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Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 2

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Quando Annibale passò dalla Gallia nell'Italia, fu obbligato prima a scoprire, e dopo ad aprirsi una strada sopra monti, e tra selvagge nazioni che non avean mai dato il passo ad un esercito regolare381. Erano allora le Alpi difese dalla natura, e sono adesso fortificate dall'arte. Varie cittadelle costruite con uguale abilità, fatica e spesa, dominano ogni ingresso nella pianura, e rendono da quella parte l'Italia quasi inaccessibile ai nemici del Re di Sardegna382. Ma nel corso dell'età di mezzo i Generali, che hanno tentato il passo, han raramente trovata alcuna difficoltà o resistenza. Nel secolo di Costantino, gli abitatori di quei monti erano sudditi inciviliti ed ubbidienti; il paese era abbondantemente fornito di provvisioni, e le superbe strade, che i Romani avevano condotte sopra le Alpi, aprivano diverse comunicazioni tra la Gallia e l'Italia383. Costantino preferì quella delle Alpi Cozie, o come si dice presentemente, del monte Cenisio, e condusse le sue truppe con tal diligenza, che discese nella pianura del Piemonte avanti che la Corte di Massenzio avesse ricevuto alcun certo avviso della partenza di lui dalle rive del Reno. La città di Susa però, che giace a piè del monte Cenisio, era circondata di mura, e provveduta di una guarnigione sufficiente ad arrestare i progressi di un invasore; ma l'impazienza delle truppe di Costantino sdegnava le noiose operazioni di un assedio regolare. Il giorno stesso, in cui si presentarono avanti a Susa, applicarono il fuoco alle porte, e le scale alle mura della città; quindi salendo, in mezzo ad una pioggia di pietre e di dardi, all'assalto, colla spada in mano entrarono nella piazza, e tagliarono a pezzi la maggior parte della guarnigione. Costantino ebbe cura di far estinguere le fiamme, e di preservare dalla total distruzione gli avanzi di Susa. Alla distanza per altro di circa quaranta miglia da questo luogo lo aspettava un incontro più arduo. I Generali di Massenzio avevano adunato nello pianure di Torino un numeroso campo d'Italiani, di cui la principal forza consisteva in una specie di grave cavalleria, che i Romani, dopo la decadenza della lor disciplina, avevan preso dalle nazioni dell'Oriente. I cavalli, non meno che gli uomini, erano interamente coperti di un'armatura fatta di vari pezzi, con tal arte congiunti fra loro, che corrispondevano a' moti de' loro corpi. N'era formidabil l'aspetto, e poco meno che irresistibil la forza; e siccome in quest'occasione i condottieri l'avevan disposta in forma di stretta colonna con aguzza punta e con larghi fianchi, si lusingavano, che avrebbero facilmente rotto ed oppresso l'esercito di Costantino. Avrebbero forse potuto riuscire in questo disegno, se il loro sperimentato nemico non avesse fatt'uso dell'istesso metodo di difesa, che Aureliano avea praticato in simili circostanze. Le giudizioso evoluzioni di Costantino divisero e rendettero inutile questa solida colonna di cavalleria. Le truppe di Massenzio disordinate fuggirono verso Torino; e siccome furono loro chiuse in faccia le porte della città, così ben pochi poterono evitare la spada de' vittoriosi, che gl'inseguivano. Torino, per quest'importante servigio, meritò di sperimentar la clemenza, ed anche il favore del vincitore. Egli fece il suo ingresso nell'Imperial palazzo di Milano, e quasi tutte le città d'Italia, fra le Alpi ed il Po, non solamente riconobbero la potenza, ma con fervore ancora abbracciarono il partito di Costantino384.

