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E, lentamente, con le labbra strette, infilò la porta che riusciva sulla piazzetta innanzi al Municipio. Pioveva sempre allo stesso modo. Lui si mise a camminar dritto avanti a sè, non sapendo che via pigliare per tornare a casa più presto, ora a piccoli passi, ora affrettandoli per trovarsi subito fra le sue quattro mura. E camminando si rodeva dentro con gli amici che non eran venuti, con la umana leggerezza che dimentica tutto, con sè stesso che era tanto ingenuo da contare su tutti. Avrebbe voluto che i compagni avessero indovinata la sua solitudine in quella sera, avrebbe voluto che fra essi uno solo almeno avesse pensato a farsi trovare per tenergli compagnia.



I suoi nervi in quel momento avevano acquistata una tensione straordinaria. Gli scoppi rumorosi delle fruste, quando gli passavano accosto le vetture, lo irritavano, bestemmiava sottovoce, sbuffando, come inciampava nell'oscurità col piede in una rotaia di tranvai che lo sbalzava da un lato, sorprendendolo dolorosamente. La luce dei magazzini gli abbagliava gli occhi; a volte sentiva fra le spalle come delle punture di aghi, che gli davano per un momento l'irritazione d'una bestia inquieta.



Ora si trovava di faccia al teatro S. Carlo. Entrò lentamente sotto il porticato. Si fermò a leggere un cartellone mezzo lacerato che pendeva a uno de' muri. S'accorse che sotto a quel muro una persona, che lui conosceva molto da vicino, stava tranquillamente accendendo un sigaro. Si adocchiarono nello stesso momento; Manlio s'accostò, con la mano stesa.



– Buonasera, signor Roberto.



– Buonasera, Manlio; come va?



– Eh! – disse lui, facendo spallucce – Son seccato…



L'altro, passando il sigaro nell'angolo delle labbra, fece per incamminarsi. Manlio gli tenne dietro, stringendoglisi accosto. Gli pareva, che quegli non gli avesse detto addio per stare un po' assieme, e intanto già s'annoiava della compagnia.



Costui era un uomo in su i quaranta, scriveva per i giornali, era tenuto in molta stima nel suo paese e godeva d'una certa fama di serietà che lo onorava. Quella sera aveva l'aria d'uno cui è capitato un guaio e, piccolo piccolo com'era, col gran cappello su gli occhi, il bavero del soprabito alzato, faceva quasi compassione.



Dopo un momento di silenzio, camminando sempre, disse:



– Dove andate?



– A casa.



– Che brutto tempo!.. – fece l'altro, senza guardarlo in faccia.



– Tempo canaglia… – rispose Manlio, coi denti stretti.



Vi fu un altro momento di silenzio, poi, lentamente, quello del sigaro mormorò con un risolino forzato:



– Come mi vedete ho perduto poco fa duecento franchi.



– Ah? – fece Manlio, senza commuoversi, come se non avesse capito bene.



Poi non vi fu più una parola. Il signor Roberto camminava tutto astratto, a capo basso, studiandosi di mettere il piede sempre nel mezzo delle lastre del selciato, provando una piccola contrarietà quando per inavvertenza gli capitasse tra le commessure. Manlio non vedeva l'ora di toglierselo d'accosto. Ora una collera sorda lo irritava contro quest'uomo che perdeva duecento lire come se niente fosse e se ne andava passeggiando in una serata come quella. E l'altro, mentre badava stupidamente a regolare il piede in modo che si trovasse sempre nel mezzo del lastrone, pregava tutti i santi perchè mandassero via questo giovinotto pittimoso, del quale la muta e pesante compagnia gli cadeva addosso come un incubo. Così per venti minuti di cammino, tornando a poco a poco ciascuno alle sue idee nere, quasi non accorgendosi più della loro vicinanza, non aprirono bocca. A un punto, sul marciapiedi poco discosto dalla casa di Manlio, una donna, una signora bellissima, sola, stretta in un lungo sciallo nero, alta, pallida, fiera, passò loro accosto. Fu come una visione.



– Che bella donna! – mormorò Manlio, come parlando a se stesso.



– Bellissima… – sospirò l'altro, senza alzar gli occhi.



