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Ricordi di un garibaldino dal 1847-48 al 1900. vol. II

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Il giorno 17 ebbe luogo un primo fatto d'armi, ostinato e sanguinoso.

Medici si era fortificato presso Carriola al fiume Nocito, ed aveva occupata la strada di Meri e Milazzo, erigendovi barricate. Bosco pensò di sloggiarlo, e con forze preponderanti pervenne a passare oltre Carriola il Nocito; ma ivi s'impegnò un vivissimo combattimento con la destra di Medici, gagliardemente tenuta dal reggimento Malenchini; tanta resistenza da questa parte poneva i regi in pericolo di essere tagliati fuori della loro linea, per cui Bosco spinse altri battaglioni verso le barricate; il combattimento fu accanito, ma Medici per venirne a capo, lanciava contro le truppe borboniche un battaglione della riserva e i nostri alla punta della baionetta ricacciavano i regi dentro Milazzo. Le truppe comandate dal Malenchini combatterono sotto gli occhi di Medici assai valorosamente.

Il generale Garibaldi avvisato a Palermo della resistenza che incontrava Medici s'imbarcava con un buon rinforzo. Sbarcato a Patti corse innanzi solo, al quartiere generale di Medici. Vi arrivò il 19 e vi trovò anche il Cosenz.

Calcolando il generale che i rinforzi sbarcati a Patti sarebbero arrivati il 20 sul luogo del combattimento, decise di dare battaglia e d'investire Milazzo.

La mattina del 20 alle 5 il generale Medici divideva le sue truppe in due colonne, ciascuna di quattro battaglioni, una sotto il comando di Simonetta, l'altra sotto quello di Malenchini.

Deciso il combattimento Garibaldi ordina che il Malenchini per la strada di Santa Marina si porti ad assalire senz'altro la sinistra del nemico; dà incarico al Medici di avanzare col reggimento Simonetta e il battaglione Gaeta per la strada di San Pietro spingendosi col centro e colla destra contro la città; affida a Nicola Fabrizi d'occupare con una legione di siciliani la strada di Spadafora per antivenire ogni sorpresa di un'eventuale sortita del presidio di Messina; delibera infine che la colonna Cosenz, già partita fin dall'alba da Patti e rinforzata dal battaglione Dunn e da quello del Guerzoni, lasciati a guardia di Meri, formino la riserva.

Alle 5 del mattino tutti erano in moto; il Malenchini alle 7 aveva già aperto il fuoco presso San Papino; anche il Medici attaccava il nemico al di là di San Pietro e il combattimento si accese, accanito su tutta la linea. I garibaldini si spingono verso Milazzo, ma la loro sinistra appoggiata al mare, trovò tale resistenza nei regi nella strada di San Pepino e tale fuoco d'artiglieria dal forte e dalla batteria portata dietro i canneti, che furono obbligati a ripiegare.

Ad accrescere lo scompiglio nelle giovani schiere dei volontari, concorse la cavalleria nemica che irruppe furiosamente sui nostri, sbaragliandoli. Comandava questa colonna il colonnello Malenchini che, potentemente coadiuvato dai suoi bravi ufficiali, faceva sforzi eroici per riordinare i suoi e ricondurli alla pugna; chi si distinse per ardire insuperabile fu il Tommasi, che venne promosso tenente sul campo di battaglia.

Mentre questo avveniva sull'ala sinistra, Medici spingeva tre dei suoi battaglioni ed uno di Carabinieri genovesi verso il fiume Nocito; investiva i molini dove i regi eransi fortificati e tentava d'impadronirsi della lingua di terra che congiunge Milazzo con l'interno, e così girare alle spalle del corpo napoletano e tagliar fuori di Milazzo il Bosco; ma anche questo tentativo incontrò un'energica resistenza, perchè il Bosco da quel lato aveva spinto il maggior nerbo delle sue forze; si combatteva uno contro tre, senza contare la mitraglia che, da dietro grandi siepi di fichi d'India, faceva strage dei nostri.