Le vie, Flaminia ed Emilia, presentavano un facil cammino di circa quattrocento miglia per passar da Milano a Roma; ma sebbene Costantino fosse impaziente di andare incontro al tiranno, pure volle piuttosto diriger prudentemente le sue operazioni contro un altro esercito d'Italiani, che mediante la forza e situazione che aveva, o poteva opporsi a' progressi di lui, o in caso di una disgrazia poteva impedirgli la ritirata. Ruricio Pompeiano, Generale distinto pel suo valore e per la sua abilità, aveva il comando della città di Verona e di tutte le truppe, che si trovavano nella Provincia di Venezia. Appena fu egli informato, che si avanzava Costantino verso di lui, distaccò un grosso corpo di cavalleria, che fu disfatto in un incontro vicino a Brescia, ed inseguito dalle legioni della Gallia fino alle porte di Verona. Si presentaron subito alla sagace mente di Costantino la necessità, l'importanza, e le difficoltà dell'assedio di questa piazza385. La città era solamente accessibile per mezzo di una stretta penisola verso ponente; gli altri tre lati eran circondati dall'Adige, fiume rapido, che copriva la Provincia di Venezia, da cui potevan gli assediati ricevere una copia inesauribile d'uomini e di provvisioni. Non senza gran difficoltà, e dopo molti inutili tentativi, Costantino trovò la maniera di passare il fiume a qualche distanza dalla città, in un luogo dove la corrente era meno violenta. Circondò allora Verona con forti trinciere, continuò con prudente vigore i suoi attacchi, e rispinse una disperata sortita di Pompeiano. Quest'intrepido Generale dopo di avere usato ogni mezzo di difesa, che potea somministrargli la forza della piazza e della guarnigione, segretamente fuggì da Verona, desideroso non già della propria, ma della pubblica sicurezza. Con instancabile diligenza esso prestamente raccolse un esercito sufficiente o ad incontrare in campo aperto Costantino, o ad attaccarlo, qualora si fosse ostinato a restare dentro le sue trinciere. L'Imperatore, attento a' movimenti, ed informato dell'avvicinarsi di sì formidabil nemico, lasciò una parte delle sue legioni per continuare le operazioni dell'assedio, nel tempo che alla testa di quelle truppe, nel valore e nella fedeltà delle quali più specialmente confidava, si avanzò a combattere in persona il General di Massenzio. L'esercito della Gallia era disposto in due linee secondo l'uso ordinario di guerra; ma lo sperimentato condottiero, vedendo che il numero degl'Italiani era molto maggiore del suo, in un istante cangiò tal disposizione, e diminuendo la seconda, estese la fronte della sua prima linea, finchè fosse in una giusta proporzione con quella dell'avversario. Tali evoluzioni, che in un momento di pericolo si possono eseguir senza confusione, solamente da truppe veterane, comunemente riescono decisive: ma poichè questa battaglia incominciò verso il finire del giorno, e si combattè con grande ostinazione per tutta la notte, meno vi ebbe luogo la condotta de' Generali, che il coraggio dei soldati. Il nuovo giorno scoprì la vittoria di Costantino, e si vide il campo della strage coperto di molte migliaia di vinti Italiani. Fra gli uccisi fu trovato anche il lor General Pompeiano; e Verona immediatamente rendettesi a discrezione, essendo la guarnigione restata prigioniera di guerra386. Gli Uffiziali dell'esercito vittorioso, nell'atto di congratularsi col lor Principe a motivo di quest'importante successo, si avventurarono a fargli qualche rispettoso lamento, di tal natura però da non dispiacere anche ai più gelosi Monarchi. Rappresentarono essi a Costantino, che non contento di eseguir tutti i doveri di un Comandante, egli aveva esposta la propria persona con un eccesso di valore, che quasi degenerava in temerità; e lo scongiurarono ad aver più riguardo in avvenire alla conservazione di una vita, da cui dipendeva la salute di Roma e dell'Impero387.

 

Mentre Costantino segnalava la sua condotta e il suo valore nel campo, il Sovrano d'Italia pareva insensibile alle calamità ed ai pericoli di una guerra civile, che infuriava nel cuore de' suoi dominj. L'unica occupazione di Massenzio era sempre il piacere. Celando, e tentando almeno di celare alla cognizione del pubblico le disgrazie delle sue armi388, si lusingava con una vana fiducia, la quale differiva i rimedi del male che si avvicinava, senza differire il male medesimo389. Appena i rapidi progressi di Costantino giugnevano a risvegliarlo da questa fatal sicurezza390; egli si dava a credere, che la sua ben nota liberalità, e la maestà del nome Romano, che l'aveva già liberato da due altre invasioni, coll'istessa facilità dissiperebbe anche la ribelle armata della Gallia. Gli Uffiziali di esperienza e di abilità, che avevan servito sotto il comando di Massimiano, furon finalmente costretti di far sapere all'effeminato figliuolo di lui l'imminente pericolo, a cui si era egli ridotto, e di mostrargli con una libertà, che lo sorprese nel tempo stesso e lo convinse, la necessità di prevenire la sua rovina, usando con vigoroso sforzo il potere che gli restava. Massenzio avea tuttora molti considerabili compensi tanto in uomini che in danaro. Le guardie Pretoriane sentivan bene quanto era fortemente connessa la causa di lui col loro interesse e colla lor sicurezza; e fu presto raccolto un terzo esercito più numeroso di quelli, ch'erano stati vinti nelle battaglie di Torino e di Verona. L'Imperatore era ben lontano dal pensar di condurre in persona le proprie truppe: non esercitato nell'arte della guerra, tremava per l'apprensione di un azzuffamento tanto pericoloso; e come il timore trae comunemente alla superstizione, con malinconica attenzione prestava orecchio ai rumori degli augurj e dei presagi, che sembravano minacciare la sua vita e il suo Impero. La vergogna supplì finalmente al coraggio, e lo forzò a scendere in campo, non potendo soffrire il disprezzo del popolo Romano. Faceva questo nel Circo risuonare con isdegno i suoi clamori, e tumultuariamente assediava le porte del palazzo, rimproverando la pusillanimità del suo indolente Sovrano, e celebrando lo spirito eroico di Costantino391. Prima di partir di Roma, consultò Massenzio i libri Sibillini. I custodi di questi antichi oracoli, quanto erano ignoranti de' segreti del fato, altrettanto eran bene informati negli artifizi del mondo; e gli diedero una risposta molto prudente, che poteva acconciarsi a qualunque evento, ed assicurar la loro riputazione, comunque avesse deciso la sorte delle armi392.

