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Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 3

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Che Nerone potè essere disposto ad imputare il suo delitto ai Giudei, è un semplice può essere. Che i Giudei potessero sottrarsi a questa procella per la protezione di Poppea, è un altro può essere. Che sostituissero in loro vece i Galilei o sia i seguaci di Giuda Gaulonia, è un può essere inverisimile: poichè odiando eglino molto più che questi i Cristiani, avrebbero fatto piombar il fulmine piuttosto sopra i Cristiani, che sopra una loro setta.

Consultiamo congetture più plausibili. È certo, che i Cristiani hanno sempre creduto che Nerone incrudelisse contro di loro; e che nella loro tradizione non vi poteva essere equivoco; mentre dovevano dagli amici, da' parenti, da' Sacerdoti essere pienamente informati di tutte le circostanze. Se le vittime sventurate della crudeltà del Tiranno non fossero state del loro istituto, trattandosi di comparire rei o almeno capaci di un delitto così odioso, non dovevano opporsi all'opinione, che si finge invalsa a tempo di Adriano, per lavarsi dall'infamia, e per non autorizzare gli altri Principi coll'esempio di Nerone?

Nell'affar dall'incendio non fu perseguitata direttamente la fede de' dogmi; ma i Cristiani non soffrirono quel barbaro trattamento se non perchè professavano una Religione, accusata dall'odio del genere umano, e capace d'incendiare la capitale dell'Impero.

Ma riguardo alla Religione stessa, Tertulliano dice, che Traiano annullò leggi contrarie a' Cristiani: e prima di questo Principe le rammentate leggi non possono ascriversi che a Domiziano ed a Nerone. Lattanzio pure scrive, che Nerone si accinse a rovinare il tempio celeste. Da ultimo S. Pietro e S. Paolo conseguirono la palma del martirio sotto questo Principe, ma non nell'occasione dell'incendio di Roma. Se ciò è vero, la persecuzione dovè essere generale.

Tolto questo mostro dal mondo, il Senato ne annullò gli atti, e i Principi, che vennero appresso sino a Domiziano, non consta, che avessero pubblicate leggi contro i Cristiani. Ma non perciò si lasciava di procedere contro di loro, in virtù delle leggi generali che venivano a ferirne l'istituto. Ma veniamo a Domiziano.

Ristretto. Avendo il fuoco incendiato il tempio del Campidoglio, gl'Imperadori imposero una tassa ai Giudei; il che diede motivo di vessarli: i Cristiani, che passavano per Giudei, furono involti nella persecuzione. Dei due figliuoli di Flavio Sabino zio di Domiziano, il maggiore fu convinto di cospirazione; il minore detto Flavio Clemente dovè la sua sicurezza alla mancanza di coraggio e di abilità, ma finalmente fu fatto morire: e Domitilla sua moglie fu rilegata. Il delitto imputato loro fu d'ateismo e di costumi Giudaici: onde qui non vi è idea nè di martiri nè di persecuzione.

Risposta. L'incendio del tempio del Campidoglio avvenne durante la guerra civile tra Vitellio e Vespasiano: il nuovo tempio fu dedicato da Domiziano, ma la tassa imposta ai Giudei fu a lui anteriore. Nè i Cristiani confondono le vessazioni sofferte da' Giudei, e forse da alcuni del loro partito, colle leggi proibitive del Cristianesimo: onde l'Autore confonde le sue idee, e quelle del lettore per voler troppo discorrere.

La legge riguarda la condanna di Flavio Clemente, ch'egli fa morire per pura gelosia di governo, citando il principio d'un passo di Dione, e sopprimendo il rimanente, dove soggiunge lo Storico, che sopra la stessa accusa di ateismo e di costumi Giudaici altri furono condannati alla morte, ad altri furono confiscati i beni. Queste esecuzioni suppongono una legge fatta per proibire l'ateismo e i costumi Giudaici, caratteri, che convengono ai soli Cristiani; onde a Clemente di poco talento, cioè modesto rimane nel numero de' Martiri, e Domiziano nella classe de' Persecutori. E notiamo di volo, che sotto Domiziano il Cristianesimo si era insinuato nella sua famiglia.

