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Mattinate napoletane

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L'IMPAZZITO PER L'ACQUA

26 Maggio.

Ieri un acquafrescaio del vico Marconiglio è stato spedito all'ospedale dei matti. Era un giovane pallido, un po' grasso, muto e pensoso. Altri dà di volta per mancanza di denaro, per fede politica, per ambizione; costui è impazzito per l'acqua di Serino. Così dicono quelli della sua famiglia, in cui la professione di venditori d'acqua è atavistica. Ma il vicinato dico che no, dice che Peppino Battimelli è ammattito per amore.

Peppino Battimelli aveva la sua banca in un cantuccio in penombra, nel vico Marconiglio, sotto un balconcello dalla balaustra di colonnine di legno, una balaustra a petto di colombo, come se ne vedono spesso nei quartieri bassi di Napoli. Tra le colonnine barocche, in maggio, le rose d'una capera fanno capolino qua e là e l'edera selvaggia s'attorciglia al legno antico. Un merlo impertinente ripete, senza mai stancarsi, il suo ritornello chiaro e vivace, da una gabbia che rimane, anche la notte, attaccata ad un chiodo, fuori al banconcello. Disotto c'era la banca Battimelli. Niente di più primitivo della pittorica decorazione di questa banca. Sulla faccia di mezzo una larga via, una signora ed un signore a braccetto, con alle calcagne un cagnolino. Alberelli in fila a destra ed a manca. Cielo di verderame carico. Sulla faccia a sinistra una fontana pubblica tra cespi di fiori strani, un ragazzetto che si manda innanzi il cerchio e, in fondo, un palazzo rosso con le finestre verdi. Sulla faccia a destra il mare. Un pescatore accoccolato sopra uno scoglio ha preso all'amo un pesce più grande di lui e lo tira su con la lenza. In fondo il Vesuvio in eruzione. È giorno, ma il pittore se n'è scordato e ha fatto scendere per le falde del monte la lava rossa. Alcune bianche vele s'allontanano pel mare.

Tutto ciò pei monellucci del vico Marconiglio era stupendo. Nella controra afosa tre o quattro di loro, non avendo a far altro, si mettevano in contemplazione dei dipinti della banca, inginocchiati come innanti ad una immagine di Santa Lucia benedetta. Peppino Battimelli, in camicia azzurra, rimboccate le maniche fino ai gomiti, sognava in una gran seggiola alta che lo faceva troneggiare sulla banca, sui limoni in fila, sulla fila riverberante delle giarre di vetro sottile, capacissime. Un alito di fuoco passava nel vicoletto, al tramonto. Le pietre sconnesse del selciato ardevano. Ma la luce, in questo vico Marconiglio stretto e scuro, anche nell'estate, è mite; sul cadere del sole, mentre la gente si sveglia dal torpore della giornata, il vico si rianima di moto e di voci; la capera s'affaccia, sbadigliando, al suo balconcello e incorona per poco la balaustra delle bianche braccia nude, tornite e lisce. Rimane un poco a guardare nella viuzza, chiacchiera con una sua comare, e torna in camera per riuscirne dopo un pezzetto, con un secchio in mano. Inaffia le rose e si china ad aspirarne il profumo. Quando c'era di sotto Peppino Battimelli la capera lo salutava, picchiando col secchio di latta sulla balaustra.

– Peppì, bonasera.

Lui rispondeva, con gli occhi levati:

– Bonasera.

– Sentite che caldo nfame?

– Sì.

– Peppì, io sto adacquanno 'e teste, si cade l'acqua dicitemmello, ca me dispiace.

– Nonzignore, l'acqua nun cade.

– Pecchè me dispiacciarria, Peppì…

– Nonzignore.

La capera sospirava e rientrava, lentamente. Impossibile commovere quest'acquaiolo malinconico. Nella stanzetta che già andava accogliendo dolci penombre, lo specchio luceva in un cantuccio. La capera ha dovuto spesso mirarvisi. Ancora i capelli neri erano copiosi e belli, ancora, tra la frangia diffusa, gli occhi neri splendevano, ancora la bella bocca era rosea. Che importava la sua vedovanza? A volte meglio una vedova che una zitella. Ma Peppino non ne voleva sapere. Che peccato!

