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Alla conquista di un impero

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– Fermati un istante! – gridò precipitosamente Sandokan.

Il maharatto che doveva pure aver udito quel crepitìo che poteva annunciare una imminente rottura, ubbidì subito.

Fortunatamente la corda non aveva ceduto, né aveva dato alcun altro suono. A quanto pareva, i fili di seta si erano solamente allungati senza spezzarsi.

– Vuoi provare? – chiese finalmente Sandokan.

– Aspettavo il tuo ordine, – rispose Kammamuri con voce perfettamente calma.

– Va’, amico, – disse Tremal-Naik.

Il maharatto riprese la sua marcia aerea, procedendo però con precauzione e giunse ben presto sul terrazzo della pagoda, mandando un gran sospiro di soddisfazione.

– Le funi, padrone! – gridò subito.

Sandokan aveva già scelto le più grosse e le più solide. Le annodò facilmente. Le due funi, annodate l’una sopra l’altra, all’altezza d’un metro e mezzo e assicurate a due aste di ferro, potevano permettere il passaggio senza correre troppi pericoli.

– Tremal-Naik, – disse Sandokan; – occupati di far passare le persone. Surama hai paura?

– No, signore.

– Passa per la prima.

– E tu? – chiese Tremal-Naik.

– Vado a coprire la ritirata e preparare la barriera che impedirà agli assedianti di darci la caccia. —

Riattraversò il tetto e ridiscese negli appartamenti.

La battaglia fra gli indù, i malesi ed i servi del palazzo infuriava, facendo accorrere da tutte le vicine vie nuovi combattenti.

I malesi nascosti dietro i parapetti delle varanghe che avevano coperti con materassi, cuscini e pagliericci, sparavano furiosamente facendo indietreggiare, ad ogni scarica, gli assalitori e mandandone molti a terra morti o feriti.

La folla però, che era pure armata di ottime carabine e di pistole, rispondeva non meno vigorosamente e anche dalle case fronteggianti il palazzo di Surama si sparava contro la varanga, mettendo in serio pericolo i difensori.

Sandokan si era precipitato fra i suoi uomini, gridando:

– Riparate subito sul tetto! Fra pochi minuti il palazzo sarà in fiamme! Prima le donne ed i servi, ultimi voi per coprire la ritirata. —

Ciò detto strappò una torcia che illuminava la varanga e diede fuoco alle stuoie di coccottiero, quindi si slanciò attraverso le splendide stanze che formavano l’appartamento riservato di Surama, incendiando i cortinaggi di seta delle finestre, le coperte dei letti, i tappeti, i leggeri mobili laccati.

– Ci diano la caccia ora, – disse quando vide le fiamme avvampare e le stanze riempirsi di fumo. – Cinquantamila rupie non valgono un dito di Surama. —

Ritornò sulla varanga inseguito dalle colonne di fumo per accertarsi che non vi era più nessuno.

Indiani e malesi, dopo d’aver fatta un’ultima scarica, erano precipitosamente fuggiti; e le stuoie, le colonne di legno e persino il pavimento, avvampavano con rapidità prodigiosa lanciando intorno bagliori sinistri.

– Questo palazzo brucerà come un pezzo d’esca, – mormorò Sandokan. – È tempo di metterci in salvo. —

Raggiunse l’abbaino e balzò sul tetto. La ritirata era cominciata in buon ordine; uomini e donne attraversavano rapidamente il ponte volante reggendosi sulle due funi, mentre i malesi, curvi sui margini del tetto, consumavano le loro ultime munizioni e scagliavano nella via, sulle teste degli assedianti, ammassi di tegole.

Sul terrazzo della pagoda le persone si accumulavano, prendendo subito la via dei tetti, sotto la guida di Tremal-Naik, di Kammamuri e di Bindar.

Quando Sandokan vide finalmente il ponte volante libero, vi fece passare i malesi, poi troncò con un colpo di coltello le due funi che erano state legate attorno al comignolo d’un camino, onde gli assedianti, nel caso che la casa non bruciasse interamente, non potessero accorgersi da qual parte gli assediati fossero fuggiti.

– Ora un esercizio da buon marinaio, – mormorò Sandokan.

Prima di eseguirlo lanciò intorno un rapido sguardo. Dagli abbaini uscivano nuvoli di fumo e getti di scintille e nella sottostante via si udivano i clamori feroci della folla.