Articolo secondo. Se gl'Imperatori si condussero con precauzione e con ripugnanza nel perseguitare i Cristiani

Nuova e singolar maniera di ragionar sulla storia! Turbar l'ordine cronologico senza bisogno; parlar del martirio di San Cipriano prima che avvenisse; unir Tiberio con Marco Aurelio, e farli venire in iscena dopo Traiano; e dopo Decio rompere la serie degli Imperadori per trattenerci sull'ardore, col quale i Cristiani correvano al martirio, sopra i motivi che ve li spignevano, e sul rilassamento tra loro introdottosi, e finalmente dividere le parti della Commedia ed assegnare ad un Imperadore la precauzione, ad un altro la ripugnanza, ad un terzo la moderazione: e quindi conchiudere in tuono d'autorità, che i Persecutori del Cristianesimo si regolarono con precauzione, con ripugnanza, con moderazione; ecco i rari pregi di questo libro.

Non ha fatto così l'Autore del Discorso sulla Storia universale; non così l'Autore de' Ragionamenti sulla storia Ecclesiastica; non così l'Autore dell'Osservazioni sulla grandezza, e sulla decadenza de' Romani. Questi, che scrivevano per istruire, si guardarono da tutto ciò, che potesse partorir confusione; in vece di generalizzare le idee, limitarono le loro riflessioni alla natura di ogni fatto particolare; e così sotto il loro pennello il bianco è rimasto bianco, ed il nero è rimasto nero. Premendo noi le stesse vestigia, e rinunciando in fatto di storia all'universalità dell'idee, vorremmo porre sotto l'occhio del lettore le leggi fatte da ogni Imperadore, e la maniera colle quali furono eseguite; onde più dalla storia stessa che dalle nostre riflessioni risultasse il carattere proprio di ciascuno, se il nostro disegno ci permettesse di dilungarci: tuttavia non lasceremo che si desideri il bisognevole.

E primieramente la precauzione, la ripugnanza, la moderazione, che tanto si estolle, non si manifesta nella persecuzione indiretta e permanente; poichè l'aver appunto trascurato sino a Plinio di procedere nella causa de' Cristiani con una regola fissa; e l'avere permesso, che i Sacerdoti colle loro suggestioni, ed il popolo con tumultuosi clamori si arrogassero il diritto della sovranità, dà idea e ne' Principi e ne' sudditi di quei tempi di tutto altro che di precauzione, di ripugnanza, e di moderazione.

Secondariamente, i primi due autori delle persecuzioni dirette ed espresse, Nerone e Domiziano, sembrano piuttosto mostri che uomini, come ognuno facilmente concederà, senza che si ripetano da noi i decreti e le azioni loro. Ma siccome l'Autore ha tolti questi due Tiranni dal numero de' persecutori, e pretende, che Traiano fosse il primo a far leggi particolari sopra i Cristiani, così da questo cominciano ad additarsi nella storia i tre caratteri dianzi rammentati. Osserviamo intanto, com'egli faccia il ritratto di Traiano e de' suoi successori.

Articolo terzo, se Traiano, Adriano ed Antonino si condussero con precauzione, con ripugnanza, e con moderazione contro i Cristiani

Ristretto. Sotto Traiano, Plinio il giovane, Governatore della Bitinia trovossi perplesso nel determinare qual legge seguir dovesse co' Cristiani, dal che si arguisce che fino allora non esisteva contro di essi alcuna legge generale. Egli ricorse a Traiano, nella risposta del quale si stabilirono due utili regolamenti. Perchè egli ordina ai Magistrati di punire i convinti, proibisce di farne inquisizione; rigetta l'accuse anonime, e similmente il denunciante doveva provare tutte le circostanze dell'accusa. Se vi riusciva si rendeva odioso ed a' Cristiani ed a' Gentili; se non vi riusciva, incontrava la pena severa, e forse capitale imposta da una legge di Adriano: onde non si crederà sicuramente che i sudditi idolatri dell'Impero Romano avessero formate leggermente o frequentemente accuse, dalle quali avevano sì poco a sperare.