Di colpo si guardarono, si tesero le mani contemporaneamente, stringendosele. Si erano fermati per un secondo.



– Addio – disse il signor Roberto.



– Addio – rispose Manlio.



Lentamente entrò nel palazzo ove abitava e si mise a salir le scale. Quando fu in casa, senza togliersi il soprabito umido, buttò sulla tavola il cappello a cencio, provando uno strano batticuore, un'emozione nuova e misteriosa. Tentò di mettersi a scrivere, pensando che questo dovesse distrarlo, compilando in mente, rannicchiato sulla seggiola innanzi al tavolino, una lettera alla mamma, piena di tenerezze e di sfoghi. Ma quando cercò intorno i fiammiferi si ricordò d'averli dimenticati al caffè. E innanzi a questa piccola contrarietà ebbe un momento di immensa disperazione. Si gettò bocconi sul lettuccio, mordendo nella furia il cuscino, torcendo le lenzuola nel pugno, singhiozzando.



Pioveva sempre, ma la pioggia non batteva ai vetri con lo stesso ritmo dolce delle lunghe serate in famiglia nè alcun lume nella stanzuccia poteva mostrargli la faccia pallida e sorridente della madre e in fondo, nella penombra, il lettuccio della piccola sorella dormente.



Così, in quella triste serata umida e tetra, in quello scompiglio nervoso che infuriava nel suo morale tormentandogli il fisico a scosse dolorose, egli, solo, solo nella sua amarezza, in quella oscurità fitta della cameretta, si mise a urlare come un pazzo.



SUOR CARMELINA


Giugno 1886.



Tra le suore dello spedale X… ho conosciuto, tempo fa, Suor Carmelina, una giovane donna sottile e bianca, bianca come una Vergine di cera, pallida come un'ostia nell'ombra. I malati la chiamavano

la santarella

; ella sorrideva sempre, parlava sempre sottovoce, pronunciava s la z e tratto tratto diceva a' malati:

Benedeto! Benedeto da Dio

! Era veneziana, tutta piena di quella dolcezza de' modi e dell'anima onde quei del veneto son pieni.



Come era divenuta monaca? Nessuno me lo seppe dire. E da quanto tempo ella aveva abbandonato il mondo e Venezia bella? Tutte queste monacelle,

benedete

, hanno il loro piccolo dramma chiuso in core, e un mistero nascoso nell'anima. Alcune volte gli occhi luccicano, si velano d'una lacrima, le mani bianche fremono, la bocca freme, il respiro ansioso gonfia il petto coverto dalla tonacella. Ma andate a chiedere loro perchè, tentate di impadronirvi di quella bianca mano fremente, cercate di interrogare quella lacrima! Fuggono, si chiudono nelle piccole stanzucce a vetri, evitano di ricomparirvi innanti, vergognose. Soltanto la piccola stanzuccia a vetri sa il mistero della piccola suora. Nessuno ha potuto mai sentire i singhiozzi di una piccola suora!



* * *

Io chiedevo sempre a un mio povero amico, malato a quello spedale, che ne pensasse di Suor Carmelina. Si capisce; ogni giovanotto, in presenza d'una di queste figlie della carità, prima vede la giovane donna, poi vede la monaca. Imagina sempre un sacrifizio, si appassiona e s'intenerisce.



L'amico, un commesso viaggiatore, al quale una caduta avea quasi spezzata la gamba sinistra, stando in bolletta s'era salvato allo spedale. Veneto pur lui aveva ben presto stretto amicizia con suor Carmelina. La trovava semplicemente una buona

putela

, una

fia de la Madona

.



Io lo andavo a vedere tre volte alla settimana, poi finii per recarmi a trovarlo quasi tutti i giorni. Si cominciava a parlare della gamba disgraziata e si cascava, subito dopo, a chiacchierare di suor Carmelina.



– Non le hai mai domandato perchè s'è fatta suora?



– Mai. E perchè? Non me lo avrebbe detto. Parla poco.



– Ma con te, che sei compaesano suo, potrebbe far eccezione alla regola.



– La Regola – rispose il mio amico, celiando – impone il silenzio alle suore, specie coi giovanotti malati, specie alle suore giovani.



– Senti, caro mio, francamente io vorrei trovarmi qui, in questo tuo letto.