A. D. 312

Sì è paragonata la celerità della marcia di Costantino a quella della conquista, che fece dell'Italia il primo de' Cesari; nè per quanto sia lusinghevole tal paralello, ripugna alla verità dell'Istoria, mentre non passarono più di cinquant'otto giorni dalla resa di Verona alla final decisione della guerra. Costantino avea sempre sospettato, che il tiranno avrebbe eseguito ciò che gl'inspirava il timore, e forse anche la prudenza, e che invece di arrischiar le ultime sue speranze in un general combattimento si sarebbe piuttosto rinchiuso dentro le mura di Roma. I gran magazzini lo assicuravano dal pericolo della fame; e siccome la situazione di Costantino non soffriva dilazione alcuna, egli avrebbe potuto esser ridotto alla dura necessità di distruggere col ferro e col fuoco la città Imperiale, che doveva essere il premio più nobile della sua vittoria, e la cui liberazione era stato il motivo, o piuttosto realmente il pretesto della guerra civile393. Con sorpresa pertanto non meno che con piacere, arrivato che fu ad un luogo detto Saxa Rubra circa nove miglia distante da Roma394, scoprì l'armata di Massenzio pronta a dargli la battaglia395. La lunga fronte della medesima occupava una pianura molto spaziosa, e la profondità arrivava fino alle rive del Tevere, che ne copriva la retroguardia, ed impediva la ritirata. Si narra, e vi è tutto il motivo di crederlo, che Costantino disponesse le sue truppe con somma perizia, e scegliesse per se il posto più pericoloso ed onorevole. Distinto per lo splendore delle sue armi, attaccò in persona la cavalleria del suo rivale: e l'urto irresistibile, ch'ei le diede, determinò la fortuna della giornata. La cavalleria di Massenzio era principalmente composta di corazze di grave armatura, o di leggieri Mori e Numidi. Essi cederono al vigore della cavalleria Gallicana, che aveva maggiore attività de' primi, e più fermezza degli altri. La disfatta delle due ali lasciò scoperti i fianchi dell'infanteria, e gl'indisciplinati Italiani fuggirono senza ritegno dalle bandiere di un tiranno, ch'essi avevano sempre odiato, e che più non temevano. I Pretoriani, sapendo che per le loro mancanze non potevano sperar perdono, erano animati dalla vendetta e dalla disperazione. Non ostanti i replicati loro sforzi non furon capaci que' bravi veterani di acquistar la vittoria: ottennero per altro una morte onorevole; e fu osservato, che i loro corpi coprivano il terreno medesimo, ch'era già stato occupato dalle lor file396. Divenne allora generale la confusione, e le truppe di Massenzio, disordinate ed inseguite da un implacabil nemico, traboccarono a migliaia ne' profondi e rapidi gorghi del Tevere. L'Imperatore stesso tentò di rientrare fuggendo nella città per mezzo del ponte Milvio; ma la folla che si trovò insieme a quello stretto passo, lo fece balzare nel fiume, dov'egli fu immediatamente sommerso dal peso delle sue armi397. Il corpo di lui, essendosi affondato molto nel fango, fu ritrovato con qualche difficoltà il giorno seguente. Restò il popolo convinto della propria liberazione quando vide il capo di lui esposto avanti a' propri occhi; e allora fu, che non dubitò di ricevere con acclamazioni di fedeltà e di gratitudine il fortunato Costantino, che in tal modo condusse a termine col suo valore e colla sua abilità la più splendida impresa della sua vita398. Nel far uso della vittoria non meritò Costantino la lode di clemente, nè incorse le censura di smoderato rigore399. Tenne verso il tiranno quel medesimo contegno, che poteva aspettarsi nella propria persona e famiglia, se fosse stato ei medesimo disfatto: fece morire i due figli di Massenzio, ed ebbe tutta la cura d'intieramente estirparne la razza. I più riguardevoli aderenti di Massenzio era da presumersi, che avrebbero avuto parte nella disgrazia di lui, come l'avevano avuta nella prosperità e ne' delitti, ma nel tempo che il popolo Romano ad alta voce chiedeva un maggior numero di vittime, il vincitore con fermezza ed umanità resistè a que' servili clamori, dettati dall'adulazione egualmente che dallo sdegno. Furon puniti ed avviliti i delatori; e gl'innocenti, che a torto avevan sofferto nella passata tirannia, richiamati furono dall'esilio, e rimessi al possesso dei loro beni. Un atto di generale obblivione del passato servì a quietare gli spiriti, ed a stabilire la proprietà di ciascheduno tanto nell'Italia quanto nell'Affrica400. La prima volta che Costantino colla sua presenza onorò il Senato, egli ricapitolò in un modesto discorso i servigi, che gli aveva prestati, e le proprie imprese; assicurò quell'illustre Ordine della sincera sua stima; e promise di ristabilirne l'antica dignità, e gli antichi privilegi. Il Senato, per gratitudine a queste non sincere proteste, corrispose co' vani titoli d'onore, ch'era tuttavia in suo potere di conferire; e senza presumere di ratificare l'autorità di Costantino, decretò di assegnare ad esso il primo posto fra i tre Augusti, che governavano in quel tempo il mondo Romano401. S'instituirono feste e giuochi per conservar la fama della sua vittoria, e vari edifizi, eretti a spese di Massenzio, furon dedicati all'onore del fortunato rivale. Rimane tuttavia in piedi l'arco trionfale di Costantino, come una trista prova dalla decadenza delle arti, ed un singolar testimonio della più vil vanità. Siccome non potea trovarsi uno scultore nella Capitale dell'Impero, che fosse capace di adornar quel pubblico monumento, venne spogliato delle sue più eleganti figure l'arco di Traiano, senz'alcun riguardo nè per la memoria di lui, nè per le regole della decenza. Fu totalmente posta in dimenticanza la diversità de' tempi, e delle persone, ugualmente che quella delle azioni, e de' caratteri. Si vedono i Parti come schiavi prostrati a' piedi di un Principe, che non portò mai le sue armi di là dall'Eufrate; ed i curiosi antiquari possono ravvisare fra i trofei di Costantino il capo ancor di Traiano. Son eseguiti poi nella maniera più rozza e grossolana i nuovi ornamenti, che bisognò frapporre ne' vuoti, che restavano fra le antiche sculture402.

