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L'ABBANDONATO

– Che si dice? – chiese Gaetanella Rocco a Carmela la serva, la quale passava sul marciapiedi e parlava sola, come al solito.

Carmela si volse e tornò indietro. Il vento le penetrava di sotto lo sciallo, di cui svolazzava un lembo; l'altro ella teneva fra mano, accostandolo di tanto in tanto alla faccia.

– È morta or ora – gemette – Ah, Gesù! Io sono così fatta che ci penserò tutta la giornata. E voi, andate a vederla?

Gaetanella, impassibile, guardava la serva, mettendo fuori il capo di su il paravento di legno tra la casa e la strada. Carmela, sul marciapiedi, rabbridiva pel vento secco che le veniva di faccia e le appiccicava le gonnelle alla carne.

– Ci vado più tardi – disse Gaetanella – ancora ho la casa sossopra. Iersera è arrivato il fratello di mio marito, il caporale di cavalleria. Ha avuto il permesso sino a mezzanotte, e sono stati qui tutti, con gli amici, a cantare e a bere. Immaginate voi!

– Lasciate fare, sono giovanotti. Che ne vediamo della vita? Si muore, così, da un momento all'altro!

– Non c'è che dire – sospirò Gaetanella, buttando sul marciapiedi bucce di castagne e di mele dal canestro dei rifiuti.

– Me ne vado – disse la serva – buongiorno.

– Se ripassate e voi chiamatemi. Andremo a vedere insieme…

Era morta donna Nena la romana, una vecchia che non faceva male a nessuno e che leggeva le lettere alle vicine della via, senza occhiali. Era venuta da Roma, al sessantacinque; la si poteva tenere per napolitana. Le vicine conoscevano un po' la sua storia, ma nessuna aveva potuto entrar troppo addentro in certi particolari che la vecchia sapeva a tempo scartare.

Lassù, a S. Pasquale al Corso, donna Nena abitava da tre anni, nel cortile del monastero, in una stanzuccia rimpetto al pozzo. Pareva, in quella immensa quiete, una badessa sopravissuta alle sue monache, bandite per sempre, a far posto ai carabinieri in caserma.

Il cortile, deserto, era triste. Sotto l'arcata, tutta bianca di calce, girava intorno il sedile di peperino, qua e là fiorente d'una selvaggia vegetazione, la quale pigliava radici tra le screpolature e le commessure della pietra. In maggio il sole che lo allagava tutto invogliava donna Nena a uscire dalla sua celletta. La piccola vecchia andava a sedere sotto le colonne, sulla pietra grigia del parapetto e poggiava i piedi sui piuoli d'una seggiola sconquassata, ch'era deposito di straccetti d'ogni colore. Agucchiava. I romori della via erano confusi e arrivavano, morendo, al cortile del chiostro silenzioso. A volte, d'un subito, risonava in fondo, su per la scala grande, il passo pesante del brigadiere e costui spuntava nel cortile, attraversandolo, con le mani nelle saccocce dei calzoni e la lunga pipa in bocca. Qualche passero ch'era venuto, saltellando sui ferri della balaustra, ad affacciarsi nel pozzo, scappava, spaventato, con un piccolo grido. Donna Nena levava il capo dai suoi ritagli, teneva dietro con gli occhi socchiusi al volo dell'uccellino, le mani abbandonate sulle ginocchia. Certamente pensava ad altro. Una tossicina stizzosa la coglieva di tanto in tanto, e i colpi della tosse tre, quattro volte rompevano senza eco il silenzio intorno.