Verso le cinque o le sei della sera le comari del vico scopavano le case. Qualcuna si pigliava briga di rinfrescare il selciato arso, buttando acqua qua e là. Il selciato si macchiava di tante chiazze nere, onde saliva un tanfo di polvere cacciata via dall'acqua. La viuzza faceva toletta. Ma, dopo, aspettando che vi arrivassero, da tutte l'altre vie del quartiere, gli operai dal lavoro, le femmine dalla fabbrica dei tabacchi, le rivettatrici dalle botteghe dei calzolai, i cenciaiuoli ambulanti con la gerla piena di stracci e di cappelli vecchi, la viuzza taceva, presa da quella malinconica pace delle stradicciuole napoletane, ove ogni casa nasconde e cova un dolore. Peppino Battimelli continuava a meditare.

* * *

Tempo fa capitò nel vico la mamma, una vecchia. Chiese conto a tutto il vicinato di quello che il figlio di lei, Peppino, facesse, stando a vender acqua. Rispose ognuno: Che volete che faccia? Vende l'acqua.

– Diciteme 'a verità!– insisteva la vecchia.

– Ma ch'è stato?

Allora quella raccontò che il figlio aveva dato di volta. Non si sapeva perchè. Non aveva voluto mangiare, non bere; s'era spogliato nudo e voleva precipitarsi dal balcone Un balcone al quinto piano, al vico Fico. Nemmeno l'ossa si sarebbero trovate.

– Ma avite appurato pecche è mpazzuto?

– Gioia mia, pe l'acqua d'o Serino. L'acqua nosta nun se veve cchiù. A che simmo arrivate! Come fosse veleno!

A casa – seguitò la vecchia – Peppino nominava sempre l'acqua di Serino. Un'ingiunzione municipale che ordina agli acquafrescai di non vendere acqua che non sia di Serino aveva colpito per lui, giorni addietro. Il giovanotto se c'era fissato. Domenica scorsa, bestemmiando – Gesù, lui che non ha mai bestemmiato! – in un impeto frenetico ha afferrato un coltello e si voleva ammazzare. Poi ha strappato la gran chiave all'uscio di casa e si è dato in capo e s'è ferito. Il medico ha detto che è pazzo. Ma guarirà.

La vecchia piangeva. Tutte le comari si sono intenerite e anche la capera del suo balconcello pieno di rose. Intorno alla vecchia s'era radunata gran gente. Quando la madre di Peppino se n'è andata i commenti duravano ancora.

– Vuie vedite 'a fantasia 'e l'ommo addò va a sbattere!– ha esclamato una rossa, in camicetta bianca.

E ho visto la capera che rispondeva dal balconcello, col secchietto in mano:

– Quanno uno sta sulo sbarca. Quann'è nzurato penza 'a mugliera. Chi tene belli denare sempe conta, e chi tene bella mugliera sempe canta!

– È overo– ha detto la rossa —Ma Peppino 'o teneva o nun 'o teneva, 'o core mpietto?

– I che saccio! – ha esclamato la capera, ridendo.

La rossa, che ha intorno una nidiata di marmocchi, ha levate le braccia, gridando a tutti i maschi del vico:

– Uommene! Uommene! Nzurateve!

Il mistico matto era dimenticato. Le femmine gridavano con la rossa, le braccia tese:

– Nzurateve! Nzurateve!