 

L'abolimento totale delle guardie Pretoriane fu un atto di prudenza non meno che di vendetta. Quelle truppe superbe, delle quali aveva Massenzio restituito, ed anche aumentato il numero ed i privilegi, furon soppresse per sempre da Costantino. Il loro fortificato campo restò distrutto, ed i pochi Pretoriani, avanzati alla furia della strage, vennero dispersi fra le legioni, e confinati alle frontiere dell'Impero, dove potevano esser utili senza divenir nuovamente pericolosi403. Col sopprimer le truppe, che ordinariamente stavano alla difesa di Roma, Costantino diede il colpo fatale alla dignità del Senato e del Popolo; e la Capitale disarmata restò senza difesa, esposta agl'insulti e al disprezzo del suo lontano padrone. Noi possiamo osservare che i Romani in quest'ultimo sforzo che fecero, per conservare la spirante lor libertà, avevano innalzato al Trono Massenzio pel timore di un tributo. Egli però non lasciò di esigerlo dal Senato sotto nome di libero donativo. Implorarono quindi l'aiuto di Costantino, che vinse il tiranno, e converti il libero donativo in una tassa perpetua. I Senatori furon distribuiti, secondo la dichiarazione, che doveron fare di lor sostanze, in varie classi. I più ricchi pagavano otto libbre d'oro l'anno; quattro quelli della seconda classe, quelli della terza due; e quelli che per la lor povertà potevano aver diritto ad un'esenzione, furon ciò nonostante tassati a sette monete d'oro per ciascheduno. Oltre i membri regolari del Senato, godevano ancora i vani privilegi dell'Ordine senatorio e ne sostenevano i gravi pesi, i loro figliuoli, i discendenti, e fin anche i congiunti; nè ci sorprenderà più da ora in poi, che Costantino fosse tanto premuroso di accrescere il numero delle persone comprese in una sì utile descrizione404. Dopo la disfatta di Massenzio l'Imperator vittorioso non passò più di due o tre mesi in Roma, che due altre volte fu da lui visitata in tutto il resto della sua vita per celebrare la solennità del decimo e del ventesimo anno del suo regno. Costantino era quasi sempre in moto per esercitar le legioni, o per esaminar lo stato delle province. I luoghi occidentali di sua residenza furono Treveri, Milano, Aquileia, Sirmio, Naisso e Tessalonica, finchè fondò nei confini dell'Europa o dell'Asia una nuova Roma405.

A. D. 313

Costantino, avanti di passare in Italia, s'era assicurato dell'amicizia, o almeno della neutralità di Licinio, Imperatore dell'Illirico. Aveva egli promesso in matrimonio a quel Principe la sua sorella Costanza; ma era stata differita la celebrazione delle nozze, finchè fosse finita la guerra; e l'incontro, de' due Imperatori a Milano, stabilito a tal uopo, parve che stringesse l'unione delle lor famiglie e de' loro interessi406. In mezzo alle pubbliche feste furono ad un tratto costretti a separarsi; perchè l'invasione dei Franchi richiamò Costantino verso il Reno, e l'avvicinarsi che faceva in aria di nemico il Sovrano dell'Asia, richiedeva l'immediata presenza di Licinio. Massimino era stato in segreta confederazione con Massenzio, e senza scoraggiarsi per la disgrazia di lui, risolvè di tentar la fortuna di una guerra civile. Nel colmo dell'inverno si mosse dalla Siria verso le frontiere della Bitinia. La stagione era rigida e tempestosa; perì gran numero d'uomini e di cavalli nella neve, e siccome dalle piogge continue si eran rotte le strade, fu costretto a lasciarsi dietro una parte considerabile del pesante bagaglio, che non poteva seguire la rapidità delle sue marcie forzate. Mediante questo sforzo straordinario di diligenza, egli arrivò con una stanca ma formidabil armata alle rive del Bosforo Tracio, avanti che i capitani di Licinio fossero neppure informati della sua ostile intenzione. Bisanzio, dopo un assedio di undici giorni, si rendè alla forza di Massimino; esso fu trattenuto qualche giorno sotto le mura di Eraclea, ma ebbe appena preso possesso di quella città, che fu sorpreso dalla notizia, che Licinio erasi accampato alla distanza di sole diciotto miglia. Dopo inutili pratiche, nelle quali i due Principi tentarono di sedurre scambievolmente la fedeltà de' loro aderenti, ricorsero alla decisione delle armi. L'Imperatore d'Oriente comandava una truppa disciplinata e veterana di sopra settantamila uomini, e Licinio, che aveva raccolto circa trentamila Illirici, a principio fu oppresso dalla superiorità del numero; ma la sua militar perizia e la fermezza de' suoi soldati rinnovarono la battaglia, ed ottennero una decisiva vittoria. L'incredibil prestezza che usò Massimino in fuggire, è molto più celebre della sua bravura in combattere. Fu egli veduto, ventiquattr'ore dopo, tremante, pallido, e senza gli ornamenti Imperiali a Nicomedia, distante centosessanta miglia dal luogo della sua rotta. Non erano ancora esauste le ricchezze dell'Asia; e sebbene avesse perduto il fiore de' suoi veterani nell'ultim'azione, pure, se avesse avuto tempo, poteva trarre un gran numero di soldati dalla Siria e dall'Egitto. Ma egli sopravvisse solamente tre o quattro mesi alla sua disgrazia. La morte di lui, che seguì a Tarso, fu da varie persone attribuita alla disperazione, al veleno, ed alla Divina Giustizia. Siccome però Massimino era egualmente privo di abilità e di virtù, esso non fu compianto nè dal popolo nè da' soldati, e le Province orientali, libere dal terrore di una guerra civile, riconobbero ben volentieri l'autorità di Licinio407.

