Ma non sarebbe a proposito di lasciar questo racconto della persecuzion di Nerone, senza fare alcune riflessioni, che possono servire a rimuovere le difficoltà, onde si rende dubbiosa la susseguente storia della Chiesa, ed a rischiararla di qualche lume.
I. Non può la critica più scettica non rispettar la verità di tal fatto straordinario, e la genuina tempera di questo celebre passo di Tacito. La prima vien confermata dall'esatto e diligente Svetonio, che rammenta il gastigo da Nerone dato a' Cristiani: setta di uomini che abbracciato avevano una nuova e colpevol superstizione35. L'altra si può provare col consenso de' più antichi manoscritti; coll'inimitabil carattere dello stile di Tacito, con la sua riputazione, che ne ha reso immune il testo dalle interpolazioni della pia frode, e col tenore della sua narrazione, che accusa i Cristiani de' più atroci delitti, senza insinuare, ch'essi godessero alcun miracoloso o magico potere sopra il resto del genere umano36. II. Quantunque sia probabile, che Tacito nascesse qualche anno avanti l'incendio di Roma37, potè ciò nonostante rilevare dalla lettura e dalla conversazione la notizia di un fatto, che seguì nel tempo della sua infanzia. Avanti di esporsi al Pubblico, tranquillamente egli aspettò, che il proprio ingegno fosse giunto alla sua piena maturità, ed aveva più di quarant'anni, allorchè un grato riguardo alla memoria del virtuoso Agricola trasse da lui la prima di quelle istoriche composizioni, che diletteranno ed istruiranno la più remota posterità. Dopo di aver fatto una prova della propria forza nella vita d'Agricola, e nella descrizione della Germania, concepì, e finalmente pose in esecuzione un'opera più difficile, vale a dire l'istoria di Roma in trenta libri, dalla caduta di Nerone sino all'avvenimento al trono di Nerva. L'amministrazione di quest'ultimo introdusse un tempo di prosperità e di giustizia, che Tacito avea destinato per occupazione della sua vecchiezza38; ma quando più da vicino esaminò quel soggetto, stimando per avventura, che fosse un uffizio più onorevole, o meno invidioso quello di rammentare i vizi de' passati tiranni, che di celebrar le virtù di un Sovrano regnante, si determinò piuttosto a narrare in forma d'annali le azioni de' quattro immediati successori di Augusto. L'impresa di raccogliere, disporre, e adornare una serie di ottant'anni in un'opera immortale, di cui ogni sentenza contiene le più profonde osservazioni, e le immagini più vive, fu bastante ad esercitare il genio di Tacito stesso per la maggior parte della sua vita. Negli ultimi anni del Regno di Traiano, mentre il vittorioso Monarca estendeva la potenza di Roma oltre gli antichi di lei confini, l'Istorico nel secondo e nel quarto libro de' suoi annali descriveva la tirannia di Tiberio39, e dovè succedere al trono l'Imperatore Adriano avanti che Tacito, nel regolar proseguimento della sua opera, potesse riferir l'incendio della Capitale e la crudeltà di Nerone verso gl'infelici Cristiani. Alla distanza di sessant'anni era dovere dell'Annalista d'adottare le narrazioni de' contemporanei, ma era naturale pel Filosofo di spaziare nella descrizione dell'origine, del progresso e carattere della nuova setta non tanto secondo le cognizioni, o i pregiudizi dell'età di Nerone, quanto secondo quelli del tempo di Adriano. III. Tacito assai frequentemente confida, che la curiosità o la riflessione de' suoi lettori sia per supplire a quelle intermedie circostanze ed idee, che nell'estrema sua precisione ha creduto proprio di sopprimere. Noi possiamo dunque avventurarci ad immaginare qualche probabil motivo, che diriger potesse la crudeltà di Nerone contro i Cristiani di Roma, de' quali non meno l'oscurità che l'innocenza avrebbe dovuto porli al coperto dallo sdegno ed anche dalla cognizione di