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Mattinate napoletane

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SENZA VEDERLO

Siccome in questo mondo chi pensa ai casi suoi e mette le cose a posto è chiamato accorto, così, quando dopo la morte di Selletta, spazzino, il quale prima aveva fatto il fiaccheraio e prima ancora avea governato un negoziuccio di commestibili, la vedova Carmela chiuse un suo maschietto all'Albergo dei Poveri, la bambinella mandò a imparar di cucire da una sartina, e si tenne in casa soltanto il marmocchio che le succhiava la vita appeso tutta la santa giornata al petto vizzo, delle vicine parecchie, e furono le più attempate, dissero che avea fatto bene a provvedere a quel modo alle cose sue, sconsolata e impoverita come Selletta l'avea lasciata. Dissero le altre, poche, e furono le mammine fresche del vicinato, le quali cominciavano con la prima maternità a raccôr tutto l'amor loro sui figliuoli, che questi erano il riso della casa e che proprio ci voleva un core assai duro per allontanarli e un coraggio, via, un coraggio!

– Come fate a rimaner tutta sola? – diceva alla vedova Nunziata Fusco, una bionda grassetta, con in collo un bambino biondo, grassotto come lei.

– Dite voi – piagnucolava Carmela – come avrei potuto fare con tre angioletti attorno? Sono tre bocche, sono. E poi Nanninella, voi sapete, torna a sera dalla sarta e la notte m'è compagnia. Impara l'arte, oramai è grandicella. Per Peppino… voi dite che… lì, all'Albergo… è brutto, non è vero?

L'altra diceva:

– Sentite, me ne sarebbe mancato il coraggio. Voi non lo vedete più,

Peppino, e lui non vede più voi. E chi chiama se ammala?

– Come! Allora non sapete niente. Lì si trova come a casa sua e niente gli manca… Ah! è vero – soggiungeva con le lagrime agli occhi – io non aveva pensato a questo, ma già, avranno medici e medicine, e se accade che lui s'ammali, lontano sia, me l'hanno da far sapere.

– Vi dico che non lo fanno sapere – sentenziava la Fusco, carezzando il suo marmocchio, come per dire a Carmela:

– Questo qui, vedete, me lo tengo io, che sono la mamma, e non uscirà mai di casa sua.

La vedova rientrò in casa e corse a baciare così forte il suo piccino, che dormiva nella culla, da farlo svegliare in un sovrassalto. Il piccino piangeva.

– Core mio! – fece lei – zitto, via, zitto. Oggi andiamo a trovare

Peppino.

Era venuto l'inverno a un tratto, con giornate buie e rigide. La casa di Selletta stringeva il cuore, tutta occupata dall'oscurità. Appena, di sotto l'uscio, ci si vedeva il lettuccio di contro le parete ove gli strappi al parato meschino scoprivano la grigia nudità del muro. L'umido penetrava nelle ossa; Selletta lì dentro ci aveva persa la salute.

La vedova imbacuccò alla meglio il piccino e lei si buttò addosso lo sciallo nero che a quello era servito di coverta, nella cuna. Cercava ora la chiave della porta. La trovò nella cenere fredda del braciere che con quella aveva scavata il giorno prima, per riattizzare il fuoco.

– Andiamo da Peppino – ripeteva al marmocchio, chiudendo l'uscio.

La viuzza, trafficata dai piccoli venditori e dal vicinato in movimento, pareva allegra. Nel lontano, per un vicoletto che vi sbucava, una larga striscia di sole tratteneva i passanti, i quali si fermavano apposta in quel po' di caldo a chiacchierare.

– Dove andate? – chiese alla vedova una vicina – Avete vista la buona giornata, e andate a spasso?

– Andiamo da Peppino – disse Carmela mettendo in tasca la chiave.

– Peppino chi?

– Peppino mio figlio, che ho messo a scuola all'Albergo dei Poveri quando Selletta è morto, buon'anima sua. È stato lui che me l'ha raccomandato. Diceva: mettilo lì perchè impara l'arte e non toglie pane alla casa.

– E voi l'andate a trovare?

– Sono tre settimane che non lo vedo, e questo gli farà piacere.

Lasciatemi andare, bella mia, buongiorno.

E tirò via col bambino in collo, trascinando per la mota della viuzza un lembo della gonna lacera.

In quel pezzo della via, soleggiato, lì dove un gruppetto di femmine s'era raccolto a ciarlare, trovò Nanninella che guardava curiosamente, con le manine sotto il grembiale, il panchetto d'un venditore di caramelle il quale si godeva il sole fumando la pipa, gli occhi socchiusi.