Risposta. Primo, questo tratto di storia è distinto dall'Autore a dimostrare la precauzione, e la ripugnanza: la moderazione nell'uso delle pene è argomento d'un altro quadro.

Secondo, nel titolo dell'articolo egli annunzia in generale, che gl'Imperadori si condussero con precauzione e con ripugnanza, quando si trattò di punire i sudditi accusati di Cristianesimo; e qui parla del solo Traiano, e tocca di volo Adriano, e sino all'ultimo de' persecutori più non parla di questo.

Terzo, riferisce imperfettamente la legge di Traiano, dalla quale essenzialmente dipende il giudizio, che far ne dobbiamo; e regala grandi vantaggi a' Cristiani a forza d'immaginarli.

Plinio espose a Traiano, che avendo fatto diligente esame intorno all'istituto ed alle adunanze de' Cristiani, non vi aveva trovato se non che cantavano lodi al loro Cristo; che facevano pranzi sobri ed ordinari, e che si astringevano con giuramento ad astenersi da ogni reità; che avevano cessato pure di adunarsi per ubbidire agli ordini suoi; e che poste per maggior cautela due donne Cristiane a' tormenti, non potè altro scuoprire se non un gran fondo di superstizione. Risponde l'Imperadore, che in quest'affare non si può stabilire una regola sicura; ma si compiace di ordinare, che non si faccia più inquisizione contro i Cristiani, se però essi verranno accusati e convinti, i Magistrati usino ogni mezzo di ridurli, e trovandoli ostinati, li puniscano colla morte.

Confessa lo stesso Autore, che la legge è contraddittoria: in fatti se il Cristianesimo gli pareva delitto di morte, doveva permettere, che si seguisse a procedere per inquisizione come in tutti gli altri delitti capitali; se non gli sembrava che vi dovesse aver luogo l'inquisizione non doveva punir di morte gli accusati.

Questa legge recò due gravissimi danni ai Cristiani. Traiano lasciò libero ai Magistrati l'impiegare i mezzi eziandio di rigore, affin di ridurre i Cristiani al volere del Principe; e così aprì la via ai tormenti ed alla crudeltà: ed essendo questo il primo piano criminale fatto contro il Cristianesimo, si stabilì sì fattamente, che gl'Imperadori seguenti non poterono del tutto abolirlo, quando vollero favorire gli oppressi. Quindi la ripugnanza vi è nella legge, ma non vi è nè precauzione, nè moderazione; anzi evvi o una negligenza così supina o una politica così artifiziosa, che i Cristiani sono costretti ad imputare a Traiano tutti i mali, che fecero loro soffrire i suoi successori.

 

È curioso l'Autore, quando dice, che gli accusatori dovevano vergognarsi o temere. Sapete chi erano gli accusatori? I Sacerdoti, i Filosofi, i quali stimavano di prestar ossequio agli Dei, perdendo i loro nemici. E la legge di Traiano recò loro tanto poco spavento, che Adriano suo successore, ed indi Antonino Pio non poterono frenarne altrimenti l'ardore, che coll'imporre al calunniatore la stessa pena del calunniato. Eglino pure dichiararono, che i clamori del popolo non sarebbero stati più ammessi come prova legale.

In questi due Principi la verità ci obbliga a riconoscere qualche grado di ripugnanza, di precauzione, di moderazione; ed i nostri Storici hanno loro renduta la meritata giustizia. Iddio volesse ch'eglino avessero avuto il coraggio di condannare all'obblio la funesta legge di Traiano. Avendo eglino conosciuta la ragione, dovevano trarla da' ceppi dell'oppressione invece di consolarla. Ma la spada nelle loro mani non fu digiuna di sangue: e molti Martiri sotto di loro illustrarono la Chiesa. Forse temettero la superstizione del popolo e la possanza dell'irritabile genere de' Sacerdoti Pagani: non avendo essi avute idee molto pure della giustizia, noi, piuttosto che malignare sulla loro condotta, siamo disposti a compatirli. Lo stesso Traiano per avventura era stato costretto a rispettare la congiura universale del Paganesimo contro i Cristiani, ma non sappiamo perdonargli l'aver permesso ai Magistrati di tentar la costanza de' denunciati, sempre che la giustizia suole impiegare i tormenti ad ottenere la confessione, non la negazione del delitto.