Medici riconosce la gravità della posizione e, da quell'eroe che era, decide d'avventarsi contro il cannone che faceva strage dei suoi e d'impossessarsene. "Meglio perire nell'arrischiata impresa, che vedere così sacrificati i miei soldati". Con questo pensiero raduna quanti più può dei suoi e si lancia in mezzo al fuoco nemico, ma nei primi passi gli cade morto il cavallo e al fianco suo è colpito da palla fredda il Cosenz, tanto da rimanerne tramortito; riavutosi tosto e circondato dai suoi valorosi compagni, riprende impavido il combattimento.

Garibaldi, accortosi del pericolo che correvano i suoi cari compagni, riunisce intorno a sè Missori, Statella e quanti trova sotto mano e si lancia al soccorso; il cavallo di Garibaldi è ferito e non sente più il freno; il tacco di un suo stivale è portato via da una scheggia; è obbligato a smontare dal cavallo; accanto a lui in quel momento cadeva mortalmente ferito il maggiore Breda; a Missori è pure ucciso il cavallo; anche Garibaldi vede che per spuntarla bisognava ad ogni costo impadronirsi del cannone che faceva strage, e dà gli ordini necessari; si lancia alla testa dei suoi e il cannone è preso e trascinato nelle proprie linee.

Allora la fanteria napolitana, che in quella giornata combattè valorosamente, apre i suoi ranghi e dà il passo ad una furiosa carica di cavalleria che s'avventa sui nostri come un turbine per riprendere il pezzo; le squadriglie siciliane giunte allora da Patti entrano in combattimento e con una formidabile scarica fermano l'impeto dei cavalieri; l'ufficiale che comandava la cavalleria è esso pure obbligato ad arrestarsi da Garibaldi che aveva preso la briglia del cavallo; l'ufficiale mena un fendente, ma Garibaldi para il colpo e con una pronta risposta gli taglia la gola; i napoletani assalgono Garibaldi; si combatte corpo a corpo; Missori scarica quanti colpi ha nel suo revolver ed uccide quanti tentano appressarsi al generale; Statella lo difende a colpi di sciabola, dando così tempo ai garibaldini di accorrere al soccorso.

Ma gli ostacoli sono insuperabili; gl'immensi canneti e le boscaglie di fichi d'India sparsi su quella riva impedivano ai garibaldini di far uso delle baionette, terribile arma loro prediletta, e favorivano i tiri dell'artiglieria borbonica. Per fortuna in quel momento apparve nella rada un vapore con bandiera italiana. Era la corvetta napoletana "La Veloce" che il comandante Anguissola, dando primo l'esempio della rivolta, aveva consegnata a Garibaldi, il quale la battezzava col nome di "Tuckery" in memoria del prode maggiore ungherese morto alla presa di Palermo. Il generale, senza perdita di tempo, si fa portare a bordo, e salito sulla coffa dell'albero di trinchetto domina tutto il teatro della battaglia; ordina al comandante d'accostarsi a tiro di mitraglia ed al momento opportuno fa fulminare di fianco le truppe borboniche, e ne fa strage tale che il nemico è sgominato in brev'ora.

Questo felice diversivo dà tempo al Medici ed al Cosenz di riordinare i loro battaglioni e prepararsi ad un decisivo assalto.

Garibaldi scende a terra dal Tukery con un manipolo di marinari armati, si mette alla testa dei suoi e si riprende l'assalto; tutte le riserve sono impegnate: il maggiore Guerzoni arriva esso pure coi suoi a passo di corsa; un'ultimo disperato assalto è ordinato, i canneti a sinistra, il ponte di Curiolo di fronte, le case di destra, terribili strette, sono tutte superate con indicibile valore; i cacciatori del Bosco rispondono con un fuoco infernale e recano ai nostri danni non lievi; il capitano Leardi, dopo aver veduto cadere attorno a sè non pochi dei suoi valorosi è ferito a morte; il Costa, lo Statella, il Martini, il Cosenz feriti; ma il nemico è in fuga e dopo del nemico i garibaldini entrano in Milazzo e i borbonici si rinchiudono nel forte.

La battaglia di Milazzo fu la più sanguinosa tra quelle combattute delle armi garibaldine nel 1860.