– Nannina! – fece la vedova – come ti trovi qui? Che fai?

La bambina le corse incontro, allegramente.

– Non si lavora oggi, la maestra fa festa, ce ne ha mandate via tutte, perchè lo sposo la conduce in campagna.

– Andiamo da Peppino – disse la vedova pigliandosela per mano.

Faceva un gran freddo, ma il tempo era sereno e la via asciutta. La bambina batteva ogni tanto i piedi a terra, per riscaldarsi, afferrata con una mano alla veste della madre che le covriva il pugno. L'altra mano aveva ficcata nella piega dello scialletto, alla vita. A volte, chinando la testa, passava il gomito sulla fronte per trarne indietro una banda di capelli che le veniva sugli occhi. Non voleva metter fuori la mano dallo scialletto.

– È molto lontano? – chiese, a un tratto, quando furono nella via larga di Foria.

– Lì, in fondo – disse la vedova – Vedi quegli alberi? Lì, guarda, dirimpetto a noi. È lì.

– Com'è lontano! – mormorò la bambina.

Allo sbocco di via del Duomo, sul marciapiedi, incontrarono la rivendugliuola che teneva bottega accosto alla loro. La vedova non la vide; in quel momento rincappucciava il bambino. La vide Nanninella. E come la rivendugliola le sorrideva, le gridò passando:

– Noi andiamo da Peppino. Torniamo più tardi!

– Chi è? – fece la vedova, voltandosi.

– Marianna – disse la bambina – è andata a comprare qualcosa.

– Cammina – disse la vedova.

Arrivarono stanche, la bambina non ne poteva più. Cercarono il sole, presso alla grande scala dell'Albergo, ove quello batteva tutto sulla facciata. Sui gradini erano seduti tre vecchietti, Pezzenti di San Gennaro, in chiacchiere con una venditrice di melo.

La vedova s'accostò, guardando nella cesta.

– Me ne comprate, bella figlia! – le fece la venditrice – guardate, ve ne do' tre di quelle grosse per due soldi, guardate.

– Dite – fece la vedova – le posso portare su a mio figlio? Lo permettono, sapete niente?

– Come no? Vi pare? Son mele, non sono cannoni. Pigliatele. Dove le volete mettere?

– Qui – disse la bambina, aprendo il grembiale – mettetele qui, le porto io.

La vedova pagò i due soldi e si mise a salire la scala dell'Albergo, con dietro la bambina, tutta felice delle mele. Sul largo pianerottolo non sapeva dove più andare, le porte erano molte, la scala continuava.

– È qui? – chiese la bambina.

– Ancora più su. Non so. Aspettiamo qualcuno che ce lo dica.

Sentivano zufolare su per la scala, una voce d'uomo s'avvicinava canticchiando:

M'hanno detto che Beppe va soldato,

e che vi han vista pianger di nascosto…

Spuntò subitamente un giovanotto, con le mani in saccoccia e uno scartafaccio sotto l'ascella. Quando fu sul pianerottolo dette una occhiata alla donna e alla bambina e tirò innanzi, continuando:

Far pianger sì begli occhi è gran peccato…

– Signore, signore! – fece la vedova.

– Che c'è? – chiese lui mettendo il piede sul primo gradino dell'altra tesa, e voltandosi.

– Dove si va per vedere… per parlare con un bambino? Io ho qui mio figlio…

– Vi levate presto voi la mattina? Questa non è ora di parlatorio. Ma, via, può accadere che vi facciano vedere il bambino. Andate su, dal segretario.

– Dov'è? – chiese timidamente la vedova.

– Su, al secondo piano, prima porta a destra, ultima camera.

Parlando saliva; a un tratto la vedova non lo vide più. Ma sentì la sua voce dall'alto, mentre saliva anche lei.

– Ultima camera, avete capito?

– Sissignore – gridò la vedova – grazie, signore, Dio ve lo renda!

Il segretario era un uomo assai maturo, molto per bene, con occhiali d'oro, con un bell'anello al dito indice. Sedeva presso la sua scrivania, firmando certe carte che un impiegato gli metteva innanzi una dopo l'altra, asciugando le firme sopra un gran foglio di carta rossa.

Nella camera c'era la stufa, che vi spandeva un tepore dolcissimo.

– Chi siete? Che volete? – fece il vecchio, levando gli occhi dalle sue carte ed esaminando la vedova e la bambinella.

La vedova non sapeva che dire.

– Sono Carmela Selletta, eccellenza, volevo vedere, se è possibile… io ho qui mio figlio… ha sette anni… Giuseppe Selletta…

– Ma, Dio mio! Non dovete venire qui. – fece il vecchio, la penna levata – questo non è parlatorio, Dio mio! Ah! santa pazienza!