Restaron due figli del vinto Imperatore; un maschio di circa otto anni, ed una femmina di circa sette. Avrebbe l'innocente loro età potuto eccitar compassione; ma la compassione di Licinio era un molto debole appoggio, nè lo ritenne dall'estinguere il nome e la memoria del suo avversario. Meno ancora può scusarsi la morte di Severiano, che non fu dettata nè dalla vendetta, nè dalla politica. Il vincitore non avea mai ricevuto alcuna ingiuria dal padre di quel disgraziato giovane, ed era già dimenticato il breve ed oscuro regno, che Severo ebbe in una parte lontana dell'Impero. Ma l'esecuzione di Candidiano fu un atto della più nera crudeltà ed ingratitudine; egli era figlio naturale di Galerio, amico e benefattor di Licinio. Il padre prudentemente l'avea creduto troppo giovane per sostenere il peso di una corona; ma sperava, che sotto la protezione di Principi, che al favore di lui dovevan la porpora, Candidiano avrebbe potuto passare una vita sicura ed onorevole. Esso era giunto all'età di circa venti anni, e la regale sua nascita, quantunque non sostenuta nè dal merito nè dall'ambizione, era sufficiente ad inasprire lo spirito geloso di Licinio408. A queste innocenti ed illustri vittime della sua tirannia conviene aggiunger la moglie e la figlia dell'Imperator Diocleziano. Allorchè questo Principe conferì a Galerio il titolo di Cesare, gli diede per moglie la propria figlia Valeria, le cui triste avventure potrebber somministrare un soggetto molto singolare di tragedia. Aveva essa adempito, ed anche superato i doveri di una moglie; e poichè non avea figli, si contentò di adottare il figlio illegittimo del suo marito, ed ebbe costantemente per l'infelice Candidiano la tenerezza e la cura di vera madre. Dopo la morte di Galerio le vaste possessioni di lei eccitarono l'avarizia, e le personali attrattive i desiderj del successor Massimino409. Egli aveva una moglie vivente, ma dalle leggi Romane si permetteva il divorzio; e la fiera passion del Tiranno lo spingeva ad una immediata soddisfazione. La risposta di Valeria fu quale si conveniva ad una figlia e vedova d'Imperatori: ma fu temperata dalla prudenza, di cui la sua situazione senza difesa l'obbligava a far uso. Rappresentò alle persone, da Massimino impiegate in tal affare, che «quando ancora l'onore potesse permettere ad una donna del suo carattere e della sua dignità di pensare alle seconde nozze, la decenza almeno doveva impedirle di prestar orecchio alle proposte di lui in un tempo, in cui erano tuttor calde le ceneri del marito di lei e benefattore di Massimino, ed in cui gli abiti di lutto esprimevano ancora la mestizia del proprio animo. Si avventurò a dichiarare in oltre ch'essa poteva dare ben poco peso alle proteste di un uomo, la crudele incostanza del quale era capace di repudiare una fedele ed affezionata consorte». A questo rifiuto l'amore di Massimino si mutò in furore, e come poteva disporre a suo piacimento di testimoni e di giudici, gli riuscì facilmente di coprir la sua rabbia con un apparenza di processura legale, e di perseguitare nel tempo stesso la riputazione e la felicità di Valeria. Furono confiscati i beni di lei; i suoi eunuchi e domestici sottoposti ai più crudeli tormenti; e diverse innocenti rispettabili matrone, onorate dell'amicizia di lei, falsamente accusate d'adulterio, soffriron la morte. L'Imperatrice medesima, insieme con Prisca sua madre, fu condannata all'esilio: e poichè avanti di esser confinate in un remoto villaggio ne' deserti della Siria, furono ignominiosamente balzate di luogo in luogo, si mostrò manifesta la loro vergogna e miseria alle province dell'Oriente, che per trent'anni aveano rispettato l'augusta lor dignità. Diocleziano fece molti inutili sforzi per sollevar le disgrazie della sua figliuola, e chiedeva per ultima ricompensa della porpora imperiale, ch'egli avea dato a Massimino, che fosse permesso a Valeria di seco ritirarsi a Salona per chiuder gli occhi all'afflitto suo padre410. Egli non cessava di chiedere, ma siccome non poteva più minacciare, le sue preghiere furono ricevute con freddezza e disprezzo, ed era una soddisfazione per l'orgoglio di Massimino il trattar Diocleziano da supplicante, e la figliuola di lui da delinquente. Sembrava, che la morte di Massimino assicurasse una favorevole mutazione alla fortuna delle Imperatrici. Il pubblico disordine assopì la vigilanza delle lor guardie, ed esse trovaron facilmente la maniera di fuggire dal luogo del loro esilio, e di condursi, quantunque con cautela e travestite, alla Corte di Licinio. La condotta di lui ne' primi giorni del suo regno, e l'onorevole accoglienza che fece al giovane Candidiano, posero in cuore a Valeria una segreta speranza, tanto relativamente a se stessa, che al suo figliuolo adottivo. Ma succederon ben presto lo spavento e l'orrore a queste grate apparenze, e le sanguinose esecuzioni, che macchiarono il palazzo di Nicomedia, la convinsero a sufficienza, che il trono di Massimino era occupato da un tiranno più inumano di lui. Valeria provvide alla propria sicurezza, mediante una precipitosa fuga, e sempre accompagnata da Prisca sua madre, andò vagando più di quindici mesi411 per varie province, sconosciuta, sotto povere vesti. Furono finalmente scoperte a Tessalonica, e siccome era già stata pronunziata contro di loro la sentenza di morte, vennero immediatamente decapitate, ed i loro corpi gettati nel mare. Il popolo stupì a questo funesto spettacolo; ma ne fu soppresso il cordoglio e lo sdegno dal timor de' soldati. Tal fu l'indegno destino della moglie e della figliuola di Diocleziano. Noi deploriamo le loro disgrazie, noi non possiamo scoprirne i delitti, e per quanto possiam giustamente credere che grande fosse la crudeltà di Licinio, fa sempre maraviglia, che egli non si contentasse di una più segreta e decente maniera di vendicarsi412.