– Con gli stessi dolori?



– Con gli stessi dolori.



– Con la stessa gamba impacchettata? Con la stessa mania di volere e di non poter uscir a vedere il sole, a veder camminar la gente per via, a vedere le carrozze, a camminare? Va là, tu scherzi. Siamo troppo amici. Nemmeno ai cani lo auguro.



– E io vorrei essere qui, nel tuo letto.



– Per vedere suor Carmelina? Per parlare con suor Carmelina? Per sentire la voce di suor Carmelina?



– Per questo.



Lui rise fortemente. Ella in quel momento passava e si volse. Le donne hanno questo di particolare che anche da lontano, con la coda dell'occhio, appurano quello che dite e se parlate di loro. Per un momento la sua veste passò lungo la fila dei letti, senza romore, senza toccarli, lambendo i larghi quadroni di marmo del pavimento. Un malato, il numero 34, un vecchio colono da Melito, si levò a sedere sul letto e si sberrettò, con una grande reverenza, mormorando qualcosa. La suora gli rispose con un piccolo moto del capo. Forse gli sorrise, ma le tese larghe della cornetta c'impedirono di vedere. A un posto della sala si chinò, raccolse la buccia d'un'arancia e per l'aperto finestrone la buttò giù nel cortile. Poi sparve.



– Sei contento? – mi disse l'amico – Or l'hai vista. Sei contento?



– E tu non ti commovi?



– Io!

Cio'! vecio!

 Ne ho viste tante in mia vita! Io mi secco assai di dovermene stare qui inchiodato in questo letto, tra lamenti, spasimi, morti subitanee e morti lentissime, che non arrivano mai. Sono impregnato di acido fenico.



* * *

– Senti,

vecio mio

, – mi disse in un altro giorno – fra poco me ne vado. Ieri il dottore mi ha detto che ne avevo per un'altra settimana. M'ha rifatta la gamba a nuovo. Che uomo,

benedeto

, che grande instituzione la chirurgia!



– E dici addio alla suora?



– Accidenti! Sei un bel seccatore tu, con la tua suor Carmelina!



Guarda, ieri ella m'ha… mi ha… come si dice?



– Intenerito?

 



– Intenerito? M'ha fatto stomacare. È come tutte l'altre; sempre le stesse! Senti, io le ho annunziato che me ne andavo presto, fra una settimana, ch'ero bell'e guarito…



– E lei?



– Lei, al solito, s'è fatta rossa. Mi ha detto: Davvero? È proprio guarito? – Dico io: Sicuro. Cosa c'è? Le dispiace? – Ha fatto un muso! Dice: Ecco, noialtre ci affezioniamo ai nostri malati così da volerceli tenere assai tempo con noi. Ogni malato guarito si porta un po' del nostro dispiacere. – Immagina! Le volevo tirare un cuscino.



– Sei un grande cretino, va! Come tutti i commessi viaggiatori.



– Aspetta che guarisca,

vecio mio!



* * *

Dopo una settimana egli era impiedi. Ma ancora zoppicava un poco, per tre o quattro altri giorni era necessario che rimanesse allo spedale.



– Piglio aria – mi fece – piglio daccapo l'abito del camminare. Vien qua; ho qualcosa da narrarti su

quella tale persona

.



Ci mettemmo a sedere sotto un finestrone onde una gran luce pioveva nella sala. Erano le 9 della mattina e lo spedale faceva la sua toeletta, pieno d'un gran chiacchierio che s'intrecciava fra i letti, arrivava con gl'inservienti, usciva dalla stanza delle suore, per l'uscio socchiuso. Una vecchia suora, inforcati gli occhiali, scriveva in un gran libro squadernatole innanti, sulla tavola.



– Ieri – cominciò il mio amico – al dopopranzo suor Carmelina m'ha fatto presente d'una manata di confetti. Abbiamo chiacchierato a lungo; lo spedale s'era messo a dormire – Dove se ne va, ora che è guarito? – Me ne vado a Venezia – le ho risposto – vado a rivedere mio papà e la mamma. – Beato lei, che ci ha tutti e due! – E lei? – Ha chiusi gli occhi, ha scosso tristemente il capo. – Non ho nessuno – E come nessuno? Fratelli, sorelle? – Nessuno.