– Entrate e dateci la caccia, – mormorò il pirata con un sorriso ironico.

Afferrò una delle due funi, si spinse fino sull’orlo del tetto e senz’altro si slanciò andando a battere i piedi contro il cornicione della pagoda che sorreggeva il terrazzo.

Nessun altro uomo, che non avesse posseduta l’agilità e la forza straordinaria di Sandokan, avrebbe potuto tentare una simile volata senza fracassarsi per lo meno le gambe.

Il pirata però che doveva possedere una muscolatura d’acciaio, non provò che un po’ di stordimento, prodotto dal violentissimo contraccolpo.

Stette un momento fermo per rimettersi un po’, quindi cominciò a issarsi a forza di pugno finché raggiunse il terrazzo.

Sui tetti delle vicine case i servi e le donne fuggivano rapidamente, fiancheggiati dai malesi. Surama camminava alla testa, sorretta da Tremal-Naik e da Kammamuri.

Sandokan, pur camminando con una certa precauzione, in pochi istanti li raggiunse.

– Finalmente! – esclamò il bengalese, – cominciava a diventare inquieto non vedendoti comparire.

– Io ho l’abitudine di giungere sempre, – rispose la Tigre della Malesia.

– Ed il mio palazzo? – chiese Surama.

– Brucia allegramente.

– È un patrimonio che se ne va in fumo.

– E che la Tigre della Malesia pagherà – rispose Sandokan alzando le spalle.

– Ci inseguono? – chiese Tremal-Naik.

– Attraverso le fiamme? Si provino a mettere i loro piedi entro quella fornace.

Io già non ti seguirei di certo.

– Ma dove finiremo noi?

– Aspetta che troviamo una via che c’impedisca di andare più innanzi, amico Tremal-Naik.

Ho già fatto il mio piano.

– E quando la Tigre della Malesia ne ha uno nel cervello, si può essere certi che riuscirà pienamente, – aggiunse Kammamuri.

– Può darsi, – rispose Sandokan. – Non fate troppo rumore e non guastate troppe tegole. In questo momento non potrei risarcire i danneggiati. —

La ritirata si affrettava sempre in buon ordine, passando da un terrazzo all’altro. Gli uomini aiutavano sempre le donne a scavalcare i parapetti, che talvolta erano così alti da costringere i malesi a formare delle piramidi umane, per meglio favorire le scalate.

Verso il palazzo si udivano sempre urla e spari e si scorgevano le prime lingue di fuoco sfuggire attraverso gli abbaini.

Nelle case di fronte e di dietro, di quando in quando, partivano delle grida altissime:

– Al fuoco! Al fuoco! —

I fuggiaschi che temevano di essere sorpresi, si affrettavano. Se le fiamme s’alzavano, qualcuno poteva scorgerli e dare l’allarme, e questo, Sandokan assolutamente non lo desiderava.

– Presto! presto! – diceva.

Ad un tratto gli uomini che si trovavano all’avanguardia, si ripiegarono verso il terrazzo che avevano appena allora superato.

– Che cosa c’è? – chiese Sandokan.

– Non si può più andare innanzi, – disse Bindar che guidava quel drappello. – Abbiamo una via dinanzi e tanto larga che non la potremo sorpassare.

– Vedi nessun abbaino?

– Ce ne sono due sotto il terrazzo.

– Di che cosa ti lagni dunque amico, quando abbiamo delle scale per scendere nella via? Fa’ sfondare quegli abbaini e andiamo a fare una visita agli abitanti di questa casa. Sarà troppo mattutina, ma la colpa non è nostra. —

20. La ritirata attraverso i tetti

Come Bindar aveva detto, proprio sotto la parete che reggeva l’ultimo terrazzo, s’aprivano due finestre piuttosto anguste, ma sufficienti per lasciar passare un uomo, e riparate da semplici stuoie di coccottiero.

Sandokan che si era riunito a Tremal-Naik, a Kammamuri e a Surama, dopo averle osservate un momento, trasse dalla fascia il kriss e con un colpo solo sventrò il grossolano tessuto, introducendo la testa attraverso lo squarcio.

– Non vi è nessuno? – chiese il bengalese.

– Sembra che le grida e le fucilate non abbiano ancora guastato il sonno agli abitanti di questa casa – rispose Sandokan. – Chi è che ha una torcia?