E sopra le soglie dei bassi, nelle botteghe, nella via, gli uomini ridevano, contentissimi, e ridevano pur le femmine incitanti, e negli sguardi accesi degli uni e dell'altre il desiderio luceva. Era, in quest'ora, ancor tutto caldo di sole il vicoletto. Il diavolo del terzo peccato alitava sulle facce sudate, passando improvvisamente tra quello scoppio di miserevole brutalità…

NOTTE DELLA BEFANA

Il letto di Chiarinella l'avevano collocato in un angolo ove arrivava tutto il sole. Nel verno, quando il sole era dolce, la poverina s'addormentava in un'onda luminosa, che le scaldava le manine esangui sulla coverta. Tutta la giornata rimaneva sola; la chiudevano in casa e portavano via la chiave, abbandonandola a tutti quei pensieri, a tutte quelle paure che hanno i bambini quando non si vedono accosto nessuno. Lei dapprima avea pianto, con la testa sotto alle lenzuola, tutta raggranchita, non osando gridare a non spaventarsi peggio. Provava timori strani, le pareva che non dovesse stendere le gambe perchè qualcuno, un mago, un essere spaventoso, le avrebbe afferrato i piedini tirandola; non metteva fuori la testa, chissà si sarebbe trovato di faccia un volto mostruoso con gli occhi spalancati che la guardavano di sopra alla spalliera del lettuccio. A momenti credeva di sentir battere alla porta quello scemo orribile, a cui venivan le convulsioni nella strada e che una volta le era corso appresso, urlando. Poi, quando la malattia la ridusse che non poteva più muoversi, rimase lì nel suo cantuccio, istupidita e indifferente, come se niente più la colpisse.

Lassù, in quella stanzuccia al quarto piano, ci dormivano la Malia, ch'era ballerina a una baracca, donna Bettina e il marito. La Malia andava al concerto per tempo e toccava alla madre accompagnarla; la ragazza tornava di notte tutta freddolosa nello scialletto rosso, con le mani nel manicotto spelacchiato, che lei stessa s'aveva fatto dalla pelle di un gatto bianco e nero. Donna Bettina le portava nell'involtuccio la vestina di veli, il corpetto rosso a frangia dorata e le scarpine piccole piccole come quelle di Cenerentola. Malia, quando qualcuno dei giovanotti che frequentavano la baracca le avea regalato dei pasticcetti nell'intermezzo, entrando in casa si buttava sul letto tutta stracca, senza nemmanco spogliarsi. Quando no, andava rovistando per la casa se trovasse qualche cosa da rosicchiare e strepitava, dicendo che se no sarebbe andata via un bel giorno col primo venuto, che era una vita infame e così non poteva durare. Donna Bettina diceva: Vattene, vattene, che è meglio; una bocca di meno! Nella notte, mentre la lampada ardeva innanzi a una Madonna sul canterano, lei chiamava sotto voce:

– Chiarinella!

La bambina non avea chiuso occhio. Rispondeva sommessamente.

– Ah?

– Dimani mamma ti compra un soldo di latte, hai sentito? Ti farò compagnia, non ci vado al teatro…

 

– Sì? sì! – pregava lei – non ci andare, fammi compagnia!.. Senti, mamma…

Quella balbettava, lasciandosi vincere dal sonno:

– Zitta ora, dormi… domani… domani… La camera taceva. Chiarinella era sempre l'ultima ad addormentarsi; sentiva per un pezzo ancora il respiro forte ed eguale della sorella, che alla baracca avea ripetuta una piroetta e s'era affaticata. A volte la coglieva la sete; scendeva, a tentoni, cercando il bicchiere sulla scanzia a cui le sue piccole braccia magre appena arrivavano. Certe mattine la veniva a vedere la Nunziata, una vicina che le avea dato latte quando Bettina non ne aveva.

– Povera piccina! – faceva – povera Chiarinella mia!

Le portava un'arancia fresca, sedeva accosto al letto e si metteva a toglierne la buccia e la pellicola, dividendola a spicchi che la bambina succhiava avidamente, in silenzio.

– Par nata muta – diceva Bettina, quando ne parlavano.

– No, no, è la malattia. Stateci attenta, sapete, non si scherza, s'è fatta magra come uno spillo. Che v'ha detto il medico?

– Quale medico? Come avrei potuto chiamarlo? Ah! Nunziata mia, voi non sapete i guai miei!