Il Mondo Romano restava diviso fra Costantino e Licinio, il primo de' quali dominava nell'Occidente, e l'altro nell'Oriente. Si avrebbe avuto forse motivo di presumere, che i vincitori, stanchi di tante guerre civili, e legati fra loro con vincoli sì pubblici che privati, dovessero abbandonare o almeno sospendere ogni ulteriore disegno di ambizione; eppure non fu appena passato un anno dopo la morte di Massimino, che i vittoriosi Imperatori voltarono le armi l'uno contro dell'altro. Il genio, la fortuna, e l'indole ambiziosa di Costantino potrebbero farlo risguardare come aggressore; ma il perfido carattere di Licinio giustifica qualunque strano sospetto contro di lui, e colla debole luce, che somministra l'istoria su questo fatto413 possiamo scoprire ch'egli fomentò co' proprj artifizi una conspirazione contro l'autorità del suo collega. Costantino aveva ultimamente unito in matrimonio la sua sorella Anastasia con Bassiano, persona di famiglia e di fortuna considerabile, innalzando il suo nuovo congiunto al grado di Cesare. Secondo il sistema di governo istituito da Diocleziano, ad esso toccavano per sua parte nell'Impero l'Italia, e forse l'Affrica. Ma l'esecuzione della promessa fu, o differita tant'oltre, o accompagnata da condizioni così svantaggiose, che l'onorevole distinzione, ottenuta da Bassiano, servì ad alienare piuttosto che ad assicurar la sua fedeltà a Costantino. L'elezione di lui era stata ratificata dal consenso di Licinio; e quest'artifizioso Principe per mezzo de' suoi emissarj ben presto procurò di entrare in una segreta e pericolosa corrispondenza col nuovo Cesare, per irritarne il disgusto, e stimolarlo alla temeraria impresa di estorcere per forza quello, che non poteva ottenere dalla giustizia di Costantino. Ma il vigilante Imperatore scoprì la cospirazione avanti che fosse giunta alla sua maturità, e dopo di aver solennemente rinunziata l'alleanza di Bassiano, lo spogliò della porpora, e gli diede la pena che meritava il tradimento e l'ingratitudine di un tal uomo. Il superbo rifiuto di Licinio, allorchè fu ricercato di rendere i delinquenti, che si eran rifuggiti ne' suoi dominj, confermò il sospetto che già si aveva della sua perfidia; e gl'indegni trattamenti fatti in Emona, sulle frontiere dell'Italia, alle statue di Costantino, furono il segno della discordia fra questi due Principi414.

A. D. 314

Seguì la prima battaglia presso Cibali, città della Pannonia sul fiume Savo intorno a cinquanta miglia sopra Sirmio415. Dalle piccole forze che in tale importante incontro due sì potenti Monarchi posero in campo, si può dedurre, che l'uno fu irritato subitaneamente, e l'altro sorpreso all'improvviso. L'Imperator d'Occidente aveva solo ventimila, e quello d Oriente non più di trentacinquemila uomini; era però il minor numero compensato dal vantaggio del luogo. Costantino avea preso posto in un passo largo circa mezzo miglio, fra una scoscesa rupe ed una profonda palude; in tal situazione aspettò con fermezza, e rispinse il primo attacco dell'avversario. Quindi seguitò la sua fortuna, e si avanzò nel piano; ma le legioni veterane dell'Illirico si riunirono sotto il comando di un Capitano, che aveva imparata la milizia nella scuola di Probo e di Diocleziano. I dardi finirono presto da ambe le parti; i due eserciti attaccarono con ugual valore una pugna più stretta di lance e spade, ed il contrasto era durato dubbioso dal far del giorno fino all'ultim'ora della sera, quando l'ala destra, che Costantino comandava in persona, diede un assalto vigoroso e decisivo. La giudiziosa ritirata di Licinio salvò il resto delle sue truppe da una totale disfatta; ma quando egli vide la sua perdita, che ascendeva a più di ventimila uomini, non credè sicuro di passar la notte a fronte di un attivo e vittorioso nemico. Abbandonato il campo ed i magazzini, marciò con diligenza e segretamente alla testa della maggior parte della sua cavalleria, e fu presto liberato dal pericolo di essere inseguito. La sua diligenza salvò la sua moglie, il suo figliuolo, ed i tesori che aveva depositati A Sirmio. Licinio passò per quella città, e, rotto il ponto sul Savo, si affrettò a raccogliere un nuovo esercito nella Dacia e nella Tracia. Nell'atto della sua fuga, diede il titolo precario di Cesare a Valente, suo Generale nella frontiera dell'Illirico416.