– Io, sahib – rispose Bindar.

– Accendila, ragazzo previdente.

– Eccola padrone. —

La Tigre della Malesia sfondò la stuoia strappandola completamente; prese la torcia, armò una pistola ed entrò in un bugigattolo ingombro solamente di vecchie mobilie fuori d’uso.

– Che tutti mi seguano, – comandò – e tenete pronte le armi. —

Con una semplice spinta aprì una porta e trovata una scala, si mise a scendere tranquillo, come se fosse stato in casa sua. Molte porte s’aprivano a destra ed a manca, però tutte erano chiuse e nessun rumore si udiva.

– Si direbbe che questa casa è deserta, – mormorò Sandokan.

S’ingannava, poiché mentre stava per scendere il primo gradino d’uno scalone, due servi indiani, due sudra, gli si pararono dinanzi roteando minacciosamente nodosi randelli e gridando:

– Ferma!

– Sgombrate, – rispose invece Sandokan puntando contro di loro la pistola. – Siamo in quaranta e tutti armati.

– Che cosa vuoi tu? – chiese il più vecchio. – Come sei entrato qui, senza il permesso del padrone?

– Noi desideriamo solamente andarcene, senza disturbare nessuno.

– Siete ladri?

– Nessuno dei miei uomini ha toccato le cose appartenenti al tuo padrone. Orsù, metti fuori la chiave e aprici il portone. Abbiamo fretta.

– Io non posso aprire senza l’ordine del padrone.

– Ah, occorre il suo ordine? La vedremo. —

Si volse verso i malesi che l’avevano raggiunto e disse loro:

– Legate ed imbavagliate questi due servi. —

Non aveva ancora terminato quell’ordine, che già i malesi si erano scagliati come tigri sui sudra disarmandoli ed imbavagliandoli.

– La chiave! se non volete che vi faccia gettare giù dalla scala, – disse Sandokan con voce imperiosa. – Vi ho detto che abbiamo fretta. —

 

I due indiani spaventati non osarono più rifiutarsi e porsero la chiave.

Sandokan riprese la discesa seguito da tutto il drappello e aprì non senza qualche difficoltà il portone. Nessuno pareva che si fosse accorto di quell’invasione, poiché nessun altro servo erasi mostrato.

– Eccoci finalmente liberi, – disse Sandokan. – Come hai veduto, mio caro Tremal-Naik, la cosa non poteva essere più facile.

– Tu sei sempre l’uomo straordinario che la Malesia intera ha temuto e ammirato.

– Venite tutti. —

Non essendo ancora sorta l’alba, la via era deserta, sicché poterono allontanarsi indisturbati e raggiungere le viuzze d’un vicino sobborgo, che terminava sulle rive del Brahmaputra.

In lontananza il cielo era tinto di rosso. Erano i riflessi dell’incendio che divorava il palazzo di Surama.

Vedendoli, la giovane principessa non poté trattenere un lungo sospiro, che non isfuggì a Sandokan che le camminava a fianco.

– Tu rimpiangi la tua casa, è vero amica? – disse il pirata.

– Non lo nego.

– Fra non molto ne avrai una più bella: il palazzo del rajah.

– Tu dunque speri sempre, signore?

– Non avrei lasciata la Malesia, – rispose Sandokan, – se non fossi stato certo di condurre a buon fine l’impresa.

Fra me, Yanez e Tremal-Naik, rovesceremo quell’ubbriacone sanguinario, che regna sull’Assam e gli strapperemo la corona che egli ha conquistata con un semplice colpo di carabina.

Egli ha mandato te a fare la bajadera e noi manderemo lui a fare… il bramino od il gurum. —

Intanto erano giunti sotto i folti tamarindi che ombreggiavano la riva del fiume. Sandokan si era fermato rivolgendosi verso i servi e le donne, che si erano raggruppati dietro di lui.

– È questo il momento di lasciare la vostra padrona, – disse loro. – Riceverete ognuno cinquanta rupie di regalo, che vi consegnerà domani mattina Bindar nel bengalow di passaggio.

Appena avremo bisogno di voi riprenderete il vostro servizio.

– Grazie, sahib – risposero i sudra commossi da tanta generosità.