Articolo quarto. Se gl'Imperadori furono moderati nell'uso delle pene

Ristretto. Non era la pena una conseguenza inevitabile dell'essere alcuno stato convinto: chi tornava all'Idolatria era assoluto, applaudito, premiato; ed i giudici prendevano piuttosto a disingannarli che a punirli. Gli Scrittori del quarto e del quinto secolo hanno attribuito ai Magistrati Romani le più grandi crudeltà, e le più indecenti tentazioni. La loro educazione, il rispetto per le regole della giustizia, l'amore pe' precetti della filosofia non rendono credibili tali racconti.

Risposta. Di che tempo si parla? Di quali Ministri? Sotto quali Imperadori? Dovrebbero determinarsi tutte queste circostanze, per ragionare con fondamento sulla pretesa moderazione. Fu moderato Nerone, che fece servir i Cristiani per funesti fanali a' suoi infami divertimenti? Fu moderato Domiziano, che incrudelì contro il proprio sangue? Fu moderato Traiano, che aprì il primo la via de' tormenti? Fu moderato Decio che ordinò ai Magistrati d'inventarne de' nuovi? Fu moderato Marco Aurelio, che molto prima di Decio fece crudelissime stragi? Fu moderato Galerio, che opinò che i Cristiani si dovessero bruciar tutti vivi? Quali i Principi, tali esser ne dovevano i Ministri. Se si fosse trattato di un delitto, in cui i Giudici alcuno interesse non avessero avuto, si potrebbero per ventura supporre, quali sono dal loro Apologista dipinti. Ma eglino professavano la Religion combattuta da' Cristiani; ed avevano continuamente all'orecchio i Sacerdoti degl'Idoli. Come supporli indifferenti, e piuttosto disposti a disingannare, che a punire i nemici de' loro Numi? Qualche esempio di moderazione e di umanità pur nella storia si trova; ed i nostri Scrittori stessi ne hanno conservata la memoria; ma è un abusare del pubblico il citar qualche esempio in prova di un'asserzione generale.

E giacchè l'Autore ci obbliga a fare il vero carattere de' Magistrati Romani, invece dell'eccellente educazione, del rispetto per la giustizia, dell'amore per la filosofia, noi troviamo due fatti incontrastabili. Primo, che gl'Imperadori dovettero varie volte reprimere la licenza de' loro ministri. Secondo, sotto Decio questi edificanti Ministri vendevano pubblicamente falsi attestati ai Cristiani, che non avevano coraggio di combattere; e per costringerli a comprarli, facevano soffrire i più barbari tormenti a que' miserabili, che non potevano pascere la loro avarizia? La bella educazione! l'incorrotta giustizia! il purissimo amore della filosofia! farsi spergiuri e tradire il proprio Principe e la propria Religione.

Il Mosemio ha trovate le tracce di sì reo costume, anche ne' tempi anteriori a Decio e sappiamo dagli Atti Apostolici che S. Paolo fu fatto marcire due anni in prigione dal Ministro Romano, che si era lusingato di poterne trarre danaro. E se il danaro veniva loro offerto da' sacerdoti de gl'Idoli, come non è incredibile, con qual ferocia dovevano avventarsi contro gli oggetti dell'odio loro?

Riferiscono gli Storici del quarto e del quinto secolo che i Pagani alle volte impiegavano contro i Cristiani le più indecenti tentazioni; e ciò era conforme alla loro Religione. Non si sa, che Venere avea dei postriboli dedicati al suo nome, e che le meretrici credevano di onorarla? E questo si pretendeva dalle Vergini Cristiane?

Ma eccoci costretti a rompere il filo della Cronologia, per trattenerci in varie digressioni su i motivi, che portavano i Cristiani a cercare il martirio, sull'ardore de' primi Cristiani, sul rilassamento, che vi s'introdusse per gradi; sopra i diversi mezzi di evitare il martirio, e sopra gli editti di Tiberio e di Marco Aurelio.