Spesso, di sopra, un carabiniere si metteva a cantare presso una finestra, dando la brunitura al fucile. Era una voce di tenorino, che vibrava limpidamente nell'aria:

 
M'incatinasti, beddicchia, stu cori, ca l'apparienza…
 

Donna Nena, laggiù nel cortile, infilava l'ago, sceglieva tra i ritagli, rimaneva un pezzetto con lo sguardo perduto nella fuga degli archi. Le labbra mormoravano, dal pugno chiuso le dita si spiegavano, una dopo l'altra. Cantava. A un tratto, di sopra, la nenia del siciliano interrompendosi faceva tornare la vecchia, distratta, al suo lavoro. Il cortile si rifaceva silenzioso.

Al secondo anno da quando donna Nena era venuta a stare lassù, in una mattina di febbraio ella uscì – come disse a Gaetanella Rocco – per andare a pregare l'amministratore di quel locale perchè le facesse rimettere a un finestrino della celletta un vetro frantumato. Da un orto vicino i monelli glie lo avevano rotto: il vento le entrava in camera, proprio accapo al letto. Quando il vetro fu rimesso la vecchietta ebbe compagnia in casa. Ci venne un piccino malaticcio, debole, tutto pallido.

Da quel tempo ella si fece vedere più di frequente; il piccino aveva bisogno del latte alla mattina, di pane fresco, di frutta mature. Tutto questo faceva andare e venire dal cortile alle botteghe della via la vecchietta frettolosa, che per mostrarsi così tenera del bimbo almeno gli doveva molto voler bene.

Carmela la serva, pochi giorni dopo la comparsa del bambino, avendo appurato come e donde venisse, si contentò di perdere tempo e di far aspettare la padrona per andare a confidarsi con Fortunata la rivendugliola, vicina di Gaetanella. Tutte e tre sedettero attorno al braciere; Carmela a mezza seggiola, col paniere della spesa sulle ginocchia, per far presto.

– Donna Nena questo me l'aveva già detto un anno fa, ha una figliuola, si chiama Clelia. Due figlie le son morte di mal sottile e quest'altra…

S'interruppe, strinse le labbra, battè col palmo della mano sul manico del paniere, con un'aria desolata.

– Capite?..

– Eh! – sospirò la rivendugliola.

– Che ha fatto? – chiese Gaetanella.

– Come tant'altre, via… disgraziata… – disse la serva.

Sospirò anche Gaetanella, chinandosi a riattizzare il fuoco.

– Infine il piccino è rimasto a donna Nena, alla nonna. Clelia le avrà dato un po' di danaro per mantenerlo, non si vede mai lei: non comparisce mai. Glie l'ha messo nelle mani e buonanotte. Donna Nena, lo chiama er ragazzo.

'O guaglione– tradusse Gaetanella.

– Ieri la vecchia m'ha fatta una confidenza. Non è vero che il vetro al finestrino glie lo han rotto dall'orto. Lo ruppe lei, tempo fa, sbattendo la vetrata. Non avrebbe detto nulla all'amministratore se non fosse capitato il piccino, ch'è malaticcio e debole. E col vento in casa…

– Sentite, – interruppe la rivendugliola – io vi do questo paio di calze pel piccino e voi glie le portate a donna Nena, poveretta. Direte che le avete avuto dalla signora vostra…

– Date qua – fece la serva, levandosi – che tutto è buono quand'è carità. Oggi glie le porto.

Un'altra volta la serva chiamò fuori nella via Gaetanella, la quale era occupata a riasciacquare i piatti.

– Clelia, la… capite?.. dev'esser morta. Ora ho chiesto alla vecchia se Clelia abbia più rivisto il piccino. S'è messa a piangere, la vecchia. Ho capito tutto.

Passarono sette mesi; morì pure donna Nena, spegnendosi a poco a poco nella sua celletta, col ragazzo che la guardava dal suo seggiolino, appiè del letto. Per un momento l'avevano lasciata sola, mentre dava gli ultimi tratti. Rientrate le vicine col ramoscello dell'olivo e l'acqua benedetta, trovarono la vecchia basita. Il piccino la guardava ridendo, balbettando. Un braccio di donna Nena fuori della coperta era steso rigidamente verso di lui, la mano pareva indicasse.