esso. Gli Ebrei, che si trovavano in gran numero nella Capitale, ed eran oppressi nel proprio paese, formavano un oggetto molto più confacente a' sospetti dell'Imperatore, e del Popolo; nè potea parere improbabile, che una vinta nazione, la quale già manifestava il proprio abborrimento pel giogo Romano, potesse ricorrere a' mezzi più atroci, per soddisfare il suo implacabile desiderio di vendicarsi. Ma gli Ebrei avevano molto potenti avvocati nel Palazzo, ed anche nel cuor del Tiranno, cioè la bella Poppea, di lui moglie e signora, ed un favorito commediante della razza d'Abramo, che avevano già impiegate le loro intercessioni a favore del colpevole Popolo40. Bisognava in loro vece offerire qualche altra vittima, e si potè suggerir facilmente, che sebbene i veri seguaci di Mosè fossero innocenti dell'incendio di Roma, fra loro era insorta una nuova perniciosa setta di Galilei, ch'era capace de' misfatti i più orribili. Sotto il nome di Galilei si confondevano due distinte specie di uomini le più opposte fra loro ne' costumi e ne' principj, vale a dire i Discepoli, che avevano abbracciata la fede di Gesù di Nazaret41, e gli Zeloti, che aveano seguito la bandiera di Giuda Gaulonita42. I primi erano amici, i secondi nemici del genere umano; e l'unica somiglianza, che fosse tra loro, consisteva nell'istessa inflessibil costanza, che per difesa della lor causa li rendeva insensibili a' tormenti ed alla morte. I seguaci di Giuda, che inducevano i lor nazionali alla ribellione, restaron presto sepolti sotto le rovine di Gerusalemme; laddove quelli di Gesù, conosciuti sotto il più celebre nome di Cristiani, si diffusero per tutto l'Impero Romano. Quanto egli era naturale per Tacito, nel tempo d'Adriano, l'attribuire a' Cristiani la colpa ed i tormenti, che poteva con molto maggior verità e giustizia imputare ad una setta, della quale quasi era estinta l'odiosa memoria! IV. Qualunque sia l'opinione, che vogliamo avere di tal congettura (giacchè non è questa più che una congettura) egli è chiaro, che gli effetti non meno che la causa della persecuzione di Nerone furono ristretti alle mura di Roma43; che le religiose opinioni de' Galilei, o de' Cristiani, non furono mai un oggetto di pena, o anche di pura inquisizione; e che siccome l'idea de' lor patimenti fu per lungo tempo connessa con quella della crudeltà ed ingiustizia, così la moderazione de' seguenti Principi li dispose a risparmiare una setta oppressa da un Tiranno, il furore del quale ordinariamente s'era diretto contro la virtù e l'innocenza.
Egli è in qualche modo da notarsi, che le fiamme della guerra consumaron quasi nel medesimo istante il tempio di Gerusalemme ed il Campidoglio di Roma44; nè sembra meno singolare, che il tributo della devozione, destinato pel primo, convenir si dovesse dalla forza di un vincitore insultante in restaurare ed ornar lo splendore dell'altro45. L'Imperatore impose una tassa generale per via di capitazione sul popolo Ebreo, e quantunque la somma, che toccò a ciascheduno individuo, non fosse considerabile, pure l'uso pel quale era destinata, e la severità, con cui si esigeva, la facevano riguardare come un intollerabile peso46. Poichè i ministri di tal esazione estendevano le loro ingiuste ricerche a molti, che niente avevan che fare col sangue, o con la religion degli Ebrei, era impossibile che i Cristiani, i quali sì spesso eransi coperti sotto l'ombra della Sinagoga, evitassero allora quella rapace persecuzione. Ansiosi com'erano di sfuggire la più leggiera infezione d'idolatria, la lor coscienza vietava ad essi di contribuire all'onore di quel demonio, che aveva preso il carattere di Giove Capitolino. Siccome un assai numeroso benchè decadente partito fra' Cristiani, aderiva sempre alla legge di Mosè, gli sforzi, che facevano per nasconder la loro