Su quattromila combattenti garibaldini, più di settecento restarono sul campo fra morti e feriti.

La giornata del 21 passò in entrambi i campi tranquilla, le nostre truppe riposarono, e quelle borboniche il 22 s'imbarcarono su tre navigli francesi per essere trasportate a Napoli.

Il 23 arrivavano nelle acque di Milazzo quattro navi da guerra napolitane; ma visto che i garibaldini erano padroni della piazza si limitarono ad imbarcare il presidio del Castello; sicchè il Castello, con cannoni, munizioni ed ogni attrezzo di guerra, rimaneva in potere di Garibaldi, che vi faceva inalberare la bandiera tricolore.

Dopo la presa di Milazzo anche le truppe che occupavano la cittadella di Messina si arresero. – Tutta la Sicilia era liberata!

Occorreva pensare al passaggio dello stretto ed alla continuazione della marcia gloriosa per le Calabrie alla capitale del Reame di Napoli, e primo pensiero del Duce fu quello di nominare comandante militare e civile di Messina l'illustre patriota Nicola Fabrizi, con suo Capo di Stato Maggiore il valoroso Abele Damiani.

Questo venerando patriota aveva organizzato a Malta un corpo d'italiani volontari del quale faceva parte il Pittaluga, che dopo lo scontro infelice di Grotte, sostenuto dal Zambianchi contro forze superiori papaline, aveva preso passaggio in un vapore delle Messaggeries per raggiungere Garibaldi in Sicilia; col Pittaluga erano il Civinini, il Pedani livornese, ed altri.

Sbarcato il Fabrizi in Sicilia ebbe ordine da Garibaldi di recarsi a Barcellona per organizzare e prendere il comando dei battaglioni dell'Etna composti di patriotti siciliani. Il governo civile e militare di Messina era quindi affidato a buone mani.

Il passaggio sul continente non era cosa delle più facili; bisognava vincere le difficoltà che venivano dal Ministero in seguito alle pressioni dell'imperatore dei francesi; bisognava inoltre deludere la vigilanza della flotta nemica che giorno e notte batteva il mare e sorvegliava lo stretto senza contare che il Borbone, nonostante le defezioni, poteva sempre mettere a fronte di Garibaldi un Esercito organizzato di 100 mila uomini. Era necessario quindi fare uso di quegli audaci colpi di mano, nei quali Garibaldi era maestro.

Infatti la sera dell'8 agosto egli ordinava al Mussolino, calabrese, di tentare con un limitato numero di volontari scelti fra i più audaci, come Missori, Alberto Mario, Vincenzo Cattabeni ed altri valorosi, la sorpresa del forte Cavallo e la insurrezione della Calabria. La sera dopo ordinava a Salvatore Castiglia di sbarcare nell'Alta Fiumana con arditi garibaldini.

 

Persuaso Garibaldi, dopo quindici giorni di vani tentativi, della difficoltà del passaggio dello stretto di Messina, causa l'esiguità delle sue forze, ed avute notizie dal Bertani che in Sardegna stavasi organizzando una legione di circa 8 mila bene armati sotto la direzione del colonnello Pianciani, col proposito d'invadere lo Stato Pontificio, convinto che su Roma si poteva marciare con più sicurezza per la via di Napoli, deliberava di portarsi egli stesso al Golfo degli Aranci per assicurarsi il concorso degli ottomila uomini coi quali avrebbe raddoppiato il numero delle sue forze. Non tardò a mettersi in viaggio ed appena arrivato si presentò d'improvviso a quella gioventù che anelava al combattimento; vinse col fascino delle sue parole gli scrupoli di qualcuno e, preso il comando di quelle truppe, se le trasse seco in Sicilia.

Date le disposizioni opportune per il governo dell'Isola – nominò Depretis Prodittatore e partì per Messina.

Prima di lasciare Palermo il Generale emanava l'ordine del giorno seguente:

Alle Squadre Cittadine!

"A Voi robusti e coraggiosi figli dei campi, io dico una parola di gratitudine in nome della patria italiana, a Voi che tanto contribuiste alla liberazione di questa terra, a Voi che conservaste il fuoco sacro della libertà sulle vette dei vostri monti, affrontando, in pochi e male armati, le numerose ed agguerrite falangi dei dominatori.