E si metteva a raccontarglieli sotto alla porta, mentre la Nunziata a ogni momento correva dentro a invigilare il ragù, di cui l'odore piccante entrava nella camera di Bettina, Guai grossi. Il marito se n'era andato a Palermo, sopra un legno di Florio e chissà quando tornava. Denari niente. A Natale soltanto avea mandato trenta lire, sparite via come il fumo. Malia se ne avea prese otto per una cinturella dorata che le serviva nell'Orfeo all'inferno, al terzo quadro. La casa si sfasciava, abbandonata alla miseria, senza sistema, senz'amore. Non c'era più niente, Malia avea saccheggiato tutto, il Monte di Pietà era pieno dei panni loro.

– Oh! Gesù! – diceva Nunziata, rabbrividendo – Come potete stare così?

Mettetevi a fare la serva, i posti ci sono.

– E Malia? La lascio sola? E Chiarinella?

– Per la bambina, se la Provvidenza ve la fa guarire, me la tengo dentro da me colle figlie mie – disse Nunziata – intanto Malia potete lasciarla fare. Lei non è stupida, baderà.

– Oh! no, mai sola! – protestava Bettina – Voi sapete il mondo com'è cattivo!

Ma in fondo era per questo, che alle cenette dopo il teatro ci andava anche lei, e a volte avea messo in saccoccia qualche pollo freddo, mentre la figlia teneva a bada quelli caldi che le facevano la corte per gli occhi belli che aveva.

Tira, tira, la corda si spezza. Negli ultimi giorni dell'anno Chiarinella non la si riconosceva più. Si lamentava tutta la notte, piangendo sola, con la testa abbandonata che aveva fatto il fosso nel cuscino. Nel giorno della Epifania, Nunziata entrò a vederla e le spuntarono le lacrime agli occhi. Lei poverina, le sorrise, le mostrò, senza parlare, l'arancia che aveva nascosta sotto alla coperta, sul petto.

– Senti – disse Nunziata – ti vengo a far compagnia. Io ti voglio bene. Sai oggi che festa è? Oggi è l'Epifania. Stanotte arriva la Befana che va da tutti i buoni piccini. Bisogna mettere appesa una calza a capo al letto. Se la bambina è buona la Befana viene a mettervi un regalo bello; se è cattiva vi mette i carboni.

– Senti – soggiunse – ora me ne vado, ti mando Cristinella.

Dopo poco la figlia di Nunziata, una bambina di cinque anni, entrò, allegramente. Si recava in braccio una bambola di legno, alla quale avea messo il suo grembiale ed una cuffietta ricamata.

– Guarda com'è bella – esclamò, sedendo sul lettuccio – falle un bacio.

Glie l'accostò alla bocca. Chiarinella la baciò in punta di labbra.

– Si chiama Angelica – disse Cristinella – È figlia a me.

La strinse nelle braccia e si mise a cullarla, cantandole la ninna nanna.

– Oooh! oooh!

Poi subitamente la posò sulla coverta.

– Tu che hai? Sei malata?

– Sì.

– È cosa da niente, cosa da niente – sentenziò, come aveva sentito dire qualche volta alla mamma – una buona sudata e passa.

Come l'altra non diceva nulla, Cristinella si seccò. Aperse la bocca rosea con un lungo sbadiglio e si allungò sul lettuccio, nel sole.

– Sai guardare il sole?

– No.

– Io sì, guarda.

E si mise a fissarlo. Ma gli occhi le si empirono di lagrime. Allora, dopo averseli asciugati, riprese la bambola o scese dal lettuccio.

– Io me ne vado – disse – debbo preparare il letto a questa qua! Uh! – esclamava, baciando la pupattola – quanto sei bella! vieni con mamma tua!

Chiarinella rimase sola. Dopo un momento scese, rovistò in un angolo, trovò quello che cercava. E trascinandosi sino al letto, con uno sforzo che dopo la fece piangere, attaccò al bastone della spalliera una piccola calza bucherellata.