origine Giudaica, venivano scoperti dalla decisiva testimonianza della circoncisione47, nè i Magistrati Romani avean comodo d'investigare la differenza de' religiosi sentimenti. Fra' Cristiani presenti al Tribunale dell'Imperatore, o come par più probabile, avanti a quello del Procurator della Giudea, si dice che ve ne comparissero due distinti per la loro estrazione, ch'era veramente più nobile di quella de' più gran Monarchi. Questi erano i nipoti di S. Giuda Apostolo, fratello di Gesù Cristo48. Le lor naturali pretensioni al trono di David potevan forse attirar loro il rispetto del Popolo, ed eccitar la gelosia del Governatore; ma la bassezza del loro vestire e la semplicità delle lor risposte lo convinsero ben presto, ch'essi non erano desiderosi, nè capaci di turbar la pace del Romano Impero. Essi confessarono francamente la propria stirpe reale e la stretta parentela che avevano col Messia, ma rinunziarono ad ogni temporale oggetto, e si protestarono, che il regno, da essi devotamente aspettato, era puramente di una specie spirituale ed angelica. Quando esaminati furono intorno a' loro beni ed impieghi, mostrarono le loro mani indurite dalla giornaliera fatica, e dichiararono, che traevan tutto il loro mantenimento dalla coltivazione di un fondo vicino al villaggio di Cocaba dell'estensione di circa 24 acri Inglesi49 e del valore di 9000 dramme, o sia di trecento lire sterline. I nipoti di S. Giuda furon licenziati con compassione e disprezzo50.
Ma quantunque l'oscurità della casa di David la potesse far sicura da' sospetti di un tiranno, tuttavia la presente grandezza della propria famiglia pose in agitazione la pusillanime indole di Domiziano, il quale non poteva quietarsi, se non se col sangue di que' Romani, che egli temeva, o detestava, o stimava. De' due figli di Flavio Sabino51 suo zio, il maggiore fu tosto convinto di meditare tradimenti, ed il minore, che aveva il nome di Flavio Clemente, dovè la propria salvezza alla mancanza di coraggio e di abilità52. L'Imperatore distinse per lungo tempo un sì innocente congiunto col suo favore e con la sua protezione, gli diede in isposa la sua nipote Domitilla, adottò i figli di quel matrimonio, dando loro la speranza della successione, ed investinne il padre degli onori del Consolato. Appena però ebbe finita l'annuale sua magistratura, che per un leggiero pretesto fu condannato e posto a morte; Domitilla fu bandita in un'Isola abbandonata sulle coste della Campania53; e furon pronunziate sentenze di morte, o di confiscazioni contro un gran numero di persone, che si trovarono involte nell'accusa medesima. Il delitto imputato loro fu quello di Ateismo, e di costumi Giudaici54; singolare associazione d'idee, la quale non può con alcuna verosimiglianza applicarsi, che a' Cristiani presi in quell'aspetto, nel quale venivano oscuramente ed imperfettamente risguardati da' Magistrati e dagli scrittori di quella età. Sulla forza di una interpretazione così probabile, che ammette con troppa violenza i sospetti di un tiranno, come una prova del lor onorevol delitto, la Chiesa ha posto Clemente e Domitilla fra' suoi primi martiri, ed ha infamati gli atti di Domiziano chiamandoli seconda persecuzione. Ma questa (se pur merita questo nome) non fu di lunga durata. Pochi mesi dopo la morte di Clemente e l'esilio di Domitilla, Stefano, liberto del primo, che aveva goduto il favore, ma sicuramente non aveva abbracciata la fede della sua Padrona, assassinò l'Imperatore nel proprio di lui palazzo55. La memoria di Domiziano fu condannata dal Senato; furono annullati i suoi atti; gli esiliati da lui, richiamati; e sotto il dolce governo di Nerva, mentre si restituirono gl'innocenti ai gradi ed alle sostanze loro e fortune, anche i più colpevoli ottennero il perdono, o evitarono la punizione56.