"Voi potete tornare oggi alle vostre capanne colla fronte alta, colla coscienza d'aver adempiuto ad opera grande! Come sarà affettuoso l'amplesso delle vostre donne inorgoglite di Voi, accogliendovi festose nei vostri focolari! e Voi racconterete superbi ai vostri figli i perigli trascorsi nelle battaglie per la santa causa dell'Italia.

I vostri campi, non più calpestati dal mercenario, vi sembreranno più belli, più ridenti. Io vi seguirò col cuore nel tripudio delle vostre messi, delle vostre vendemmie, e nel giorno in cui la fortuna mi porgerà l'occasione di stringere ancora le vostre destre incallite, sia per narrare delle nostre vittorie o per debellare nuovi nemici della patria, Voi avrete stretto la mano di un fratello.

Palermo, 3 giugno.

G. Garibaldi.

Il generale Sirtori aveva già assicurati due vapori, il "Torino" ed il "Franklin", che faceva trovar pronti nel porto di Taormina. Senza perdita di tempo, appena arrivato a Messina, Garibaldi ordina a Bixio, che tanto aveva sospirato quel comando, di mandare tutta la sua gente a Taormina (circa 4000 uomini) e d'imbarcarla sui due piroscafi. Bixio, che tutto aveva approntato per il passaggio dello Stretto, imbarcate le sue truppe, monta sul "Torino"; Garibaldi, arrivato in carozza da Messina, sale sul "Franklin" e nella notte del 19 di agosto, levate le ancore partono per la Calabria, ed allo spuntar dell'alba del 20 i due vapori si accostano a Melito tra Capo dell'Armi e Spartivento. Disgraziatamente nel prendere terra il "Torino" rimaneva arenato, ma non per questo venne ritardato lo sbarco a terra delle truppe garibaldine che fu effettuato senza contrasto; solo più tardi le navi da guerra napolitane in crociera se ne accorsero e presero a bombardare il "Torino" vuoto.

Bisognava impadronirsi con un colpo di mano di Reggio; e senza esitare il generale Garibaldi ordina di muovere all'assalto, e la sera del 20 i garibaldini ripresero la marcia. Ad una certa distanza dalla città il Generale faceva obbliquare a destra e per sentieri remoti, evitando gli avamposti nemici appostati sullo stradale, e guidato dal colonnello Plutino si avvicinava alla piazza. Fatti riposare i volontari e disposto che la divisione Bixio dovesse assalire dalla parte di destra e quella di Eberhardt da sinistra, dopo forte resistenza i nostri s'impadroniscono della città ed obbligano i Regi a rinchiudersi nel Castello.

A Garibaldi importava d'impossessarsi del Castello, perchè aveva avuto notizia che una forte colonna nemica, comandata dal generale Briganti, marciava su Reggio. Fortunatamente la comparsa di Missori, coi suoi reduci dall'impresa del Forte Cavallo, fece credere ai Napoletani che erano rinchiusi, di essere accerchiati, per cui alle prime fucilate piovute dall'alto domandarono d'arrendersi.

Questo è l'ordine del giorno che il generale Garibaldi aveva mandato alle sue truppe prima che si accingessero al passaggio del Faro.

Messina, 9 agosto 1860.

"Il maggior Casalta d'Ornano, della divisione Cosenz si dirigerà da questo porto di Torre di Faro per sbarcare sulla costa di Calabria tra Ragnore e Scilla.

"Egli comanda il suo battaglione e più un distaccamento del battaglione Fazioli. La sua missione è di propagare l'insurrezione contro il Borbone di Napoli ed il suo programma è quello dell'Italia e Vittorio Emanuele.

"Chiederà del colonnello Mussolino, lo cercherà e procurerà di coadiuvarlo in qualunque emergenza, siccome lo stesso Colonnello coadiuverà lui.

"Si manterrà possibilmente vicino al quartiere Generale, che terrà informato di qualunque cosa utile alla causa nazionale ed al servizio.