– Così m'hanno detto, eccellenza – mormorò la vedova, mortificata – ho incontrato per le scale un giovane e m'ha insegnata la porta…

– Ma non è qui, non è qui – insisteva il vecchietto – e poi, bella mia, non è ora questa di parlatorio.

La vedova rimase muta.

– Come avete detto che si chiama vostro figlio? – soggiunse, dopo un momento, il vecchietto, del quale ora la voce si raddolciva.

– Peppino… Giuseppe Selletta.

– Mazzia, fatemi il piacere, guardate un po' dentro, in archivio, se c'è Larissa, e parlatene a lui di questo ragazzo. Anzi fatelo venire qui, che sarà meglio.

– Come si chiama? – chiese l'impiegato alla vedova.

– Giuseppe Selletta.

Mazzia sparì dietro una portiera. Il vecchietto raggiustò sul naso gli occhiali, soffiò nelle mani e mise sulla scrivania una tabacchiera di argento. Nannina aveva riguadagnato coraggio e s'accostava alla scrivania, guardandovi curiosamente il gran calamaio dorato, sul quale due pupazzetti reggevano a fatica una colonnina per metterci entro le penne. Lo sguardo della piccina incantata passava dal calamaio a un fermacarte di cristallo, sotto il quale si vedeva la chiesa di San Pietro, col cupolone, la piazza e la gente in cammino, tutto colorato.

 

– Sedete – fece a un tratto il vecchietto, dopo una rumorosa soffiata di naso – pigliatevi, lì, una sedia, quella nell'angolo, brava, sedete pure.

Aprì la tabacchiera, tirò su una gran presa e allungò le braccia sulla scrivania.

– Ah, buon Dio di pace e d'amore! – sospirò.

Poi, voltandosi:

– Che cosa avete in braccio? – dimandò, aguzzando lo sguardo di sotto gli occhiali.

La vedova alzò un lembo dello sciallo, scovrendo il piccino che dormiva tranquillamente con una mano sul petto.

– Un piccino? – fece il vecchio, sorridendo – carino proprio! Figlio vostro?

– Sissignore.

Nanninella s'era avvicinata a guardare il fratellino, togliendosi alle contemplazioni del calamaio. Stese la mano per carezzarlo.

– Pssst! – fece il vecchio, sottovoce – lascialo stare, tu. Si sveglierà. Ricopritelo con lo sciallo, poverino.

Appariva Mazzia sotto la portiera, impassibile.

– Dunque? – fece il vecchietto.

– Se il signor segretario – disse Mazzia – vuol favorire un momento…

– Che c'è?

Si levò poggiando le mani sui bracciuoli della sua seggiola, cercando in saccoccia il moccichino di seta rossa.

Ripeteva, camminando:

– Che c'è Mazzia?

Quando il segretario gli fu presso Mazzia lasciò ricadere la portiera e questa li nascose.

– Ora viene Peppino – disse la vedova a Nanninella.

– Ora viene? – ripetette la piccina, sottovoce.

La vedova col capo fece cenno di sì. I due parlottavano ancora dietro la portiera, ma non si capiva nulla di quel che dicessero.

A un tratto riapparve il vecchietto. Pareva molto turbato e veniva innanzi lentamente, con lo sguardo sulla vedova. Si fermò presso alla scrivania, aggiustò un quaderno sotto un libro e, tossì due o tre volte.

– Sentite, bella mia…

La vedova s'era levata, traendo indietro la seggiola.

– Sentite, non si può parlare a quest'ora coi ragazzi… Io ve lo avevo detto, siete venuta troppo presto! Gli è che a quest'ora il ragazzo…

S'interruppe. La vedova lo guardava.

– Mazzia – si volse lui bruscamente allo impiegato – aiutami a dire…

– Il ragazzo è alla lezione – disse Mazzia secco secco.

E si rimise a guardare di fuori, per la vetrata.

– Ecco – disse il vecchietto risollevato-è alla lezione. Qui si è molto severi…

La vedova ebbe un moto di dispiacere. Strinse meglio sul petto il bambino, e rimase lì impiedi, aspettando ancora, sperando ancora.

– È proprio impossibile? – mormorò timidamente.

– Eh? – fece il vecchio – sicuro, impossibile. Voi siete sua madre, non è vero?

– Sissignore, sua madre.

– Impossibile, bella mia – borbottò – come si fa? Dovreste tornare.

Tornate… tornate lunedì, che c'è udienza, non è vero Mazzia?