II. Circa dieci anni dopo, sotto il regno di Traiano, fu affidato a Plinio il Giovane dal suo amico e signore il governo della Bitinia e del Ponto. Egli si trovò tosto perplesso nel determinare a qual regola di giustizia o di legge dovesse appigliarsi nell'esecuzione di un uffizio il più ripugnante alla sua umanità. Plinio non si era mai trovato presente ad alcun processo giudiciale contro i Cristiani, de' quali sembra che non conoscesse che il nome, e gli era del tutto ignota la natura del lor delitto, il metodo di convincerli, e la misura delle pene, che si dovevano ad essi applicare. In questa dubbiezza ricorse, com'era solito, allo spediente di esporre alla saviezza di Traiano un imparziale, ed in alcuni capi favorevol ragguaglio della nuova superstizione, supplicando l'Imperatore a degnarsi di sciogliere i suoi dubbi, e d'illuminare la sua ignoranza57. Plinio avea impiegato la sua vita nell'acquisto della scienza e negli affari del mondo. Fin dall'età di diciannove anni avea perorato con distinzione ne' tribunali di Roma58, occupato un posto nel Senato, goduto gli onori del Consolato, ed acquistate moltissime relazioni con ogni ceto di uomini così nell'Italia come nelle Province. Dalla perplessità di lui possiam quindi trarre qualche utile indizio; possiamo assicurarci, che quando egli prese il governo della Bitinia, non erano in vigore leggi universali, o decreti del Senato contro i Cristiani: che nè Traiano, nè alcuno de' suoi virtuosi predecessori, de' quali erano in uso gli editti nella giurisprudenza civile e criminale, avevan dichiarato pubblicamente le loro intenzioni rispetto alla nuova setta, e che per quante processure si fosser fatte contro i Cristiani, non ve n'era alcuna di peso ed autorità sufficiente per determinar la condotta di un Magistrato Romano.
La risposta di Traiano, alla quale hanno frequentemente appellato i Cristiani de' posteriori tempi, dimostra tanto riguardo per la giustizia e l'umanità, quanto si potea conciliare con le false idee della religiosa politica59. Invece di far vedere l'implacabile zelo d'un inquisitore, ansioso di scoprire le più minute particolarità dell'eresia, ed esultante nel numero delle sue vittime, l'Imperatore manifesta molto maggior premura per proteggere la sicurezza dell'innocente, che per impedire lo scampo del colpevole. Riconosce la difficoltà di stabilire alcun sistema generale; ma pone due regole salutari, che spesso diedero sollievo ed aiuto agli angustiati Cristiani. Quantunque ordini a' Magistrati di punir quelle persone che son legalmente convinte, proibisce però loro con una incoerenza molto umana di far veruna ricerca intorno a' supposti rei. Nè si permette al Magistrato di procedere in qualunque specie d'accusa. Rigetta l'Imperatore le accuse anonime come troppo ripugnanti all'equità del suo governo; ed affinchè si abbiano per convinti coloro, a' quali viene imputato il delitto di professare il Cristianesimo, rigorosamente richiede la positiva testimonianza di un onesto ed aperto accusatore. Egli è probabile ancora, che quelli che assumevano un uffizio sì odioso, fossero obbligati a dichiarare i fondamenti de' loro sospetti, a individuare, tanto rispetto al tempo quanto al luogo, le segrete assemblee, che avevan frequentato i Cristiani loro avversari, ed a scuoprire un gran numero di circostanze, che si nascondevano con la gelosia più vigilante agli occhi profani. Se riuscivano in tal impresa, si esponevano allo sdegno di un attivo e considerabil partito, alla censura della porzione più culta dell'uman genere, ed all'ignominia, che in ogni tempo e paese ha sempre accompagnato il carattere di un accusatore. Se mancavano per l'opposto nelle lor prove, incorrevano la severa, e forse capital pena, che secondo una legge dell'Imperatore Adriano, infliggevasi a quelli, che falsamente attribuivano a' loro concittadini il delitto di Cristianesimo. Potea qualche volta la violenza di una superstiziosa o personale animosità prevalere alle più naturali apprensioni della disgrazia e del pericolo; ma non si può senza dubbio supporre, che accuse di un'apparenza così infelice fossero leggermente o con frequenza intraprese da' sudditi pagani del Romano Impero60.