– Disperdetevi e non dimenticatevi dell’appuntamento. —

Le donne baciarono le mani di Surama, gli uomini l’orlo della veste, poi si allontanarono rapidamente prendendo varie direzioni.

– Ora a noi, Bindar, – riprese Sandokan; – posso contare sulla tua assoluta fedeltà?

– Mio padre è morto difendendo quello della principessa ed io, che sono suo figlio, sarei ben lieto di fare altrettanto – rispose con nobiltà l’assamese. – Comanda, sahib.

– Andrai, innanzi tutto, a presentare questa tratta di cinquantamila rupie al banco anglo-assamese e pagherai i servi.

– Bene sahib: ti riporterò fedelmente la rimanenza non più tardi di domani sera.

– Non c’è premura – disse Sandokan. – Hai altro da fare qui, prima di raggiungermi nella jungla di Benar.

– Comanda, sahib.

– Tu andrai al palazzo reale e cercherai di vedere Yanez o qualcuno dei suoi uomini.

– Che cosa devo dire al sahib bianco?

– Narrargli tutto ciò che è avvenuto e dirgli dove noi ci troviamo. Se ti darà una lettera noleggerai una barca e verrai a raggiungermi nella jungla. Sii prudente e bada di non farti prendere.

– Non mi lascerò sorprendere, signore, – rispose Bindar.

– Va’, bravo ragazzo: la tua fortuna è assicurata. —

L’assamese baciò l’orlo della veste di Surama, poi si allontanò velocemente scomparendo sotto gli alberi.

– Alla bangle ora, – disse Sandokan. – Speriamo di trovarla ancora nel medesimo posto dove l’abbiamo lasciata.

– E facciamo presto – aggiunse Tremal-Naik. – Noi non saremo interamente sicuri finché non ci troveremo nella pagoda di Benar.

– Se lo saremo anche là.

– Dubiti?

– Eh! chi lo sa? Il greco non mancherà di spie, mio caro Tremal-Naik, e tu sai meglio di me quanto sono astuti e soprattutto intelligenti i tuoi compatriotti.

– Questo è vero – rispose il bengalese.

– E faremo perciò bene a guardarci alle spalle. Alla bangle amici, e andiamocene prima che il sole sorga. —

Si cacciarono in mezzo agli alberi seguendo la riva che era popolata solamente di marabù, ritti e fermi sulle loro zampe, in attesa che la luce si avanzasse per recarsi a pulire le vie della città, essendo quegli ingordi volatili i soli spazzini dei quartieri indù, spazzini economici, ma non meno utili di quelli umani perché tutto divorano: ossa, vegetali marci, avanzi di qualunque genere che i cani più affamati sdegnerebbero.

Le stelle cominciavano ad impallidire quando il drappello giunse nel luogo dove era stata lasciata la bangle.

– Niente di nuovo? – chiese Sandokan ai due malesi che erano rimasti a guardia della barca.

– Sì: siamo spiati, Tigre della Malesia, – rispose uno dei due.

– Che cos’hai notato?

– Alcuni uomini sono venuti a ronzare presso la bangle.

– Molti?

– Cinque o sei.

– Soldati del rajah?

– No, non erano guerrieri quelli.

– Sono ritornati?

– Due ore fa li abbiamo riveduti, – rispose il malese.

Sandokan guardò Tremal-Naik.

– Che cosa ne dici tu? – gli chiese.

– Che la nostra presenza è stata notata e che il rajah o il greco tenteranno di fare qualche colpo contro di noi, – rispose il bengalese.

– Che vengano ad assalirci nella jungla?

– Ho proprio questo dubbio.

– Bah! Abbiamo laggiù forze sufficienti per opporre una terribile resistenza. Se vogliono seguirci lo facciano pure: saremo pronti a dar loro una tale lezione che non dimenticheranno facilmente. —

Salirono sulla bangle; i malesi presero i remi e si spinsero al largo risalendo la corrente del Brahmaputra.

Sandokan, come era sua abitudine, si era collocato a prora con Tremal-Naik e Surama. Gli occhi vigili del pirata sorvegliavano attentamente la riva, poiché, dopo quanto gli avevano riferito i due malesi lasciati a guardia della barca, un dubbio lo aveva assalito.