Digressione prima sopra i motivi, che portavano i Cristiani a cercare il martirio

Ristretto. Le vaghe declamazioni de' Padri non spiegano il grado di gloria, ch'essi promettevano a chi spargeva il sangue in difesa della Religione. Insegnavano, che il fuoco del martirio suppliva ogni difetto ed espiava ogni colpa, che mentre le anime degli altri Cristiani erano obbligate a passare per una lenta e penosa purificazione, i martiri entravano trionfanti al godimento immediato dell'eterne beneficenze. Oltre questo motivo servivano d'incitamento gli onori co' quali la Chiesa celebrava i gloriosi Campioni dell'Evangelio. I Confessori, che non erano condannati a morte, erano pure onorati; ed essi troppo spesso abusavano col loro spirituale orgoglio e colle licenziose maniere della preeminenza, che lo zelo e l'intrepidità avevano loro acquistata.

Risposta. La dottrina de' Padri circa il valore del martirio è chiara, ed è quella, che ha esposta l'Autore. Quanto al grado di gloria assegnato ai Martiri, il saperlo non era di gran giovamento.

Se l'Autore riconosce, che i Martiri correvano alla morte a motivo della gloria celeste, non può loro attribuire quello della gloria temporale: un Martire sapeva, che l'orgoglio spirituale lo avrebbe privato della mercede, alla quale aspirava; onde o rinunciava al martirio o alla superbia.

I Confessori erano onorati: si rispettavan in essi la presenza della grazia, che gl'infiammava al martirio: ma le decisioni si aspettavano dalle mani de' Vescovi non de' Confessori.

Non possiamo mettere in dubbio la testimonianza di S. Cipriano, il quale si duole del rilassamento, che cominciava ad introdursi tra' Confessori, passata già la tempesta: questi sventurati non avevano forza di resistere ad un secondo combattimento: e perciò il Santo Vescovo insisteva tanto sulla disciplina che riguardava gli onori de' Confessori.

Seconda digressione sull'ardore de' primi Cristiani

Ristretto. Noi saremmo disposti più a criticare che ad ammirare l'ardore de' primi Cristiani, che spiravano sentimenti opposti alla comune inclinazione della natura dell'uomo. Molti irritavano il furor de' leoni, affrettavano i carnefici, si lanciavano con gioia tralle fiamme; e non avendo accusatori si dichiaravano da se stessi, e correvano in folla attorno ai tribunali. I filosofi ne stupivano, e trattavano tale maniera di morire come uno strano risultato di ostinata disperazione e di stupida insensibilità, o di superstiziosa frenesia.

Risposta. Lattanzio rispondeva a questi filosofi, che la stupidità o la stoltezza si trova sempre in pochi; che non si concepisce come divengano folli ad un tratto persone in gran numero, di ogni età, di ogni sesso, di ogni condizione, sparse in tante diverse regioni. Vuolsi ancora notare che la pretesa frenesia derivava da un sistema di dottrina ragionato, ed era la conchiusione di un sistema di vivere similmente ragionato. Da ultimo è certo che la vista de' Martiri talora convertiva improvvisamente gli astanti, che si dichiaravano Cristiani per morire egualmente Martiri. Ciò non è frequente nell'ordine della natura.

Prima che il Martire Ignazio prorompesse in sentimenti opposti alla comune inclinazione della natura dell'uomo, S. Paolo aveva detto: cupio dissolvi et esse cum Christo. Perciò noi siamo portati ad ammirarli invece di criticarli. Ma chi ha perduto il tatto spirituale, ed ha riposto ogni suo bene negli oggetti grossolani de' sensi, certamente nulla più dee temer che la morte.