La Bettina in tutta la giornata tornò a casa due volte e poi riescì per accompagnare Malia che faceva Venere, in Orfeo.

A notte la piccina, che sonnecchiava, udì una voce maschile su per le scale e la voce di Malia.

Diceva Malia:

– Addio… ciao… grazie…

La notte della Befana era fredda, ma chiara e stellata. Un grande silenzio s'era fatto nella viuzza solitaria, un grande silenzio si fece nella stanzuccia quando Bettina e Malia chiusero al sonno gli occhi stanchi. Una delle rosee calze della ballerina pendeva accapo al suo letto. Ella stessa ci aveva lasciato cader dentro, sorridendo, un piccolo anello d'oro, un paio di profumate giarrettiere di seta. Era stata Befana a sè stessa, prevedendo che la Befana avrebbe lasciata vuota la calza. Nelle case de' poveri quella non entra.

Chiarinella dormiva, sognando la pupattola della sua piccola amica.

Alla dimane Malia si svegliò un poco più per tempo del solito. In tutta la notte l'anellino e le giarrettiere le aveano parlato all'orecchio. S'accostò alla finestra e si mise ad ammirare i regalucci, stropicciando una cocca del grembiale sull'anello lucente.

– Bello, bello! – faceva donna Bettina, di sulle spalle della figliuola.

Chiarinella stese la mano, staccò la piccola calza dalla spalliera del letto e vi guardò entro. Il suo cuoricino batteva forte.

Ma nella calza non c'era niente.

Malia si lavava, canticchiando, le belle spalle bianche, nude, assalite dai brividi. Il bacile di latta si empiva di spuma candida, fiocchi di neve ne cadevano intorno. Ancora il sole non era arrivato alla stanzuccia, ma per le vetrate appariva il cielo azzurro, limpidissimo, sul quale la Befana aveva, nella notte, ripassata la sua scopa di penne di pavone.

La piccola calza bucherellata era caduta sulla coverta del lettuccio, e da presso due piccole mani vi si abbandonavano, esangui. Tra tanta infantile minutezza le cose più grandi eran due lacrime, che scendevano per le gote di Chiarinella.

SCIROCCO

La mattinata umida e malinconosa, senza raggio di sole, moriva tristamente nelle ultime luci fredde e annebbiate dell'imbrunire. A' rumori che nel giorno l'aria spessa e pesante aveva ammortiti, alla vita della mattina piena di movimento, di voci, di strepiti, che il tempo uggioso avea resi come sordi e sfiniti, succedeva adesso, dopo un paio d'ore d'ozio snervante, l'impaziente rivoluzione della sera, che pareva volesse reagire a quel torpore durato così a lungo tra l'aspettare invano i soliti piccoli avvenimenti e il raggomitolarsi con lo spirito e il corpo in un malessere d'insofferenza che la giornata metteva ne' muscoli e nel sangue.

Alle quattro era venuta giù un po' d'acquerugiola fina e diaccia, che filtrava i brividi nell'ossa, e a guardarla si sarebbe detto che fosse bigia come il cielo e piagnucolosa come un'ostinazione di bimbo malaticcio. Laggiù, in piazza S. Ferdinando, i cocchieri del posto bestemmiavan sottovoce, la testa insaccata fra le spalle, il tappetino della vettura sulle ginocchia strette.

– Che, divertimento ah? – La gente s'era scordata d'andare in carrozza. Ognuno casa sua la teneva a quattro passi, e poi col sole che c'era veniva la voglia di farsela una passeggiata co' piedi nelle pozzanghere. – E così la giornata se ne scivolava… – Ohè?.. vengo? vengo?..