Fatto sta che, occupate a rovistare per la celletta, curiosando dappertutto, nei foderi di un canterano che gemevano come se nascondessero l'anima della vecchia, in un baule nello stipetto o muro, le vicine dimenticarono il bambino. Soltanto com'entrò lì dentro anche Graziella la sarta, con dietro la ragazzina curva sotto lo scatolo delle vesti, per vedere, mentre lei dinanzi al lettuccio, contemplava la morta coi grandi occhi pietosi, il piccino le prese fra mano la frangia di conterie che luceva attorno alla veste. Graziella si volse.

– Questo è il piccino di donna Nena – spiegò Gaetanella Rocco – il figlio della figlia.

– E la madre dov'è? – chiese Graziella.

L'altra benedì l'aria con la mano: l'indice e il medio ritti.

– Pure lei morta? – fece la sarta, intenerita.

E carezzò la testa bionda del piccino, il quale levò gli occhi a guardarla.

Subitamente irruppe la folla di tutti i monellucci del vicinato. Arrivava il carrozzone. Allora Gaetanella Rocco portò fuori il piccino, mettendogli in mano una ciambella. Gli trasse il seggiolino a bracciuoli fin presso alla porta del cortile che metteva, per le scale, rose dal tempo, sul Corso.

Poco dopo il carrozzone si portò via la vecchia per tutto il Corso. Il cocchiere zufolava, con le redini sulle ginocchia, col vento secco di faccia. Dietro, sulla predella, i due becchini si bisticciavano, le gambe penzoloni.

– Donna Nena se ne va a Roma – esclamò, ridendo, un calzolaio ch'era uscito a vedere dalla sua bottega, con uno stivale fra mani.

La facezia ebbe successo fra quanti guardavano. Donna Nena se ne andava a Roma! Buon viaggio! Le vicine ridevano. Rideva Nannina Fiocca, la innamorata del calzolaio. Quando gli passò accosto gli dette uno spintone.

– Bel core che hai!

– Senti – le fece dietro il calzolaio – presto lo farai anche tu il viaggetto…

Nannina si volse, grattandosi la coscia per allontanare il malagurio, e gli gridò con la voce argentina:

– Prima tu!

– Prima tu! – ribatteva il calzolaio, minacciandola con lo stivale.

Il tempo s'era fatto grigio. Di faccia al Corso, dal mare, saliva una nebbia densa come fumo di officina, lambiva le falde del Vesuvio, lo nascondeva fin quasi alla cima. Vagamente s'indovinava nel porto una gran nave; era una striscia tutta nera, indecisa. Intorno la città spariva in quel fumo che pareva covasse un incendio. Ma nel cielo affollato di nuvoloni, qua o là dei chiarori scialbi si facevano nel lontano, ove il sole all'estremo lembo in fine della collina di Posillipo, rompeva a fatica le nuvole. Vi fu un momento in cui la luce si allargò; lucevano disotto le vetrate alle finestre, luceva lo zinco delle serre alle terrazze delle palazzine al Rione Amedeo. Finalmente tutta una stesa di cielo diventò azzurra.

 

Il piccino lo avevano dimenticato sotto la porta del cortile. Egli sedeva, al sommo della scala diruta, nel suo seggiolino, con le manine sui bracciuoli. Sulle ginocchia aveva la ciambelletta di Gaetanella, mangiucchiata mezza: aveva un piccolo grembiale bianco, le scarpette molto vecchie, una vesticciuola scura, stinta, troppo grande per lui. In una scarpa il piede non era entrato tutto, ne scappava fuori il tallone ove faceva sacco la calza. Lui dondolava quel piede. A poco a poco la scarpetta ne cadde. Allora il piccino sorrise, tutto solo, molto contento. Contemplò, per un pezzetto, il piede libero, poi non avendo altro a fare, si rimise a mangiar la ciambella. Una volta levò la manina, s'atteggiò, pronunziò quei brevi vocaboli incomprensibili che sono della incoscienza infantile e delle bocche che non sanno parlare.