Mazzia guardava difuori. Non udì e non rispose.

La vedova arrossiva. Cacciò lentamente la mano nel grembiale di

Nannina.

– Perdonatemi – balbettò – io gli avevo portato… gli volevo lasciare… queste mele… perdonatemi…

– Date qua – disse il vecchio.

La bambina già ne avea posate due sulla scrivania, accanto al bel calamaio. Lui prese la terza e la mise presso alle altre.

– Perdonatemi l'ardire – mormorava la vedova.

– Via – fece lui, dolcemente.

– Torno lunedì?

– Sì, sì, lunedì… più tardi. Non venite da me, chiedete del direttore, lui saprà dirvi…

La vedova gli prese la mano ch'egli stendeva a carezzar la bambina, e fece per baciargliela.

– Oh! – esclamò lui, come spaventato – lasciate stare, bella mia. Addio, addio… buona giornata…

Erano uscite. Il vecchietto rimase impiedi presso la porta. Ascoltava il rumore delle ciabatte della vedova su per la scala, la vocetta della bambina che interrogava.

Mazzia si ricollocò di faccia a lui e gli mise innanzi le carte.

– Piano – disse il vecchietto – non c'è fretta…

Vi fu un silenzio.

Il segretario scoteva malinconicamente la testa.

– Glie lo dirà il direttore, lunedì – mormorò – io no, di certo. Non voglio ricominciare la giornata a questo modo.

Asciugati gli occhiali se li piantò sul naso, tossì, soffiò nelle mani e riprese la penna.

– Ah! Signore Iddio! – sospirò – Buon Dio di pace e d'amore!.. Date qua, Mazzia…

LA REGINA DI MEZZOCANNONE

Aprile 1886

Finora Mezzocannone ha avuto solo un re, quel buffo re di creta bronzata, mangiato dal tempo e dalle intemperie nel naso e nelle mani e negli occhi, nero, storto e contraffatto come un Esopo, bersaglio continuo delle invettive delle serve, le quali vanno ad attingere, e delle pietre e dei torsoli onde lo regalano i monelli impertinenti e democratici. Ma questo budello Mezzocannone, questo schifoso intestino napoletano, ha pur una regina. Il re è orribile; la regina è incantevole. Il re si chiamava, al tempo suo, Alfonso II d'Aragona. Ma la regina? Ella vive e regna in fin della stradicciuola. Come si chiama la regina?

* * *

Le prime visite che feci alla via, mosse da ragioni affatto lontane dall'interesse artistico, me la resero sempre più antipatica. Sino a pochi anni fa, al quarto piano d'uno di quegli sporchi palazzetti vecchi, c'è stata una Ricevitoria brutta e scura, nella quale, ogni due mesi, io mi recavo a pagare la tassa della fondiaria, immaginate con quanta soddisfazione dell'anima! Poi, un bel giorno, la Ricevitoria sloggiò; sloggiarono, rimossi in fretta e furia, i cancelletti di legno dai bastoni unti dalle mani dei poveri contribuenti, sloggiarono i gravi registri che chiudono tanti segreti di ristrettezze e di privazioni, sloggiò un cassiere malinconico insieme ad un piccolo gatto grigiastro, il quale annusava specie le gambe dei salumai che venivano a pagare. La Ricevitoria se n'andò e la casa rimase vuota, muta, spalancato l'uscio, sparse le camere di trucioli e di pezzetti di carta lacerata. I miei passi svegliavano un'eco breve e vibrante. Ancora sull'usciolino d'una delle stanzucce si vedeva un'addizione; i numeri erano segnati con la matita. Non avendo a fare altro collaudai l'addizione, con le mani in saccoccia e l'anima tutta dietro i miei tisici ricordi aritmetici. Il cassiere avea ragione, la somma era giusta; 14,780. Vi dirò pure, non senza una certa mortificazione, che, avendo, per una radicata superstizione napoletana, ripassati i numeri nel mio taccuino, quando scesi dalla casa abbandonata me gli andai a giocare al lotto. Naturalmente non vinsi nulla, la sfortuna mia essendo grande come la provvidenza del buon Gesù.