Ora tutte le fruste schioccavano; qualche signore dal marciapiedi di faccia voltava gli occhi a destra e a manca, aspettando che spuntasse una carrozzella di passaggio per risparmiare un paio di soldi, che, tanto si sa, quelle del posto non si muovono se non le trattate a dovere e voglion la corsa intera per quattro passi come le hanno avvezzate i signori ricchi che portano il collo stretto nel solino, lo staio sulle orecchie e vanno a Chiaia senza sporcare i cuscini, con lo palme delle mani sulle cosce. Ma intanto con quel tempo e con quella scarsezza il posto s'arrendeva, lasciandosi fare. – Otto soldi al Museo – diceva il signore – Datemi mezza lira – E l'altro duro: Otto soldi. – Il cocchiere ci pensava un pezzo prima di decidersi a pigliarlo per quella miseria, ma intanto come il signore s'impazientiva e faceva per voltargli le spalle, e allora con un santa pazienza lo chiamava:

– Sentite… andiamo… salite.

Dal posto i compagni stavano a guardare, seguendo con gli occhi il battibecco, indovinandone le offerte e le transazioni. Lui pel sacrificio che aveva fatto si sfogava con la povera bestia, la quale scotendosi tutta con un balzo alla prima frustata incollerita che le toglieva il pelo, rabbrividiva di sorpresa e di dolore. E mentre nel pigliar l'aire dava una strappannata al panciere, lui ritto in serpa, mangiandosi la lingua, scoteva la mano all'aria due volte, e spiegava le dita a mostrare ai compagni quanti soldi pigliasse.

Le ombre scendevano rapidamente: dalle basi rotonde de' fanali, di cui la fiamma a gasse si dondolava leggermente fra i vetri appannati, la striscia nera della colonnina si proiettava ad angolo su i marciapiedi umidi, e in cima la lanterna ingrandiva smisuratamente, spandendosi. C'era poi, sopra l'insegna di un magazzino, il grande orologio di Riccio, che luceva da tutte e due le facce, pallido come la luna, e faceva venir la malinconia, malgrado vi fossero sopra due grandi ali dorate come quelle degli angioli a lato dell'altare maggiore.

Allungandosi lo sguardo arrivava sino al principio della scesa del Gigante; laggiù il verde cupo degli alberi si fondeva col cielo tutto d'un pezzo, nero come il carbone.

Ma nello spiazzato innanzi alla gran massa del palazzo reale, tutti i lumi s'eran data la posta come ogni sera, e assieme ai fanali grandi a cinque rami, di sotto alle colonne del peristilio, le lampade a bomba rischiaravano la piazza deserta e silenziosa, ove pareva che andasse a morire nell'immensità del vuoto tutto il romorio di Toledo.

In questa brutta serata di marzo, come sonarono le sette all'orologio di piazza Dante, tanto debolmente che appena lui potette seguirne i rintocchi, Manlio si decise ad uscire. Dopo aver leggiucchiate le prime pagine di un romanzo nuovo, di cui si era annoiato a morte, fra le cinque e le sei di sera s'era buttato sul letto, volendo gustare, per la prima volta dopo un mese, la voluttà del sonno a quell'ora. Così tra l'appisolarsi e il rimaner cogli occhi aperti per un pezzetto a guardar nel soffitto le ragnatele lasciate in pace, stette un'ora buona, in forse se dovesse uscire o rimanersene a casa, ora che il tempo minacciava.