La ciambella fu mangiata tutta. Il piccino aveva fame. Raccolse perfino le miche cadutegli nel grembialetto. Pareva soddisfatto. Poi si mise a guardare innanzi a sè i fili del telegrafo, che dal parapetto della via, di faccia, declinavano, e scomparivano fra le case. Una cometa s'era impigliata tra i fili, la carta lacerata svolazzava. Un brandello fu strappato ai fili e portato via dal vento. Lungamente il piccino ne seguì la sorte con gli occhi, sbadigliando, poi chinò a poco a poco la testa da un lato e s'addormentò.

GLI AMICI

Nel maggio, mentre al più piccolo alito di vento le rose tenerissime concedono le foglie loro, disseminandole appiè d'un amoroso mandorlo ancora in fiore, mentre da per tutto ov'è collina, o giardino, o praticello passeggiano gravemente al sole gli scarabei e sbadigliano, alta la testa viperina, le lucertole verdi, mentre il bosco è tutto in chiacchiere di uccelli gelosi e si spande per la fresca campagna l'indefinibile susurro degli insetti e una scia d'argento solca, sul cammino lentissimo della lumaca, un muretto nell'orto, mentre tutto questo, ch'è poesia dolcissima nell'aria buona o dolce, succede lontano dalla città romorosa, qui la prosa cittadina va trascinando per le vie cenci e magre suppellettili borghesi, sciorinati al sole di maggio tra il polverio, le bestemmie dei facchini o il loro copioso sudore di bestie affaticate. Si compie di questi giorni la frettolosa bisogna dello sgombero, ed è un transito incessante di cose che parlano, un viaggio di segreti trabalzanti su pel rotto selciato napoletano. Il lettuccio, la spinetta antica, la poltrona favorita, il boccaletto a fiori, ove così spesso l'amata ha bevuto i pensieri dell'amante, il misero lume a petrolio onde furono rischiarate, presso agli esami, le veglie laboriose d'uno studente di medicina, la gran seggiola a ruote d'un paralitico, il canterano da' foderi cigolanti in fondo ai quali ammucchiò tutto un tranquillo epistolario amoroso la fiamma d'un impiegato alla Ferrovia, lo spiumaccino invernale, ricordo della povera mamma morta, che usava di tenerlo sui piedi – tutto ciò passa innanzi agli occhi, nel sole, e cammina, e muta posto e va altrove, e passa da una luce d'un quinto piano all'oscurità di un pianterreno, o dal buio al sole, chi sa dove, chi sa dopo che amari rimpianti, e scompare.

Or, sopra uno di questi carretti scricchianti, tra molte scatole da cappelli e un mucchio di cuscini, viaggiava una gabbietta. Dentro alla gabbietta c'era un canarino giallo. Le suppellettili mutavan posto: alla casa nuova la gabbiuzza fu appesa nel tinello che dava in un giardino. Di rimpetto, dietro certe grate fitte, si vedevano confusamente soggoli biancheggianti: c'era un antico monastero. Il figlio della signora, un ragazzo che odorava di poesia, appena fu alla nuova casa e, per la finestra del tinello, vide le monache, fu preso da un impeto sentimentale e stampò una sessantina di versi claustrali in un giornaletto letterario.

Il povero canarino poeta pur lui, era stato tolto piccoletto al nido, e più non ricordava dove e come. Ricordava senza precisione certo aggrovigliamento di rami e di fronde, una fiorita stesa di piano, un gran pezzo di cielo azzurro – niente più. L'adozione era stata larga di cure e, dapprima, dolce fu la prigione. E lì come se fosse stato a San Pietro a Maiella, il canarino diventò un cantore elegantissimo, una specie di tenorino di grazia.