Terza digressione sul rilassamento, che s'introdusse per gradi

Ristretto. Quest'ardor della mente diè luogo insensibilmente alle speranze e timori più naturali del cuore umano, all'amor della vita, all'apprension della pena, ed all'orrore del proprio discioglimento. I regolatori più prudenti della Chiesa trovaronsi costretti a raffrenar l'indiscreto fervore de' lor seguaci, e a diffidare d'una costanza che troppo spesso gli abbandonava nel momento del pericolo. A misura che divenne meno mortificata ed austera la vita de' Fedeli, essi furono meno ambiziosi degli onori del martirio.

Risposta. Questo avvenne sotto Decio, la cui persecuzione fu violentissima. Ne' tempi seguenti, sino a Costantino, non si osservarono le stesse cadute. Ecco adunque una febbre di spirito, che sta tre secoli a dar luogo a poco a poco all'amor della vita ed all'apprension del dolore.

Quarta digressione sopra i mezzi di evitare il martirio

Ristretto. Eranvi tre mezzi di sottrarsi alla fiamma della persecuzione, 1. L'accusato aveva tutto il tempo di difendersi: s'egli diffidava della sua costanza, la dilazione gli serviva per fuggire, il che fu autorizzato dall'avviso e dall'esempio dei più santi Prelati. 2. I Governatori vendevano per avarizia attestati, ne' quali si dichiarava, che le persone nominate si erano sottomesse alle leggi, ed avevano sacrificato alle divinità di Roma; e così i Cristiani potevano quietar la malignità d'un accusatore. 3. Molti veramente apostatavano; ma cessato il pericolo erano ammessi tra' penitenti.

Risposta. Quando il popolo era da subito furore assalito non si dava nè libertà, nè tempo di difesa al Cristiano. Quando i Magistrati volevano vendicarsi dell'affronto che ricevevano dalla costanza de' martiri, quando erano pagati da' Sacerdoti, quando non erano pagati da' Cristiani; e quando la mente dell'Imperatore propendeva al rigore, gli accusati non avevano altro mezzo di schivare i tormenti e la morte, fuorchè l'apostasia. Quando il Principe inclinava all'indulgenza i ministri la secondavano, e riusciva a qualche Cristiano di rimanersi occulto.

Ma la fuga non si concedeva a chi era caduto una volta nelle mani della giustizia; questi venivano ristretti e custoditi in prigione, ed erano riserbati alla prova de' tormenti. Fuggivano quelli che non erano stati ancora denunziati o arrestati.

Libertà di difese non ve n'era, nè ve ne poteva essere. Non si trattava di verificare un delitto: e l'accusato confessava e persisteva nel suo proponimento, e non era capace di difese; o tornava alla Religione degl'Idoli, ed era assoluto, applaudito, premiato.

I Libellatici, così detti, perchè si munivano de' falsi attestati che compravano dall'avarizia de' ben educati, de' giusti, de' filosofi Ministri, furono dalla Chiesa creduti rei di grave peccato, e questo consisteva nello spergiuro e nello scandalo. S. Cipriano si esprime così: nefandos idolatriae libellos. Ma il N. A. dice, che era riguardata come una venial mancanza che si espiava con una leggera penitenza, ingannato per avventura dalle parole del Mosemio: modica molestia veniam delicti sui ab Ecclesiis impetrabant, quasi impetrare veniam, significasse che il peccato era veniale. E le parole modica molestia esprimono, che le Chiese gli ricevevano alla comunione senza molto stento, giacchè essi realmente non avevano negata la fede.

 
Digressione quinta sopra gli editti di Tiberio e di Marco Aurelio

Ristretto. L'Apologetico di Tertulliano contiene due esempi della clemenza degl'Imperatori, ma molto sospetti; e sono gli editti di Tiberio e di Marco Aurelio. Quanto al primo, non è verisimile, che Pilato informasse l'Imperatore della sentenza di morte da se ingiustamente pronunciata: nè che Tiberio conosciuto al dispregio di ogni Religione, volesse collocar G. C. tra gli Dei di Roma; nè che il servile Senato gli si opponesse; nè che questo Principe proteggesse i Cristiani dalla severità di leggi, che ancora non erano state fatte. Quanto al secondo, la colonna Antonina prova, che Marco Aurelio ed il popolo Romano attribuirono la pioggia maravigliosa a Giove ed a Mercurio, non al Dio de' Cristiani. In tutto il corso del suo regno Marco Aurelio dispregiò i Cristiani come filosofo, li punì come Sovrano.