Dall'espediente, che si usava per eludere la prudenza delle leggi, rilevasi una sufficiente prova di quanto efficacemente sconcertarono esse i malvagi disegni della privata malizia, o dello zelo superstizioso. In una grande e tumultuosa assemblea i freni del timore e della vergogna, così potenti nelle menti degl'individui, perdono la massima parte della loro influenza. Il devoto Cristiano, a misura che desiderava d'ottenere o d'evitar la gloria del martirio, aspettava, o con impazienza o con terrore, le occasioni de giuochi pubblici e delle solennità. In queste gli abitanti delle grandi città dell'Impero adunavansi nel Circo o nel Teatro, dove ogni circostanza, del luogo non meno che della ceremonia, contribuiva ad accenderne la devozione, e ad estinguerne l'umanità. Mentre i numerosi spettatori, coronati di ghirlande, profumati d'incenso, purificati col sangue delle vittime, e circondati d'altari e di statue delle lor tutelari Divinità, si davano al godimento de' piaceri, che risguardavan come un'essenzial parte del culto lor religioso; vedevano che i soli Cristiani abborrivano gli Dei delle Genti, e con l'assenza e tristezza loro in tali solenni feste pareva che insultassero, o deplorassero la pubblica felicità. Se l'Impero era afflitto da qualche nuova disgrazia, da peste, da fame, o dal cattivo esito di una guerra; se aveva il Tevere dato fuori o il Nilo non era uscito dalle sue sponde; se la terra s'era scossa, o se interrotto s'era il solito corso delle stagioni, i superstiziosi Pagani non dubitavano, che i delitti e l'empietà de' Cristiani, che risparmiavansi dall'eccessiva lenità del Governo, finalmente avessero provocato lo sdegno della divina giustizia. Non era da sperare, che in mezzo ad una licenziosa ed inasprita plebaglia si osservasse la forma di procedere legalmente; nè l'anfiteatro, asperso del sangue delle bestie feroci e de' gladiatori, era il luogo dove potesse farsi udire la voce della compassione. Le grida impazienti della moltitudine denunziavano i Cristiani come i nemici degli uomini e degli Dei, li condannavano a' più atroci tormenti, ed avanzandosi a nominare alcuni dei più ragguardevoli fra nuovi settari, con irresistibil veemenza chiedevano, che nell'istante medesimo fossero presi ed esposti a' leoni61. I Governatori delle Province, ed i Magistrati, che presedevano a' pubblici spettacoli, eran per ordinario disposti a soddisfare le inclinazioni, ed a quietare la rabbia del popolo col sacrifizio di poche vittime, soggette all'odio di esso. Ma la saviezza degl'Imperatori proteggeva la Chiesa dal pericolo di simili tumultuarj clamori ed illegittime accuse, ch'essi a ragione disapprovavano come ripugnanti sì alla fermezza che all'equità della loro amministrazione. Gli editti di Adriano e di Antonino Pio dichiararono espressamente, che la voce del popolo non dovesse mai risguardarsi come una prova legale per convincere, o per punire que' disgraziati, che abbracciato avevano l'entusiasmo del Cristianesimo62.