– Ti dico, caro mio – soggiunse il mio amico – sono stato preso da una grande pietà. Non ho saputo nulla rispondere, nulla dire a confortarla. Tutto ieri ella è rimasta in sala. A sera, per le finestre, entra un gran profumo di zagare, dal giardino. Ier sera se ne moriva; una cosa deliziosa, inebriante. Suor Carmelina passeggiava in lungo e in largo. Spuntava la luna, laggiù, dietro il comignolo della fabbrica di steariche, guarda. Io mi son messo a canticchiare:




De Venezia lontan do mila mia no passa dì che no me vegna a mente el dolce nome de la patria mia, el linguagio e i costumi de la zente…



E continuavo:




Soto el ponte de Rialto fermaremo la barcheta, O Venezia benedeta, no te voglio più lassar…



Avessi veduto com'ella rallentava il passo, per sentire! A un tratto eccotela che mi s'accosta al letto, con le lacrime agli occhi, con la faccia bianca bianca, stravolta, la bocca tremante – Lei non canti – m'ha detto con malo modo – qui non si canta. La prego di smettere. Questo è uno spedale! —

Ciò

, brava la ragazza! E cantavo roba del suo paese, cantavo!



– Eccola…



Ma appena la suora appariva in fondo alla sala un grido infantile risuonò, un grido che ci fece trasalire. Saliva un gran vocio dal cortile e gl'inservienti s'urtavano, accorrendo. Suor Carmelina scomparve.



– Che sarà?



– Qualche resezione di ginocchio, qualche incisione alla spalla, una disarticolazione, un bottone di fuoco che arrostisce la carne, ecco; oramai trenta giorni di spedale mi hanno abituato a tutta questa roba; ne ho sentiti d'urli; un inferno, caro mio.

Ciò

! Che succede ora?



Qualche cosa di strano succedeva, infatti. Lo spedale era sossopra, la segreteria, attigua allo stanzone in cui noi ci trovavamo, s'empiva di gente. I malati si rizzavano a sedere sui letti.



– Andiamo a vedere – disse il commesso viaggiatore, incamminandosi, zoppicante.



Era successo questo: Il figliuolo del giardiniere, un bel ragazzetto biondo, era stato morso dal cane del guardiano. Il cane era idrofobo, palesava tutti i segni del male e lì per lì fu ammazzato. Ma il ragazzetto? Era perduto. Tutto questo lo sapemmo e lo

vedemmo

 in un momento; un brivido ci corse per l'ossa e il coraggio di avvicinarci all'infelice ci mancò. Ma la gente si stringeva più intorno a suor Carmelina che da presso il ragazzetto. L'

interno

 di guardia, un rosso dai piccoli occhi neri scintillanti, ci venne incontro, stropicciandosi le mani, gridandoci:



– Avete visto? Avete visto? – e soggiunse, entusiasmato – Bellissimo!



Stupendo! Suor Carmelina ha succiato il veleno!..



La piccola suora era diventata grande. Era accorsa al grido del piccino, lo aveva trovato piangente, gli aveva chiesto che fosse successo. Il piccino le rispose:



– Mi ha morso il cane…



Subito dopo si sentì gridare:



– Badate! Badate! Il cane è idrofobo!



Il giardiniere gli aveva spaccato il cranio con un colpo di bastone. Ma il povero ragazzo mostrava il braccio nudo, sanguinante, e nessuno sapeva trovar modo di soccorrerlo. Allora suor Carmelina, s'avanzò, pallidissima, ma senza il più piccolo tremito. Accostò alla ferita le labbra e succhiò, rigettando il sangue e il veleno, forbendosi le labbra bianche col gran moccichino scuro a quadroni. E allora tutta la sala numero quattro proruppe in un applauso. Il colono di Melito agitava il berrettino…



* * *

Dove sei ora, piccola monaca bianca, Carmela, mistica anemica, figlia della laguna, ove sei? Allo spedale degl'Incurabili una volta, un mio amico chirurgo operò sopra una contadinella. Nel candido seno entrò la lama tagliente del bisturi. La contadinella dormiva, cloroformizzata. Per parecchio tempo ho chiesto al chirurgo mio amico notizie di lei. Era stata una terribile operazione. Ma la contadinella guarì. Dopo un mese uscì dallo spedale e il dottore venne a trovarmi al caffè, per annunziarmelo. Un vero miracolo.