Risposta. Non è il solo Tertulliano, che riferisca il fatto di Tiberio: ne fa pure menzione Melitone nell'Apologia, che presentò ad Antonino, oltre Eusebio, Orosio ed altri citati dal Fabricio. Nè le difficoltà, che si fanno in contrario, sono di gran momento. I Governatori erano tenuti a mandare all'Imperadore ogni famosa sentenza, che usciva dal loro tribunale; sicchè se Pilato non ne lo informava, doveva temere il gastigo dovuto alla mancanza del suo uffizio. E non era meglio prevenire e giustificarsi di proprio pugno, facendo cadere tutta la colpa sopra i sediziosi Giudei? Tiberio, ch'era irreligioso, dette molti esempi di animo superstiziosissimo: e potè costringere il Senato a ricevere tra gli Dei un savio della Giudea per mortificare quella servile adunanza. Il Senato potè opporglisi, sicuro del suffragio del popolo, ed appoggiato all'antica legge, che proibiva l'introduzione di ogni culto straniero: e Tiberio che progettò, non comandò, potè desistere da un impegno difficile, e farne occulta vendetta. Potè pure proteggere i Cristiani contro l'accennata legge, e contro l'altra spettante ai maleficj, benchè niuno ancora avesse fatte leggi particolari contro il Cristianesimo. Il Mosemio che agita questa controversia di critica, dice che le adotte ragioni non possono facilmente distruggersi.

Il miracolo della legione fulminante è sostenuto validamente da gran numero di Scrittori, che non possono tacciarsi di mancanza di critica. Insegnano essi, che se quello fu vero miracolo, dee necessariamente attribuirsi al vero Dio; e quale viene descritto dagli stessi Pagani, non può richiamarsi alla forza delle cagioni naturali. Insegnano, che la colonna Antonina, nella quale la grazia si ascrive a Giove ed a Mercurio fu eretta da' Pagani, i quali certamente dovevano contrastare ai Cristiani la liberazione dell'esercito. L'unica difficoltà che meriti considerazione si è il vedere, che quest'Imperadore perseguitò i Cristiani dopo il riferito miracolo. Ma Houtteville crede d'aver chiaramente dimostrato, che nel testo di Eusebio debbasi leggere l'anno 7 in vece di 17 per collocare la persecuzione prima dell'avvenimento: e soggiunge, che supponendo autentica la data d'Eusebio, la persecuzione deve ascriversi ai Sacerdoti, ai Magistrati, al popolo, così altamente infuriati contro i Cristiani a dismisura cresciuti, che neppure rispettavano la volontà del Principe.

Articolo quinto. Intervalli di pace goduti dalla Chiesa

Non è nostro intendimento di seguire l'Autore, che come abbiamo osservato ha orribilmente sconvolto l'ordine de' tempi, e facendo calcoli poco esatti, e poco veridici, trova or qua or là lunghi intervalli di pace. Confuteremo alla rinfusa i suoi errori, con mettere sotto l'occhio del lettore le semplici date de' tempi, seguendo le tracce del Mosemio, che non può essere a lui sospetto, come quegli, che gli ha fornita lo maggior parte della materia, onde ha empito questo capo.

La Chiesa nacque nella Giudea, e nacque nella persecuzione, che spesso da S. Luca vien detta magna. Passata appena nel regno dell'Idolatria sotto lo stesso Tiberio, i Cristiani, oscuramente conosciuti, venivano puniti in virtù di due leggi stabilite da molto tempo nell'Impero contro i culti stranieri, e contro i maleficj. Abbiamo fondamento di credere, che Tiberio accordasse la sua protezione ai seguaci dell'Evangelio, ma eglino non si lodano di Caligola e di Claudio, come di quello. Le predette leggi sotto costoro servivano di pretesto ai sacerdoti, ai filosofi, al popolo di perseguitare i Cristiani.