III. Non era la pena una conseguenza inevitabile dell'essere alcuno stato convinto; e que' Cristiani dei quali si era con la maggior chiarezza provato il delitto, mediante il deposto di testimoni, o anche per la volontaria lor confessione, ritenevano sempre in lor mano la facoltà di scegliere o la vita o la morte. Non tanto la trasgressione passata, quanto la resistenza presente eccitava lo sdegno del Magistrato. Concedevasi un facil perdono al pentimento, e se acconsentivano di gettar pochi grani d'incenso sopra l'altare, venivan licenziati dal Tribunale salvi e con applauso. Un Giudice umano stimava suo dovere di procurare il ravvedimento piuttosto che la pena di que' delusi entusiasti. Prendendo diverso stile secondo l'età, il sesso, o la situazione de' prigionieri, spesso adattavasi a mettere loro davanti agli occhi ogni circostanza, che potesse rendere o più piacevol la vita, o più terribil la morte, ed a sollecitarli, anzi a pregarli a voler mostrare qualche compassione verso se stessi, le lor famiglie ed i loro amici63. Se le minacce e le persuasive non avevano effetto, si ricorreva spesse volte alla forza; supplivano i flagelli e le torture alla mancanza degli argomenti, e impiegavasi ogni sorta di crudeltà per domare quell'inflessibile, e come, sembrava a' Pagani, colpevole ostinazione. Gli antichi Apologisti hanno censurato con ugual verità che rigore l'irregolar condotta de' lor persecutori, i quali, contro qualunque principio di giudicial processura, servivansi de' tormenti per ottenere non già la confessione, ma la negazione del delitto, che formava l'oggetto di lor ricerche64. I Monaci de' secoli posteriori, che nelle tranquille lor solitudini si occuparono a variare le morti ed i patimenti de' primi Martiri, hanno spesso inventato tormenti di una specie molto più raffinata ed ingegnosa. È piaciuto lor di supporre in particolare, che lo zelo de' Magistrati Romani, sdegnando di avere qualunque riguardo per la virtù morale, o per la pubblica decenza, procurasse di sedurre quelli, che non eran capaci di vincere, e che per lor ordine si esercitasse la più brutale violenza contro coloro, de' quali trovavano impossibile la seduzione. Si racconta, che talvolta alcune pie donne le quali erano preparate a disprezzar la morte, furono condannate a sostenere un esperimento più duro, e forzate a deliberare, se dovessero valutar più la religione che la lor castità. I giovani, a' lascivi abbracciamenti de' quali venivano abbandonate, erano solennemente esortati dal Giudice a fare i loro più vigorosi sforzi per sostener l'onore di Venere contro quell'empie vergini, che ricusavano di bruciar l'incenso sopra i suoi altari. La lor violenza però comunemente restava delusa, e l'opportuna interposizione di qualche miracolo preservava le caste spose di Cristo anche dal disonore di una involontaria caduta. Non si dovrebbe in vero tralasciar di osservare, che le più antiche ed autentiche memorie della Chiesa sono rade volte macchiate con queste indecenti e stravaganti finzioni65.
La totale non curanza della probabilità e del vero nella rappresentazione di questi primitivi martirj fu cagionata da un inganno molto naturale. Gli scrittori Ecclesiastici del quarto e del quinto secolo attribuirono a' Magistrati di Roma l'istessa dose d'implacabile inflessibilissimo zelo, che riempiva i loro petti contro gli Eretici e gl'Idolatri de' loro tempi. Non è improbabile che alcune di quelle persone, ch'erano elevate alle dignità dell'Impero, potessero essersi imbevute dei pregiudizi della plebe, e che la disposizione, che altre avevano alla crudeltà, potesse venire accidentalmente stimolata da motivi di avarizia, o di sdegno personale66. Ma egli è certo, e possiamo appellarcene alle confessioni di riconoscenza de' primi Cristiani, che que' Magistrati, i quali esercitavano l'autorità dell'Imperatore o del Senato nelle Province, ed alle cui mani era unicamente affidata la potestà della vita e della morte, per lo più erano uomini culti e d'ingenua educazione, che rispettavano le regole della giustizia, ed avevan famigliari i precetti della Filosofia. Spesso evitavano l'odioso uffizio di persecutori, trascuravano le accuse con disprezzo, e suggerivano agli accusati Cristiani qualche legal sotterfugio, per mezzo di cui potessero eludere la severità delle leggi67. Ogni volta ch'erano investiti di un potere non limitato68, se ne servivano molto meno per l'oppressione, che pel sollievo e pel favore dell'afflitta Chiesa. Essi