381I tre passi principali delle Alpi fra la Gallia e l'Italia son quelli del monte di S. Bernardo, del monte Cenisio, e del monte Ginevro. La tradizione e certa somiglianza di nomi (Alpes penninae) han fatto sì, che il primo di questi si assegni alla marcia d'Annibale (Vedi Simler de Alpibus). Il Cavalier di Folard (Polib. tom. IV.) e il Danville l'han condotto pel monte Ginevro. Ma nonostante l'autorità di un esperto Uffiziale, e di un erudito Geografo, le pretensioni del monte Cenisio vengono sostenute in una plausibile, per non dir convincente maniera dal Sig. Grosley, Observations sur l'Italie, Tom I. p. 40. (Nelle Mescolanze di Gibbon si trova un passo in cui egli discute più a lungo questa spinosa quistione, e rimansi indeciso tra Tito Livio e Polibio, tra il monte Ginevro e il Gran-S. Bernardo. Ma dopo di lui il generale inglese Melville e Deluc, figlio, hanno scoperto e dimostrato che Annibale passò in Italia per l'Alpe greca, ossia del Piccolo San Bernardo, passaggio de' più frequentati abantiquo, ed il più comodo, secondo Ebel, che in tutta la giogaia delle Alpi vi sia. Vedi parimente una bella dissertazione del Rezzonico, Tom. I. delle sue Opere.)
382La Brunetta vicino a Susa, Demont, Exiles, Fenestrelle, Coni, ec.
383Vedi Ammian. Marcellin. XV. 10. La descrizione, che egli fa delle strade sulle Alpi, è chiara, vivace ed esatta.
384Zosimo ugualmente ch'Eusebio trascorrono dal passaggio delle Alpi alla decisiva battaglia vicino a Roma. Dobbiamo riportarci a due Panegirici per le azioni che fece Costantino nel tempo di mezzo.
385Il Marchese Maffei ha esaminato l'assedio e la battaglia di Verona con quella dose di attenzione e di accuratezza, che meritava un'azione memorabile successa nel di lui paese nativo. Le fortificazioni di quella città, costruite da Gallieno, erano meno estese delle moderne mura, nè l'anfiteatro si trovava dentro il recinto di quelle. Vedi Verona illustrata: Part. I. p. 142-150.
386Mancavano le catene per tanta moltitudine di schiavi, nè sapevasi qual partito prendere nel consiglio; ma il sagace conquistatore felicemente immaginò l'espediente di convertire in ferri lo spade de' vinti. Paneg. Vet. XI. 11.
387Paneg. Vet. IX. 10.
388Literas calamitatum suarum indices supprimebat. Panegyr. Vet. IX. 15.
389Remedia malorum potius quam mala differebat; così censura Tacito acutamente la supina indolenza di Vitellio.
390Il Marchese Maffei ha ridotto all'ultima probabilità che Costantino fosse per anco a Verona il primo di settembre dell'anno 312 e che la memorabil Era delle indizioni avesse principio dalla conquista ch'ei fece della Gallia Cisalpina.
391Vedi Paneg. Vet. IX. 16. Lattanz. de M. P. 6. 44.
392Illo die hostem Romanorum esse periturum. Il Principe vinto divenne, secondo il solito, nemico di Roma.
393Vedi Paneg. Vet. IX. 16. X. 27. Il primo di questi oratori magnifica la quantità del grano, che Massenzio avea raccolto dall'Affrica e dalle Isole: eppure se qualche fede si dee prestare alla scarsità di cui si fa menzione da Eusebio (in vit. Constant. l. I. c. 36.) gl'Imperiali granai non erano aperti che per li soldati.
394Maxentius… tandem urbe in Saxa Rubra millia ferme novem aegerrime progressus. Aurel. Victor. Vedi Cellar. Geograph. Aut. Tom. I. p. 463. Questo luogo chiamato Saxa Rubra si trovava in vicinanza della Cremera, piccolo ruscello, illustrato dal valore, e dalla morte gloriosa de' 300. Fabj.
395Il posto che avea preso Massenzio, avendo il Tevere alle spalle, vien con molta chiarezza descritto da due Panegiristi IX. 16. X. 28.
396Exceptis latrocinii illius primis auctoribus, qui desperata venia locum, quem pugnae sumpserant, texere corporibus. Paneg. Vet. IX. 17.
397Ben tosto promulgossi un rumore assai vano, che Massenzio, il quale non avea presa precauzione veruna per la sua ritirata, avesse teso un artificiosissimo laccio per distrugger l'armata di chi l'inseguiva; ma che il ponte di legno, che dovea sciogliersi all'arrivo di Costantino, disgraziatamente si ruppe sotto il peso de' fuggitivi Italiani. Tillemont (Hist. des Empereurs T. IV. Part. I. 657) esamina molto seriamente, se la testimonianza di Eusebio, e di Zosimo contro il senso comune debba prevalere al silenzio di Lattanzio, di Nazario, e dell'Anonimo contemporaneo, che compose il nono Panegirico.
398Zosimo (l. II, p. 86, 88), ed i due Panegirici, il primo de' quali fu recitato pochi mesi dopo, ci danno una chiarissima idea di questa gran battaglia: e se ne cava ancora qualche util notizia da Eusebio, da Lattanzio, e dall'Epitome.
399Zosimo, il nemico di Costantino, confessa (l. II. p. 88) che solo pochi amici di Massenzio furon posti a morte; ma è da notarsi quel passo espressivo di Nazario (Paneg. Vet. X. 6.) Omnibus, qui labefactari statum ejus poterant, cum stirpe deletis. L'altro Oratore (Paneg. Vet. IX. 20, 21) si contenta d'osservare, che Costantino, quando entrò in Roma, non imitò i crudeli macelli di Cinna, di Mario, o di Silla.