– Bene, bene – esclamò il marito della signora – ecco il canarino che comincia a dirci qualcosa.

E ogni volta che si trovava nel tinello a lavarsi la faccia, gli faceva lo zufolo col tovagliolo fra mani.

La casa dalla quale era sloggiato era scura e silenziosa. Le finestre non davano sulla strada, riuscivano in un cortile abbandonato, dominio di terribili pipistrelli, qualcuno de' quali perfino veniva a sbatter l'ali intorno alla gabbiuzza, dove il povero canarino tremava di terrore. La bestiola, di sotto l'arco della finestra, non vedeva che i muri grigi del cortile dagli angoli ch'erano scale di polverose ragnatele, da' buchi neri che a notte diventavano case di nottole. Le carrucole nei pozzi stridevano, le secchie si urtavano, le serve, a prima ora, trovandosi tutte ad attingere, dicevano male della gente, appiccicando a ognuno un aggettivo che svegliava goffe risate per tutto il pozzo. Questa la vita del cortile. Una volta solamente il canarino uscì dalla sua malinconia. Una delle fantesche ripuliva la gabbia d'un altro canarino, lasciando cader giù nel cortile le boccate sfuggite del miglio, i rifiuti del prigioniero, e canticchiando. E come quel canarino, per la soddisfazione del miglio fresco e dell'acqua pulita, metteva, di tanto, piccoli gridi acuti, quest'altro credette di aver trovato finalmente qualcuno col quale potesse chiacchierare, nelle ore di noia.

Lo chiamò allora due volte.

– Zizì! zì! zì! zì!..

Quello rispose allegramente:

– Zì! zì!

Poi vi fu un silenzio. La serva aveva portata via la gabbia; il povero canarino, disilluso, ricadde in malinconia e non avendo a far altro si rimise a contemplare i muri del cortile.

In una giornata di novembre fu tale lo scrosciar della pioggia furiosa e così spaventevoli furono i lampi e i tuoni che il canarino, tutto solo nella gabbia, credette che l'ultimo giorno della sua vita fosse arrivato. Dal lampeggiare continuo era tutto illuminato il cortile, i ferri della gabbia pareva si arroventassero. Poco dopo accorse la serva, che avea lasciate aperte le vetrate della finestra.

– Meno male! – esclamò – I vetri non si sono rotti! E chi l'avrebbe sentito il padrone?..

Guardate, nemmeno una parola per quella povera bestia tremante di freddo e di paura! Bella carità cristiana! E così il canarino, a poco a poco, s'abituò ad ogni sorta d'ingenerosità. Nessuno si pigliava pena di lui, ma nessuno, però, lo veniva a seccare. Meglio così. E il suo amico divenne un pezzo del muro di faccia, ove un ragno intesseva comodamente la sua tela. Nell'estate, quando un po' di sole fece la spia nel cortile; la tela ne fu tutta illuminata e il ragno vi passeggiò di lungo e di largo, con una grande boria di padron di casa. In tutto il giorno si risentivano le voci delle fantesche, lo strepito delle cazzeruole, risate lunghe e sguaiate, scoppiettî di carboni dalle fornacette. La musica metteva in allegria il canarino che, a volte, vi mescolava certe note acute e un trillo per cui le serve, meravigliate, tacevano. Una di loro, mentre lui si sfogava, esclamò:

– Dio! che bella vocetta, neh?

La lode, Dio buono, se la pigliano tutti, la vonno anche i modesti. Il canarino si guardò i pieducci, ripulì il becco a un ballatoio della gabbia, si piantò saldo sulle gambette e si mise a cantare:

Se il mio nome saper voi bramate

* * *

A maggio, v'ho detto, i signori della casa sloggiarono.