erano ben lontani dal condannar tutti i Cristiani, che venivano accusati a' lor tribunali, e dal punir colla morte tutti coloro, ch'eran convinti di un ostinato attaccamento alla nuova superstizione. Contendandosi per ordinario delle pene più miti della carcere, dell'esilio, della condanna a' lavori delle miniere69, lasciavano alle infelici vittime di lor giustizia qualche ragione di sperare, che un prospero evento, l'avvenimento al trono, il matrimonio, o il trionfo d'un Imperatore, potesse in breve, mediante un generai perdono, restituirli al primiero lor grado. Sembra, che i Martiri, condannati all'immediata esecuzione da' Magistrati Romani, fossero scelti dagli estremi più opposti fra loro. Essi erano o Vescovi o Preti, vale a dire le persone più distinte fra' Cristiani per causa del lor grado e dell'influenza che avevano sopra degli altri, onde il loro esempio potesse incuter terrore in tutta la setta70; oppure gl'infimi e più abietti fra loro, particolarmente quelli di servil condizione, le vite de' quali stimavansi di piccol valore, ed i lor patimenti si risguardavano dagli antichi con troppa indifferenza e disprezzo71. Il dotto Origene, che per la sua esperienza ed erudizione era benissimo informato dell'istoria de' Cristiani, dichiara ne' più espressi termini, che il numero de' Martiri non era molto considerabile72. La sola testimonianza di lui dovrebbe servire ad annientare quel formidabile esercito di Martiri, le reliquie de' quali, tratte per la maggior parte dalle catacombe di Roma, hanno riempiuto tante Chiese73, e che mediante le loro maravigliose azioni sono stati il soggetto di tanti volumi di Sacri romanzi74. Ma può spiegarsi e confermarsi l'asserzione generale d'Origene con le particolari testimonianze del suo amico Dionisio, il quale nell'immensa Città d'Alessandria, ed al tempo della rigorosa persecuzione di Decio non conta che dieci uomini e sette donne, che soffrirono per la professione del nome Cristiano75.
Nel corso della medesima persecuzione governava la Chiesa non sol di Cartagine, ma eziandio dell'Affrica lo zelante, l'eloquente, ed ambizioso Cipriano. Aveva esso tutte le qualità, che impegnar potevano la riverenza del Fedele, o provocare i sospetti, e l'ira de' magistrati Pagani. Pareva, che il carattere parimente e la situazione di lui additassero quel santo Prelato come il più distinto oggetto del pericolo e dell'invidia76. L'esperienza però della vita di Cipriano è sufficiente a provare, che la nostra immaginazione ha esagerato le pericolose circostanze di un Vescovo Cristiano; e che i rischi, a' quali andava esposto, erano meno imminenti di quelli, che la temporale ambizione è sempre disposta a incontrare nella carriera degli onori. Furono uccisi quattro Imperatori Romani con le loro famiglie, i favoriti, gli aderenti nello spazio di dieci anni; durante il qual tempo guidò il Vescovo di Cartagine con la sua autorità ed eloquenza le deliberazioni della Chiesa Affricana. Solo nel terz'anno del suo Governo ebb'egli motivo per pochi mesi di temere i rigorosi editti di Decio, la vigilanza de' Magistrati ed i clamori del Popolo, che ad alta voce dimandava, che Cipriano, condottier de' Cristiani, fosse gettato a' leoni. La prudenza suggerì come necessaria per un tempo la ritirata, ed egli obbedì alla voce della prudenza. Si ritirò in un'oscura solitudine, dalla quale potè mantenere una costante corrispondenza col Clero e col Popolo di Cartagine; e nascondendosi finchè la tempesta fosse passata, si conservò in vita, senza interrompere la sua potenza o la sua riputazione. L'estrema di lui cautela però non isfuggì la censura de' più rigidi fra' Cristiani, che si lagnavano, nè i rimproveri de' suoi personali nemici, che insultavano una condotta, da essi risguardata come un pusillanime e colpevole abbandono del più sacro dovere77. La convenienza di riservarsi per li futuri bisogni della Chiesa, l'esempio di molti santi Vescovi78 e le divine ammonizioni, ch'egli stesso dichiarava di ricever frequentemente nelle visioni e nell'estasi, erano le ragioni, ch'esso adduceva per giustificarsi79. Ma si vede la sua migliore apologia nella volontaria fermezza, con cui, circa otto anni dopo, soffrì la morte per causa della religione. È stata fatta l'istoria autentica del suo martirio con insolito candore ed imparzialità; onde un breve ragguaglio delle circostanze più importanti, che l'accompagnarono, ci darà la più chiara idea dello spirito e delle formalità delle persecuzioni Romane80.