400Vedi i due Panegirici, e nel Codice Teodosiano le leggi, fatte a tal proposito nell'anno seguente.
401Paneg. Vet. IX. 20. Lattanz. de M. P. c. 44. Massimino, che senza dubbio era il più antico fra i Cesari, pretendeva con qualche apparenza di ragione il primo posto fra gli Augusti.
402Adhuc cuncta opera, quae magnifice construxerat. Urbis fanum atque Basilicam Flavii meritis Patres sacravere. Aurel. Victor. Rispetto al furto dei trofei di Traiano vedasi Flaminio Vacca appresso il Montfaucon (Diar. Ital. p. 250) e l'Antiquité expliquée di quest'ultimo: (Tom. IV. p. 171.)
403Praetoriae legiones, ac subsidia, factionibus aptiora quam Urbi Romae, sublata penitus, simul arma atque usus indumenti militaris. Aurel. Victor. Zosimo (lib. II. p. 89) rammenta questo fatto da Istorico, ed è molto solennemente celebrato nel Panegirico IX.
404Ex omnibus provinciis optimates viros curiae tuae pigneraveris, ut Senatus dignitas… ex totius Orbis flore consisteret. Nazar. Paneg. Vet. IX. 35. Potrebbe quasi parere adoprata maliziosamente quella parola pigneraveris. Intorno alla tassa de' Senatori vedi Zosimo (l. II. p. 115), il Codice Teodosiano (lib. VI. Tit. 2.) col Cemento del Gottofredo, e le Memorie dell'Accademia delle Iscrizioni (Tom. XXVIII. p. 726.)
405Possiamo adesso incominciare a descrivere le gite degli Imperatori mediante l'uso del Codice Teodosiano; ma le date sì del tempo, che de' luoghi sono state frequentemente alterate dalla negligenza de' Copisti.
406Zosimo (l. II. p. 89.) osserva, che la sorella di Costantino era stata promessa in isposa a Licinio avanti la guerra. Secondo Vittore il Giovane, Diocleziano fu invitato alle nozze: ma avendo egli addotto in iscusa per non andarvi, la sua età e le sue malattie, ricevè una seconda lettera piena di rimproveri per la supposta di lui parzialità in favor di Massenzio e di Massimino.
407Zosimo racconta come fatti ordinari la disfatta e la morte di Massimino; ma Lattanzio (de M. P. c. 45-50) si diffonde su quelli, attribuendoli ad una miracolosa disposizione del Cielo. Licinio era in quel tempo uno de' protettori della Chiesa.
408Lattanzio de M. P. c. 50. Aurelio Vittore indica la diversa condotta di Licinio e di Costantino in far uso della vittoria.
409Si soddisfacevano le sensuali passioni di Massimino a spese de' propri sudditi. Gli Eunuchi di esso, che rapivano a forza le spose e le vergini, con scrupolosa curiosità ne esaminavano le nude bellezze, affinchè non si trovasse parte veruna del loro corpo indegna degli abbracciamenti reali. La ripugnanza e il rifiuto si riguardava come un tradimento, e qualunque bella, che si ostinasse ad esser ritrosa, condannavasi ad esser annegata. Fu appoco appoco introdotto l'uso, che nessuno potesse prender moglie senza la permissione dell'Imperatore «ut in omnibus nuptiis praegustator esset». Lactant. de M. P. c. 38.
410Diocleziano finalmente mandò cognatum suum quemdam militarem ac potentem virum per intercedere a favore della sua figlia (Lattanz. de M. P. c. 31). Noi non siamo abbastanza informati dell'istoria di questi tempi per determinar la persona, ch'ebbe tal incumbenza.
411Valeria quoque per varias provincias quindecim mensibus plebeio cultu pervagata. Lactant. de M. P. c. 51. Vi è qualche dubbio, se i quindici mesi debban contarsi dal tempo dell'esilio, o della fuga di essa. L'espressione pervagata sembra indicare, che si contino dalla fuga; ma in tal caso bisogna supporre, che il trattato di Lattanzio fosse scritto dopo la prima guerra civile tra Licinio, e Costantino. Vedi Cuper p. 254.
412Ita illis pudicitia et conditio fuit. Lactant. de M. P. c. 51. Questi riferisce le disgrazie delle innocenti moglie e figlia di Diocleziano con una molto natural mescolanza di compassione e di letizia.
413Il curioso lettore, che voglia consultare il frammento Valesiano (p. 713) mi accuserà forse di darne un'ardita e licenziosa parafrasi; ma se lo considera con attenzione, conoscerà, che la mia interpretazione è probabile e coerente.
414La situazione di Emona, o come si chiama presentemente, Laybach nella Carniola (Danville, Geog. Anc. T. I. p. 187) può suggerire una congettura. Essendo ella posta al nord-est delle alpi Giulie, quell'importante Territorio divenne un soggetto naturale di controversia fra' Sovrani dell'Italia e dell'Illirico.
415Cibalis, o Cibalae (di cui conservasi ancora il nome nelle oscure rovine di Swilei) era intorno a cinquanta miglia lontana da Sirmio, capitale dell'Illirico; e circa cento da Taurunum o Belgrado, e dall'unione del Danubio col Savo. Le guarnigioni Romane, e le città poste su que' fiumi sono eccellentemente illustrate dal Danville in una memoria inserita nell'Accademia delle Iscrizioni Tom. 28.
416Zosimo (l. II, p. 90, 91) descrive minutamente questa battaglia, ma più da retore, che da soldato.