La primavera sospirava più forte con gli spasimi dei fiori, col susurro delle piante in amore, e nell'aria salivano odori soavissimi e freschi soffi di zeffiri. In una bella giornata profumata si svegliò il canarino a un pispiglio sommesso. Una passera aveva fatto il nido di rimpetto. Poi furono piccoli gridi di compagni liberi che passavano; furono a volte cicalecci impertinenti di rondoni in chiacchiere, sui tetti. I rondoni, al solito, dicevano male del vicinato. Quello era bello, quell'altro era brutto, la tal signorina non sapeva cantare, il violinista del quinto piano pigliava acuti stonati, il portinaio non badava troppo alla figliuola. E il giardino si svegliava all'alba con questi discorsi di uccelli, con le loro querele peripatetiche, con ronzii d'insetti invisibili e voli di bianche farfalle.

Il canarino ebbe da tutta questa vita, che gli ricordava indefinitamente il bosco e l'odore acre delle piante, quella malinconia dei ricordi che, si dice, tornano nel tempo della disgrazia. N'ebbe singhiozzi di rimpianti e di desideri che gli rompevano il canto nella gola. E gli cominciarono a cadere le penne. Una si posò sul davanzale della finestra e un colombo se la venne a pigliare.

– Oh! dite, amico – gli chiese il canarino dalla sua gabbia – siete di questi paraggi voi?

– Vi pare? – rispose il colombo – Gli è qui che son nato. Guardate laggiù accosto alla grondaia. Vedete voi quel buco tutto nero? Lì ho fatto il nido. E questa penna che vi è caduta, se permettete, la metto al lettuccio dei miei piccini. Dite, vi dispiace?

– Anzi – disse il canarino – fortunato d'esser materasso. Ma sentite, verrete voi a tenermi compagnia qualche volta?

– Perchè no? – disse il colombo – ma di questi giorni non posso; ho i piccini, udite voi come chiamano?

Il canarino non udiva nulla.

– Eh! – fece il colombo – sento io, sento! Quando avrete figli anche voi! Arrivederci.

– Arrivederci.

E quasi ogni giorno lo stesso colombo veniva a pigliarsi una penna caduta.

– Fatemi la finezza – gli chiese una volta il canarino – sapreste voi perchè così spesso mi cadono le penne? Io ne sono assai preoccupato.

Il colombo lo guardò malinconicamente.

– Che volete vi dica?

E non gli volle dire che gli anni e i dispiaceri sogliono far di questi scherzi.

Passò un mese. I piccini del colombo s'eran fatti grandi e strillavano, sporgendo dalla buca le testine ancora spelate. Attorno a quel nido altri nidi si destavano all'alba e un pigolio continuo succedeva sino a quando l'appetito dei piccoli colombi non era soddisfatto. I colombi grandi tubavano all'ombra, empiendo il cortile della dolcezza dei loro amori.

In luglio il colombo grigio si ricordò della conoscenza. Ma in quella mattina avea avuto tanto da fare e s'era così impensierito di certi muratori che erano venuti a mettere scale pei muri presso i nidi, che la visita dovette farla a sera, quando i muratori se ne andarono.

C'era una luna bianca che faceva capolino di su il belvedere delle monache.

– Buona sera – disse il colombo – come state? Sentite che bell'aria fresca?

– Ahimè! – disse il canarino – se sapeste, amico mio! Da tempo in qua sono colto da tale tristezza che a momenti mi pare di morire. Mi spoglio ogni giorno più e mi pigliano brividi di freddo, ed anche provo una grande debolezza. Come mai questo, caro amico?

– Che volete vi dica? – fece il colombo, con gli occhi bassi – Sono cose che accadono. Io son qui di rimpetto, se mai.

E se ne andò, ammalinconito pur lui.

Poi tornò dopo una settimana. La gabbiuzza era vuota. Ma c'era ancora, sulla finestra, una ultima piuma gialla. Il colombo non ebbe coraggio di portarsela via.

E c'era un chiaro di luna quella sera, un chiaro di luna così grande, così grande!..