"Procurerà di tagliare le comunicazioni del nemico sullo stradale di Reggio e Napoli, impossessandosi dei suoi convogli, dispacci ecc.

"Occuperà il nemico instancabilmente mediante distaccamenti, in varie direzioni, per ingannarlo sulla sua vera situazione.

"Ubbidirà ai Colonnelli Mussolino e Missori soltanto nel caso che questi colonnelli dovendo operare sul nemico lo richiedessero del suo concorso; egli parteciperà queste istesse istruzioni ai Colonnelli suddetti.

"Sopratutto egli farà ogni sforzo per cattivarsi l'amicizia delle popolazioni ed impedire qualunque prepotenza delle sue truppe contro le stesse.

"Infine l'Esercito Meridionale confida che l'onore delle armi italiane riceverà nuovo lustro dal coraggio, capacità e patriottismo del maggiore Casalta.

G. Garibaldi.

I risultati della presa di Reggio furono di grandissima importanza; Garibaldi si rendeva padrone di buon materiale da guerra e acquistava per base d'operazione sul continente una piazza di grande rilievo.

La vittoria di Reggio era ben presto coronata da altra pure importantissima e decisiva. Nella notte dal 21 al 22 il generale Cosenz, imbarcata sopra la flottiglia del Faro la sua divisione, i Carabinieri Genovesi, e la Legione estera, riusciva ad approdare su la spiaggia calabrese nelle vicinanze di Scilla, mettendosi così alle spalle della forte brigala Briganti, accampata presso San Giovanni.

Avuta notizia del fortunato sbarco di Cosenz a Scilla, il generale Garibaldi si mosse senza indugio con tutti i suoi da Reggio, ove lasciava il colonnello Plutino con una colonna di patriotti calabresi, per prendere fra due fuochi i Borbonici, comandati dal Briganti e dal Melendez. Le mosse dei garibaldini furono così ben combinate che riuscirono a circuire le forze regie, tantochè Garibaldi, serrandole d'appresso e sicuro del fatto suo, intimava la resa. Allora si videro novemila uomini d'ogni arma, ricchi d'artiglieria e d'ogni attrezzo di guerra, abbassare le armi, dopo debole resistenza, innanzi a seimila garibaldini quasi sprovvisti di tutto. Però nel breve combattimento sostenuto dal Cosenz nel prendere terra nelle vicinanze di Scilla, dopo di essere sfuggito miracolosamente alla flotta borbonica in crociera, si ebbe a deplorare una preziosissima perdita, quella di Paul De Flotte, deputato all'Assemblea repubblicana francese, il quale erasi unito ai Mille col Locroix, col Dumas e con altri fratelli di Francia, venuti a combattere per la libertà ed unità d'Italia; perdita dolorosissima per tutti, ma particolarmente per Garibaldi, che così ne scrisse al Bertani, in forma d'ordine del giorno del 24 agosto:

"Abbiamo perduto De Flotte! gli epiteti di bravo, di onesto, di vero democratico sono impotenti per esprimere tutto l'eroismo di quest'anima incomparabile!

"De Flotte, nobile figlio della Francia, era uno di quegli esseri privilegiati che un sol paese non ha diritto di appropriarsi; no, De Flotte appartenne all'umanità intera; giacchè per lui la patria era ovunque un popolo sofferente e curvo si rialzava per la libertà.

"De Flotte morto per l'Italia, ha combattuto per essa come avrebbe combattuto per la Francia.

"Quest'uomo illustre è un legame prezioso per la fratellanza dei popoli che attende l'avvenire dell'Umanità. Morto nei ranghi dei Cacciatori delle Alpi, egli era, come molti dei suoi bravi concittadini, il rappresentante della generosa Nazione, che si può arrestare un momento, ma che è destinata a marciare in avanguardia dell'emancipazione dei popoli e della civiltà del mondo.

24 agosto.