Manlio: un bel nome, di cui doveva la romanità severa alla madre buona e intelligente che s'era ridotta in provincia a seguire il marito e c'era rimasta perchè lui contava di raggranellare il suo po' di sostanza, vendendo dei fondi che da assai tempo lacerava a furia di liti l'ostinato accanimento di tre eredi, fra i quali egli era primo. Con le buone parole, co' sacrificii e la pazienza lui si era fitto in capo di spuntar la faccenda e le cose andavano bene. La signora Maria scriveva al figliuolo, ogni settimana, lettere piene di cuore e di rimpianti, promettendo, a rassicurarlo, che sarebbe tornata subito, arrischiando timidamente, con una dolcezza di parole che nascondevano la severità, dei piccoli ammonimenti nei quali tremava, inconsapevole, il suo grande amore di madre lontana. Manlio, leggendole, si commoveva. Ora la solitudine, che fra tutte le sue vaghe aspirazioni di fanciullo nervoso, era stato sempre il desiderio più intenso, lo spaventava, rimettendogli innanzi agli occhi il ricordo di certe sere calme d'inverno, quando la pioggia batteva a' vetri ed essi chiacchieravano sottovoce nel tepore della stanza, mentre il padre leggeva la gazzetta e fumava. Nei brevi momenti di silenzio, quando la signora Maria s'era lasciata scappare una maglia della calza che lavorava, s'udiva dal lettuccio il respiro uguale della bimba che dormiva con una manina sul petto. Che sere! Lui raccontava i suoi progetti, si animava facendo mille castelli in aria, lasciandosi trasportare, gesticolando sottovoce e la brava donna sorrideva, contemplandolo tutta pensosa, e le maglie della calza scappavano. Ma eran sogni d'oro quelli che lo cullavano allora; dormiva sino a giorno tutto d'un fiato sotto la coltre doppia che, a volte, quando non aveva ancor chiusi gli occhi, sentiva a rimboccarglisi sotto al mento dalle mani leggere della madre…

 

Questo pensava Manlio in quella sera di marzo, smaniando sul letto, che scricchiolava, voltandosi da tutte le parti come se fosse sulle spine. All'ultimo, mentre l'oscurità empiva la stanzuccia e lui non vedeva altro se non di faccia, il vano della porta anche più nero dell'ombra, una strana inquietitudine lo prese. Quasi gli venne paura che da un momento all'altro, così, solo com'era, in quel silenzio, in quella oscurità avesse a mancargli la vita. Quando si levò, cercando tentoni i fiammiferi, le mani gli tremavano e durava fatica a tirar su il flato.

– Impossibile – mormorò, com'ebbe acceso il lume e gli tornò l'animo – impossibile… Questa è vita che non può durare…

Si vestì e scese. Mettendo il piede nella strada si ricordò di non aver preso il paracqua. Stette un momento in forse se dovesse risalire o tirar via facendone a meno, tanto era un'acqueruggiola minuta che non faceva male e poi rifar daccapo settanta gradini era una cosa che lo seccava abbastanza. Si mise in cammino, scendendo per Toledo, con le mani in tasca e la testa china, tutto pensoso. Che si sentisse dentro lui stesso non lo sapeva: era un malessere, un'oppressione, un'insofferenza, che lo rendevano odioso a se stesso; fra tutto lo impensieriva ora come un intuito delle disillusioni che gli toccherebbe a sopportare; indovinava le aspettative insoddisfatte, cui da un momento all'altro si troverebbe di contro nella sua piccola vita serale, della quale si faceva il conto che il tempo cattivo dovesse romper le abitudini. Difatti entrando nel caffè ove gli amici erano soliti a raccogliersi accanto alla gran tavola di marmo, trovò ch'essa era deserta, e andò a sedervi aspettandoli. Chiese il caffè e gli parve addirittura acqua calda; lo sorbì tutto d'un sorso dopo averlo fatto raffreddare, non volendo avere la pazienza di centellinarlo col gusto che ci pigliava ogni sera. Nel caffè c'era una piccola orchestra che di colpo si mise a sonare un walzer fritto e rifritto, un'antipatia di musica frettolosa e saltellante, che mise una gaiezza stupida fra i consumatori. Lui, di faccia a un borghese, che batteva il tempo col cucchiaino nel vassoietto, si sentiva un formicolio nelle mani; gli avrebbe voluto buttar la chicchera in faccia.

Cominciava a dolergli la testa; gli occhi, in quella nebbia, che il fumo dei sigari spandeva nel locale chiassoso, gli s'intorbidivano, e gli diventavan piccoli. A un momento, mentre uno spilungone di maestro di musica batteva sconciamente sui tasti del pianoforte, egli sentì il colpo secco e la vibrazione, per un secondo, d'una corda che si spezzava facendo «zin!», cosa che gli accapponò la pelle. S'alzò guardando all'orologio sul pancone del principale; erano le nove, gli amici non sarebbero più venuti.