In verità, quando mi trovo per cose mie per gusto mio particolare a scendere per una cosiffatta stradicciuola, mi si stringe l'animo. Dov'è l'azzurro, dove il sole, dove il buon sangue e la buona salute nelle persone, dove l'aria e la luce nelle case e nelle botteghe? Da pertutto penombre ed oscurità fitte, facce smunte e scolorite, in cui solamente palpitano i neri e vivi occhi napoletani, pieni di desiderii e di curiosità, tutti luminosi d'anima. Una pietà grande queste povere donne pallide, questi lavoratori di metalli, dallo sguardo lento, dalla pelle sudata, traspirante il veleno delle ebollizioni di piombo o di rame, questi tintori che si movono nell'oscurità, sotto un lumicino che pende dal soffitto, un lumicino rosso, quasi infernale. E i bambini che trascinano i piedi nudi, per la mota, i piccoli piedi indolenziti, un vecchio che cerca invano un pezzetto di sole per la sua panchetta di franfellicche, e la buia, misteriosa cantina che raccoglie tutta la gente affamata e puzzolente del quartiere, la cantina della miseria, in cui, al venerdì, il fetore del baccalà fritto nell'olio soffoca il respiro, provocando le piccole tossi dei piccini che una famiglia di straccioni porta a mangiare nell'orrida caverna.

* * *

Dirimpetto, l'antica fontanella mormora sempre. E par che il borbottio si parta dalla sconquassata bocca del re sovrastante, di questo ammantellato padrone della strada, e lamenti la miseria del tempo. Tutto roso dall'umido e dallo stesso tempo ingrato, che a poco a poco ha fatto di lui un personaggio da burla, vuote le occhiaie come colui della bibbia che in castigo ebbe mangiate le pupille dai vermi, l'infelice coronato pur vive ancora e concede la limpida vena dell'acqua a un popolo chiassone. L'acqua cade e si spande e allaga per buon tratto la via, commista a' nuovi rivoletti di un'altra fontanella che più in su è posta sul pendio, accanto alla bottega di un torniere – una fontanella municipale, delle solite. E però, di state e di verno la via è sempre lubrica; i pochi fanali che vengono fuori, uscendo come dalle finestre, lasciano piovere una scialba luce sul selciato sconnesso, che somiglia una disgregata sutura di un cranio in cui s'infiltrino fantastiche lacrime. E qua e là, per terra, si fanno bianche lucentezze sulle gobbe dei più gibbosi lastroni. Nel lontano, ove la strada è per finire, pende da un balconcello un fanaletto verde sul quale è scritto qualcosa in bianche lettere: Albergo del pavone. Un letto vi costa quattro soldi. Dal balconcello certo non si può aver sott'occhio un felice orizzonte; non c'è' dirimpetto eh? una scala, e in capo alla scala un immane Cristo in croce, rifatto dagli ultimi furori religiosi, dopo il colera. Nella notte, con innanzi ed ai lati alcune lampade accese, il gigantesco Cristo è vivo e terribile…

La via è sempre affollata. Vi sale e scende il commercio di Porto, della Marina, della vicina strada dei Mercanti, di tutte le stradicciuole circostanti. Gli operai, intenti alla loro bisogna nelle botteghe, non levano mai lo sguardo ai passanti e continuano a lavorare fino a notte, tra il gridio del difuori e l'interno affaccendarsi per l'opera.

C'è, a un posto di Mezzocannone, presso un caffettuccio, ove si giuoca a carte, una bottega di ricamatrici. Intorno al telaio, come attorno al una tavola, seggono quattro o cinque povere ragazze, curve sui ghirigori d'argento o d'oro, sui cuori di seta cremisina, sui fiori dai pistilli di conterie luccicanti. Tra costoro è una rossa pallidissima, un po' lentigginata sulla faccia di madonnina bisantina. L'oro del ricamo non ha più luce di quello dei capelli di lei, che, a volte, rischiarati da un filo di sole, si accendono. Questa è la reginella di Mezzocannone.

* * *

La piccola rossa, le labbra strette, gli occhi intenti, le bianchissime mani ravvicinate trapassa con l'ago la trama e non ne stacca l'attenzione, per ore ed ore. È la prima dalla parte dell'uscio. Ma chi passa, in quei momenti di raccoglimento, non vede di lei altro se non la banda dei capelli fulvi, un impreciso profilo, un pò della guancia d'avorio fine. La reginella ricama.

In un tramonto estivo, nel quale si spegnevano l'ultime luci perfino nella bottega delle ricamatrici, la rossa – è chiarissimo il ricordo nell'anima mia – aveva poggiato il gomito sull'asse del telaio, e nella bianca mano raccolto il mento, leggermente china da un lato la testa angelica, gli occhi nel vuoto, sognava. Le altre sommessamente, chiacchieravano: la principale preparava i lumi. Un grande silenzio s'era fatto per la via. La dolcezza del tramonto penetrando nell'anima la piccola rossa, socchiuse le labbra esangui, lo sguardo perduto, continuava a sognare, come una santarella in un'aureola di pulviscolo d'oro.