G. Garibaldi.

Da quel giorno lo sfacelo dell'esercito borbonico delle Calabrie seguì con rapidità crescente. Tutte le provincie si sollevavano precedendo le forze della rivoluzione, guidate da Garibaldi. La città di Potenza cacciava le truppe che la custodivano, e la Basilicata rivendicava la sua libertà. Cosenza costringeva le forze borboniche a capitolare ed a ritirarsi a Salerno, con impegno di non più combattere contro Garibaldi. A Foggia, a Bari le truppe fraternizzarono col popolo. Il Generale Viale, che stava a guardia delle Termopoli di Monteleone con 12000 uomini, minacciato dall'insurrezione del popolo e dalla sedizione delle truppe, batteva in ritirata, abbandonando ai garibaldini una delle più forti posizioni, chiave strategica delle Calabrie. Delle truppe in ritirata prese il comando il generale Chio che si arrestava a Saveria-Manelli, tra Tiriolo e Cosenza, per attendere di piè fermo il sopraggiungere dei Garibaldini. Prima però che egli arrivasse a Saveria, le alture che la dominano, erano occupate dalle bande calabresi di Stocco, parte delle quali erano dirette e comandate dal valoroso patriota Antonio Taglieri, che nominato tenente passò poi nel 2o reggimento della divisione Cosenz; cosicchè il Chio si trovò prima di combattere, accerchiato. Garibaldi ordinò tosto a tutte le truppe che lo seguivano di convergere a marcia forzata su Tiriolo, e, appena potè avere sottomano l'avanguardia della divisione Cosenz, la lanciò sulla strada di Saveria-Manelli, fece calare dalle alture le bande dello Stocco, ed intimò al generale Chio la resa.

Questi tentò di guadagnare tempo, ma dopo un'ora altri 12000 uomini andavano dispersi e disciolti come quelli del generale Briganti, lasciando libere nelle mani del Dittatore tutte le Calabrie. Garibaldi intanto proseguiva la marcia trionfale per Napoli.

Tra Salerno ed Avellino circa ventimila uomini, la più parte mercenarii stranieri, stavano aspettando Garibaldi, risoluti a combattere. Ma corsa la notizia che la rivoluzione si era propagata ad Avellino e nel Principato Ulteriore, saputo che il generale Calderelli, che aveva capitolato a Cosenza, era passato con Garibaldi, anche le truppe di quel campo cominciarono a dar segni di ammutinamento; il che tolse ai comandanti la speranza di tentare un attacco con probabilità di successo.

L'arrivo di queste notizie a Napoli indusse il Re a ritirarsi a Gaeta; il che fece il 6 del mese di Settembre, lasciando Napoli in tutela della Guardia Nazionale. All'udire la lieta notizia Garibaldi presa a Vietri la ferrovia, arrivò a mezzogiorno alla stazione di Napoli ove Liborio Romano lo ricevette, felicitandolo a nome della cittadinanza. Al tocco, in carrozza, accompagnato da Cosenz, da Bertani, da Missori, da Nullo e da pochi altri ufficiali entrava in Napoli, passando sotto i forti ancora occupati dalle truppe borboniche, in mezzo a soldati nemici sparsi per la città e fra l'entusiasmo di un popolo delirante, scendeva alla Foresteria, palazzo del Governo, e ne prendeva possesso.

Primo suo atto fu quello di emanare il seguente Decreto:

Napoli, 7 settembre 1860.
Il Dittatore Decreta:

"Tutti i bastimenti da guerra e mercantili appartenenti allo Stato delle due Sicilie, Arsenali e materiali di Marina, sono aggregati alla Squadra del Re Vittorio Emanuele, comandata dall'Amiraglio Persano".

G. Garibaldi.

Istituiva tosto il governo dittatoriale, nominando Crispi ministro degli Esteri, Bertani ministro dell'Interno, Cosenz ministro della Guerra, ed al general Turr dava il comando di tutte le truppe stanziate a Caserta ed al Volturno.