Ma di suor Carmelina io non ho mai osato dimandare. Non so perchè. Se ella…



DOCUMENTI UMANI


Settembre 1886



Tre giorni fa, in una scura e fetida vanella d'un palazzo in via Tribunali, d'un subito, qualcosa cadde con un tonfo sordo, e spaventò i sorci che frugavano tra i cocci sparsi e le immondizie e i rifiuti di quelle ruine borghesi ond'escono, continuamente, a turbare i pranzi delle immonde bestie, le improperie delle serve e i pianti dei piccini impertinenti.



Cadde dunque qualcosa. I sorci fuggirono con gran terrore e si rintanarono. Era caduto il corpo d'una giovinetta: una bionda.



Esso rimase lì, prono, la faccia nel fango, un braccio steso, le gambe stese. Una fine caviglia spuntava di sotto alla gonnella, un piccolo piede arcuato, la calza bianca…



Quella ragazza s'era buttata da un terrazzo al quarto piano, ove era salita per sciorinare i panni.



Si chiamava Antonietta Canserano, aveva diciotto anni, era molto bellina. Quel corpo inerte rimase lì tre ore. A poco a poco le bestie immonde riapparivano. De' piccoli musetti, dei piccoli occhietti spaurati spuntarono pei buchi. La ragazza rimaneva immobile.



Finalmente si seppe il fatto. La vanella si empì di gridi femminili. L'orrore era grande, e il sangue!.. Quanto sangue laggiù, tra i cocci e i rifiuti, nel fango, su per la nera poltiglia luccicante!..



Arrivò un medico, arrivarono le guardie, il pretore, un delegato, curiosi d'ogni parte. Il corpo dell'Antonietta fu tolto di lì, adagiato in una vettura, e trasportato allo spedale degl'Incurabili. Perchè la poverina era ancor viva. Respirava, lentamente, a fatica, gli occhi socchiusi, pieni di lacrime…



* * *

La storia di questa fanciulla è breve ed è la solita storia.



Antonietta Canserano, orfana di madre, ha il padre in America. Era stata affidata a una zia che le voleva un bene del cuore e con la zia se ne stava, al quarto piano del palazzo numero 105 in via Tribunali.



A diciassett'anni aveva conosciuto un piccolo marinaio, bruno e atticciato. Si chiamava Vincenzino. Un cuor d'oro. Il marinaio a momenti avrebbe terminata la sua ferma, sarebbe tornato a Napoli, l'avrebbe sposata. Glielo aveva promesso da un anno; quando giurava si metteva la mano nera sul petto, gli occhi lucevano. Ell'era così felice, così felice di quel piccolo uomo arso dal sole, delle parole sue tanto calde, tanto franche! E aspettava.



Quattro mesi fa Antonietta chiese in grazia alla zia che le facesse pigliare un po' d'aria. L'usignuolo s'annoiava in gabbia. E come la zia non poteva accompagnarla ella uscì sola a passeggiare. Se ne andò in villa. Lì, non si sa come, le si accostò un furiere di linea. Si mise a chiacchierare con lei, la tentò, e seppe abusare della poverina. Questo succede assai spesso. Una rovina in un attimo.

Dopo

, il furiere, come tutti gli uomini senz'anima e senza onore, abbandonò Antonietta.



Ella tornò, sola, a casa della zia. Per la strada del Chiatamone, un marinaio amico del suo marinaio l'aveva incontrata.



– Come! Sola! Se lo sapesse Vincenzino! Lasciate che v'accompagni.



Ella tremava come una foglia. Non rispose una sola parola.



– Se scrivo a Vincenzino volete che gli dica che v'ho incontrata?



Ella rispose:



– No… per carità!



Il marinaio la guardò, fece spallucce. E continuarono a camminare, in silenzio…



* * *

Napoli 18 Luglio 86




Mio caro Potito



ti scrivo queste poche riche ti fo conosciere che ia sto bene di salute e così spero di sentire di te. Dunque Mio caro Potito, dopo due mesi e tred