Nerone nel decimo anno del suo regno fu indubitatamente il primo a dichiarare la persecuzione che durò 4 anni quanti egli ne sopravvisse. Galba regnò 7 mesi, poco meno Ottone, e 15 Vitellio, che fu sempre in guerra con Vespasiano, il quale governò 10 anni, e 2 Tito. I nominati Principi non fecero editti di persecuzione; ma ella si esercitava tacitamente e diveniva più violenta a misura che i progressi del Cristianesimo recavano maggior gelosia e timore ai cultori degl'Idoli.

Domiziano che resse l'Impero 15 anni solamente, negli ultimi pubblicò il suo editto contro i Cristiani, che fu rivocato o da lui stesso o da Nerva, il quale diede alla Chiesa due anni di respiro. La persecuzione di Traiano durò 19 anni, prima più ampia in vigore delle antiche leggi, e poi più ristretta, ma renduta regolare e stabile dal di lui rescritto. Sulle di lui orme camminò Adriano nel principio del suo governo: in seguito mitigò, ma non abolì il sistema del suo predecessore; sicchè ne' 21 anni della sua amministrazione la Chiesa fu da non pochi Martiri illustrata. Antonino Pio lasciò per qualche tempo vessare i Cristiani a discrezione de' lor nemici: ma poi commosso dalle rappresentanze di un Ministro fece il famoso editto ad commune Asiae, per reprimere però solamente la temerità ed il gran numero degli accusatori: egli tenne 23 anni il comando. Marco Aurelio senza far nuove leggi, continuò la persecuzione, che in alcune province fu atrocissima, e cessò di vivere dopo 19 anni di principato. Anche ne' 13 anni di Commodo, che non fu persecutore, si trovavano de' Martiri. Severo piuttosto protesse i Cristiani a principio: ma al 5 anno si rivoltò e fece editti espressi contro di loro: sedè egli sul trono 18 anni. Anche i principj di Caracalla furono macchiati del sangue de' Martiri: in appresso si rallentò la tempesta; e tutto il suo governo fu di 6 anni.

A Caracalla successe Macrino, il cui regno fu di 1 anno, e passò ad Elagabalo, che lo tenne 3 anni. Egli protesse i Cristiani più per la follia de' suoi pensamenti che per inclinazione verso loro. Alessandro Severo, che visse 13 anni, amò i Cristiani: se non che il famoso Giureconsulto Ulpiano loro nemico per intimorire l'Imperadore raccolse tutte le leggi pubblicate sino allora contro la Chiesa; ciò che fece nascere molte vessazioni. Massimiano in tre anni che visse, fu sempre persecutore. Gordiano che non afflisse i Cristiani, morì dopo 6 anni di governo. Quello di Filippo durò 5 anni e fu loro favorevole. Ma Decio, il quale dichiarò di nuovo la persecuzione, la rese tanto funesta che il tempo delle passate procelle poteva sembrar tempo di calma. Egli regnò 4 anni, e 3 Gallo, che proseguì con minor rigore la persecuzione. Valeriano, che da prima si prestò favorevole ai Cristiani in progresso gli perseguitò per 4 anni. Gallieno restituì loro la pace, sebbene imperfettamente: egli visse 8 anni, e 2 Claudio, sotto cui pure le cose Cristiane furono abbastanza tranquille. Aureliano nel quinto anno del suo governo rinnovò la persecuzione, e morì appena che l'ebbe incominciata.

Siamo giunti a Diocleziano, e possiamo dire senza timore di esagerare, che la Chiesa sino a lui non fu un momento libera dalla persecuzione. Dieci Principi le fecero aperta guerra: alcuni la guardarono con indifferenza, ed alcuni altri la protessero. Ma la persecuzione indiretta era un fuoco perpetuo, mantenuto dall'interesse de' Sacerdoti e dalla superstizione del popolo; niuno de' Principi meno nemici del nome Cristiano osò di estinguere questo foco. Basta questa sola riflessione a convincersi, che la persecuzione, la ripugnanza, la moderazione, i lunghi intervalli di pace sono parti dell'accesa fantasia del Panegirista de' persecutori.