 

Il 18 settembre il generale Turr, comandante le forze al Volturno chiamava a sè il suo capo di Stato Maggiore e tutti i comandanti delle brigate ai suoi ordini; esponeva ad essi il progetto di una ricognizione offensiva su Capua, onde antivenire una battaglia che, secondo notizie ricevute, i regi si apprestavano a dare appunto nel giorno 19 dedicato a S. Gennaro, dal quale speravano protezione e vittoria. Si doveva simulare un attacco sul fronte di Capua, per attirarvi le forze borboniche ed impedire alle medesime di portare soccorso alla loro sinistra dove dovevano operare le colonne di Csudafii e di Cattabeni; dava ad ognuno dei comandanti di brigata verbali istruzioni, determinando ad ognuno la parte che doveva prendervi; raccomandava infine ai comandanti di non esporre le truppe oltre il limite richiesto dallo scopo cui tendeva l'azione, cioè la simulazione di un attacco.

Ordinava quindi che l'azione dovesse effettuarsi nelle prime ore del giorno seguente, 19 settembre.

In seguito a tale ordine i colonnelli brigadieri Spangaro, Puppi e di Giorgis si mossero sul fare del giorno del 19 al simulato attacco di Capua.

L'attacco contro il fronte di questa fortezza fu sostenuto con grande valore; colla punta della baionetta furono snidati i borbonici che occupavano due cascine sulla strada conducente agli approcci del forte e quelli appostati fra l'argine della ferrovia e la strada postale.

I bersaglieri milanesi, comandati dal capitano Pedotti, compirono atti di grande valore; il capitano, cacciatosi coi suoi fra le fitte schiere nemiche, corse pericolo di essere soprafatto; vi fu un momento in cui fu creduto perduto, ma il destino lo volle conservato alla patria.

La mitraglia, senza interruzione vomitata dai bastioni e dai forti di Capua, cagionava perdite enormi; lo stesso brigadiere Puppi, mentre con temerario ardimento si esponeva alla testa dei suoi, cadeva mortalmente ferito. Ormai lo scopo che il comandante superiore erasi prefisso poteva ritenersi pienamente ottenuto; per cui venne ordinato di retrocedere ordinatamente, per riprendere ciascun corpo le proprie posizioni. Al capitano Pedotti coi suoi bersaglieri milanesi, coadiuvato dal luogotenente Zancarini, comandante la compagnia Genio, fu dato l'arduo incarico di sostenere e proteggere la ritirata del grosso delle truppe garibaldine e di trarre in salvo l'artiglieria, specialmente i pezzi che il fuoco nemico aveva smontati.

Il nemico, appena visto che i nostri muovevano in ritirata, baldanzosamente usciva in buon numero dal forte per inseguirli e molestarli; ma venne arrestato dalle punte delle baionette dei bravi bersaglieri che, guidati dal loro comandante capitano Pedotti e assecondati dal 3o battaglione comandato dal capitano De Caroli, lo misero in fuga, inseguendolo fin sotto ai bastioni di Capua, al grido di "viva Garibaldi".

Il capitano Pedotti per la sua eroica condotta veniva proposto per la promozione e per la croce dell'Ordine Militare di Savoia.

Altri ufficiali per la loro bella condotta ebbero pure meritate onorificienze.

Il maggiore Cattabeni, partito secondo l'ordine ricevuto da Caserta alle 3 pom. del giorno 18, arrivava a Limatola a mezzanotte e mandava il seguente rapporto:

Al generale Turr.

"Mi trovo ad un terzo di miglio dalle sponde del fiume. Mi è riuscito ottenere tre pescatori che mi serviranno di guida. Da qui a Caiazzo vi sono circa 4 miglia. I soldati riposano, e alle 2 e mezza riprenderò la marcia. Ho ordinato ai soldati di mettere le giberne all'estremità del fucile, perchè troveremo un mezz'uomo d'acqua abbondante.

"Dai rinsegnamenti avuti, in Caiazzo ci sono 600 regi, con due pezzi d'artiglieria.

"Al giungere di questo rapporto, son sicuro Caiazzo sarà in nostro potere. Non potevamo scegliere un miglior punto di questo per passare il fiume. Alle 4 e mezza darò l'assalto a Caiazzo, e vedrà che i cacciatori di Bologna son degni di essere sotto i suoi comandi".

firmato G. B. Cattabeni.

E, come aveva promesso, le truppe comandate dal Cattabeni alle 5 e mezza entravano a Caiazzo.