Nel tempo che Valeriano era Console per la terza volta, e Gallieno per la quarta, Paterno, Proconsole d'Affrica, citò Cipriano a comparire avanti al suo Consiglio privato. Ivi l'informò dell'ordine Imperiale che allora avea ricevuto81, affinchè quelli, che avevano abbandonato la religione Romana, dovessero immediatamente tornare a praticar le ceremonie de' loro antenati. Cipriano replicò senza esitare, ch'egli era un Cristiano ed un Vescovo consacrato al culto dell'unico e vero Dio, al quale offeriva ogni giorno le proprie suppliche per la salvezza e prosperità de' due Imperatori, suoi legittimi Sovrani. Con modesta fiducia invocò il privilegio di cittadino, ricusando di dare alcuna risposta a varie odiose ed, a vero dire, illegali questioni, che il Proconsole avea proposte. Fu pronunziata una sentenza d'esilio per pena della disubbidienza di Cipriano, e fu esso condotto senza dilazione a Curabi, città libera e marittima, di Zeugitania, in una piacevol situazione, in un fertile territorio, ed alla distanza di circa quaranta miglia da Cartagine82. L'esule Vescovo godeva de' comodi della vita e della coscienza della propria virtù. Era sparsa la sua riputazione per l'Affrica e per l'Italia; fu pubblicato, per edificazione del mondo Cristiano, un racconto della sua condotta83; e la solitudine del medesimo era frequentemente interrotta dalle lettere, dalle visite, e dalle congratulazioni de' Fedeli. All'arrivo di un nuovo Proconsole nella Provincia, parve che la fortuna di Cipriano prendesse per qualche tempo un aspetto più favorevole. Fu esso richiamato dal bando, e quantunque non gli fosse per anche permesso di ritornare in Cartagine, gli furono assegnati per luogo di sua dimora i propri di lui giardini, situati ne' contorni della capitale84.
Finalmente, appunto un anno dopo che Cipriano fu chiamato per la prima volta in giudizio, Galerio Massimo, Proconsole d'Affrica, ricevè l'imperial dispaccio pur l'esecuzione de' Dottori Cristiani85. Al Vescovo di Cartagine parve grave di esser egli destinato per una delle prime vittime, e la fragilità della natura lo tentò a sottrarsi per mezzo di una segreta fuga al pericolo ed all'orror del martirio; ma presto ricuperando quella fortezza ch'esigeva il proprio carattere, tornò a' suoi giardini, ed aspettò pazientemente i ministri della morte. Due uffiziali di qualità, a' quali affidata venne tal commissione, posero Cipriano in un cocchio fra loro, e poichè il Proconsole allora non era in comodo, lo condussero non già in una carcere, ma in una casa privata in Cartagine, appartenente ad uno di essi. Fu apparecchiata un'elegante cena pel Vescovo, e fu permesso a' suoi amici Cristiani di godere per l'ultima volta la sua compagnia, mentr'eran piene le contrade di una moltitudine di Fedeli, ansiosi ed agitati per l'imminente morte del loro padre spirituale86. Nella mattina comparve avanti il tribunal del Proconsole, il quale dopo essersi informato del nome e della situazione di Cipriano, gli comandò di sacrificare agli Dei, e lo eccitò a riflettere alle conseguenze della sua disubbidienza. Il rifiuto di Cipriano fu stabile e decisivo; ed il Magistrato, dopo ch'ebbe udita l'opinione del suo consiglio, con qualche ripugnanza pronunziò la sentenza di morte. Questa fu conceputa ne' termini seguenti. «Che immediatamente sia decapitato Tascio Cipriano, come nemico degli Dei di Roma, come capo e condottiero di una rea società, la quale da esso è stata sedotta ad empiamente resistere alle leggi de' santissimi Imperatori Valeriano e Gallieno87.» La forma della sua esecuzione fu la più mite e la meno penosa, che dar si potesse ad una persona convinta di un delitto capitale; nè fu adoperato l'uso della tortura, per ottenere dal Vescovo di Cartagine o l'abbiurazione delle sue massime, o la scoperta de' complici.