 1789, che la vecchia vedova d’un bibliofilo farmacista di X… mi aveva ceduto per poco denaro – mi capitò un bigliettino del dottor Massimo, così concepito: «Ho qui del buon the, dell’autentico Hyson hayswen che mi arriva direttamente da Annam; ho per le mani un nuovo soggetto– e non ci vediamo da venti giorni!».

– Inutile scrivere al professore – dissi al vecchietto che mi aveva portata la lettera – fra mezz’ora sarò da lui.

Sulla soglia, uscendo, il vecchietto si voltò per raccomandarmi:

– Sa, signore: il paracqua! Il tempo minaccia.

Si preparava, difatti, una brutta giornata: cielo grigio, aria umida e fredda. Qualche goccia di pioggia mi colpì sulla faccia appena misi piede fuori di casa. Sulla via carrettiera mi soffermai un momento: la campagna, nel lontano, mi parve più deserta e malinconica del solito; una nebbiola bassa, come un fumo lieve, le stava sopra e la oscurava un poco.

Il dottore mi venne incontro nel cortile dell’ospizio. Con la sua effusione abituale m’afferrò la mano e me la strinse.

– Vi chieggo scusa se v’ho scomodato. Ma non vi vedevo da tanto tempo! Bravo, ho piacere. Ora concedetemi dieci minuti di permesso: il tempo di dare un’occhiata alle lettere che mi sono giunte adesso. Dieci minuti, e sono ai vostri ordini.

Si ficcò in fretta nel suo studiolo a pianterreno. Ma prima aveva fatto un cenno a un custode, un gigante biondo, che aspettava, col berretto fra le mani.

– Potete aprire.

Il gigante introdusse una piccola chiave nella toppa della porta ferrata che è in fondo al cortile, e quella, a un suo spintone, stridendo sui cardini s’aperse a mezzo. Passai: il custode era passato prima. La porta si rinchiuse. Eravamo nel Quadrato dei pazzi tranquilli.

Era stato forse un giardino, in origine: ora poco vi restava che lo attestasse: qualche alberello dal tronco sbiancato, il segno d’un viale, uno dei muri ancora rigato, verso la cresta, di cannucce in fila, che il giardiniere vi aveva inchiodato per favorire ascensioni di glicine o di campanule. Addossati a quel muro due freddi sedili di marmo pareva che aspettassero qualcuno: altri ve n’erano qua e là, co’ piedi a zoccolo già conquistati da umide chiazze di musco.

I tranquilli passeggiavano, solitarii, in peripatetici soliloqui. Qualcuno, d’un subito, dopo una lunga corsa lungo il muro di cinta, s’arrestava, si premeva il petto con le mani spiegate, e ansava forte – qualche altro, in estasi davanti all’arida vasca di quella che era stata una fontana, in un angolo, non ne levava più gli occhi incantati – un altro ancora, che ora si veniva a sedere sulla panca di marmo più prossima alla porta, si voltava a interrogarla senza posa, girando e rigirando il capo, che scattava come per un congegno meccanico. Ve n’erano di quelli che si sprofondavano nelle loro meditazioni, e non ascoltavano, non vedevano che que’ loro fantasmi – e ve n’erano altri che, a due a due, a braccetto, or lentamente, ora a passi precipitosi, trascinavano, infervorati, le loro misteriose discussioni. Ove due delle pareti del recinto si raggiungevano e facevano spigolo, con la faccia al muro, con le mani sulla faccia, un poco piegato e quasi tremante, un altro singhiozzava. I compagni gli passavano davanti senza neppure guardarlo.

Spioveva, adesso. Pel fitto d’una scura nuvolaglia finalmente il sole era riescito a ficcarsi: ora quell’immane viluppo s’andava colorendo, i suoi lembi ondulanti si accendevano. Dalla terra inumidita si sprigionava un lievissimo odore che a poco a poco diventava più acre. Ma il silenzio non s’interrompeva. Vedevo venire verso di me, lenta, una coppia che a volte s’arrestava: un vecchio signore aveva passato il suo sotto al braccio di un giovane e questi, camminando, pareva che stesse ad ascoltare il suo compagno anziano. Quando si fermavano, il vecchio figgeva gli occhi ansiosi in quelli del giovane, che lo guardava come trasognato. Pian piano gli scioglieva le mani che quello s’ostinava a tenere rinserrate, e le premeva dolcemente nelle sue. L’ebete si lasciava fare, in silenzio, con un sorriso melenso, passivo alla carezza paterna. E il padre, ch’era venuto a trovarlo, e lo aveva ancora una volta rintracciato in quella folla misera, sempre allo stesso posto e assorbito dall’eterna sua meditazione sconsolata, ora, ancora una volta, e invano, gli parlava sommessamente di tutte le persone, di tutte le cose un tempo così care a lui: della casa, della famiglia, ch’egli aveva dimenticato, forse per sempre. E mentre attorno continuava il va e vieni, continuavano i soliloquii, le corse ansiose, e il pianto di quello che s’era messo con la faccia al muro, qui, a qualche passo da me, quel padre seguitava a sollecitare il figliuolo, e ora, incollerito e angoscioso, quasi lo investiva con la solita domanda che non ha mai risposta: Ma dimmi, dimmi… Ricordi? Dimmi… Ti ricordi?..