Ottenuto lo scopo della ricognizione e di esplorare le forze del nemico, il Turr esponeva al generale Garibaldi la necessità di ordinare al Cattabeni di sgombrare Caiazzo; ma Garibaldi mostrava ripugnanza di abbandonare una così bella posizione; e allora Turr fatta comprendere la difficoltà di sostenere con un battaglione una posizione così lontana, al di là di un fiume, raccomandò a Garibaldi di farla occupare fortemente, e il generale dava ordini al Medici di mandarvi una brigata della sua divisione; disgraziatamente era però già troppo tardi.

Il generale Garibaldi, visto che il Turr aveva bisogno di riposo, per migliorare la sua salute il 20 gli telegrafava così:

Al generale Turr, Caserta.

"Subito giunto Medici a Caserta incaricato del Comando, venite qui a passare qualche giorno Napoli 20, ore 6,50" G. Garibaldi.

Intanto il generale Garibaldi avendo constatato colle ricognizioni del 19, opportunamente ordinate dal Turr, di avere da fare con un nemico che disponeva di molte forze, si preparava per affrontarlo.

Ma, mentre questo avveniva nel campo garibaldino, i borbonici preoccupati della perdita di Caiazzo, determinavano di riprenderlo immediatamente e ad ogni costo.

La mattina del 21 settembre cinque battaglioni di cacciatori regi, due squadroni di cavalleria ed una batteria da campagna, sotto il comando del generale Colonna uscivano da Capua per investire Caiazzo.

Il comandante dell'11o battaglione garibaldino che occupava la posizione avanzata di Monte S. Nicola, avvisava il brigadiere Spangaro di questo movimento; ma era troppo tardi! I rinforzi non potevano arrivare in tempo, solo il colonnello Vacchieri con 600 uomini potè giungere in sussidio dal Cattabeni.

Ma che potevano fare i comandanti garibaldini contro l'enorme superiorità delle forze nemiche? Essi occuparono un bosco di olivi, barricarono le strade di Caiazzo ed attesero di piè fermo il nemico. Si cominciò a combattere fuori le città ma, incalzati da ogni parte, i garibaldini mancanti di artiglieria, oppressi dal numero, abbandonarono la campagna e si ritirarono nella città dietro le barricate, per resistere fino all'estremo. Avveniva allora un fatto atroce; mentre i nostri combattevano alla difesa delle barricate, i reazionari li fucilavano alle spalle dalle case e dai tetti. Ogni resistenza diveniva impossibile, inutile; le barricate erano demolite dal cannone borbonico, i garibaldini assaliti di fronte e alle spalle; il Cattabeni cadeva ferito gravemente mentre incoraggiava alla resistenza; molti altri ufficiali feriti caddero prigionieri; i garibaldini cercarono di salvarsi ritirandosi, ma, incalzati dalla cavalleria, molti rimasero sul terreno, altri si gettarono nel fiume, ove non pochi perdettero la vita, sicchè del battaglione Cattabeni ben pochi rientrarono in Caserta.

Verso la fine di settembre Garibaldi, presentendo che i napoletani, forti di oltre quarantamila uomini, rinchiusi a Capua avrebbero fatto un supremo sforzo per riconquistare Napoli al loro Re, aveva mandato fuori un caldo proclama chiamando i commilitoni a raccolta e chiedendo all'Italia nuovo aiuto d'uomini, pel compimento dei suoi voti di libertà e d'indipendenza.

Alla chiamata di Garibaldi volle rispondere anche l'Elia, che il Prodittatore Depretis aveva mandato a Bologna alle cure del professore Rizzoli; sebbene assai sofferente e impedito di parlare, pur'egli sentì il dovere di non mancare allo appello, tanto più che il tenente Lanari, superstite del battaglione Cattabeni, si offriva di accompagnarlo.

Quando il generale lo vide a Caserta lo accolse con gioia ed amore, rallegrandosi di vedere avverata la sua profezia del 15 maggio a Calatafimi "Coraggio, mio Elia, di queste ferite non si muore" che egli si compiacque di rammentare ai presenti del quartiere generale.