Ed infatti la bangle non aveva ancora percorso duecento metri, quando da una piccola insenatura, nascosta da giganteschi tamarindi, vide avanzarsi sul fiume una di quelle leggere barche, che gli indiani chiamano mur-punky e che rassomigliano nelle forme alle baleniere, quantunque abbiano la prora un po’ elevata ed adorna d’una grossa testa di pavone.

– Ah! furfanti! – mormorò. – M’aspettavo questo inseguimento.

– E ci lasceremo dare la caccia da quegli uomini? – chiese Surama.

– Non siamo ancora giunti nella jungla di Benar, – rispose Sandokan.

– Chissà che cosa può succedere prima d’imboccare il canale che conduce nello stagno dei coccodrilli. Io spero di offrire a quei brutti sauriani una cena appetitosa, quantunque li detesti.

– Quegli uomini possono diventare un giorno miei sudditi.

– Ne avrai sempre abbastanza, – rispose freddamente Sandokan. – Se io avessi risparmiati tutti i miei nemici, non sarei diventato la Tigre della Malesia, né avrei potuto rimanere per tanti anni nella mia Mompracem.

D’altronde io non potrei tenere troppi prigionieri: ne ho già due nella jungla, uno dei quali potrebbe darmi dei gravi fastidi.

– Chi è?

– Il fakiro che ti ha rapita, mia cara Surama. Se quello riuscisse a scapparmi, a noi non resterebbe altro che di rifugiarci al più presto nel Borneo, e allora la tua corona sarebbe perduta. Ah! ci corrono dietro! La vedremo, signori miei: abbiamo palle e polvere ancora. —

Il mur-punky che era montato da otto rematori e da un timoniere, filava rapidissimo tenendosi sulla scia della bangle. Che quegli uomini fossero semplici rematori, vi era da dubitare, poiché gli sguardi acuti di Sandokan avevano veduto, quantunque cominciasse solo allora a rischiararsi il cielo, le estremità di parecchi fucili che s’appoggiavano sui due bordi.

Poteva darsi che fossero cacciatori in cerca di anitre bramine e di oche, volatili che abbondano sempre sulle rive dei grandi fiumi dell’India, specialmente su quelli che bagnano le terre orientali di quella immensa penisola.

Ad un tratto però la leggera baleniera si gettò fuori dalla scia, piegando a destra e con uno sforzo di remi sorpassò la bangle, che in causa della sua pesante costruzione e dei suoi larghi fianchi, non poteva vincerla in velocità, e con non poca sorpresa di Sandokan e di Tremal-Naik, si diresse verso la riva sinistra, dove si scorgeva vagamente, sotto le immense fronde di tamarindi costeggianti il fiume, una massa nera.

– Che cosa significa questa manovra? – si chiese il pirata corrugando la fronte.

– Che ci siamo ingannati? – disse Tremal-Naik.

– Adagio, amico – rispose Sandokan. – Che cos’è, innanzi a tutto, quell’ombra grossa che si nasconde sotto le piante?

– Da’ ordine al timoniere di accostarsi alla riva. Voglio vederci chiaro in questa faccenda.

– Toh! Guarda, Tremal-Naik. Il mur-punky l’ha abbordata.

– Che sia qualche bangle? In tale caso non dovremmo spaventarci.

Quegli uomini del mur-punky possono essere marinai che tornano a bordo del loro legno.

– Uhm! – fece Sandokan. – Non sono affatto rassicurato. Ehi, Kammamuri, poggia ancora! —

La bangle deviò verso la riva sinistra mentre i malesi rallentavano la battuta e passò dinanzi alla massa oscura a trenta o quaranta metri di distanza.

Un doppio grido di stupore sfuggì dalle labbra del pirata e del bengalese.

– Il poluar! —

Si guardaron l’un l’altro interrogandosi cogli occhi.

– Sarà poi quello che ci ha seguiti quando scendevamo il fiume? – chiese finalmente Tremal-Naik.

– Quando io ho veduto una volta una nave non la scordo più, – rispose Sandokan. – Quello è il poluar che ci ha dato la caccia.

– E che si prepara a seguirci ancora, – aggiunse Kammamuri, che aveva ceduto il timone ad un malese. – Stanno spiegando le vele.

– Eppure non devono scoprire il nostro rifugio, – disse Sandokan che era diventato pensieroso.

– Vorresti assalirlo? – chiese Surama, – Un equipaggio ben più numeroso del tuo.

– Ho un’idea, – disse Sandokan, dopo essere rimasto alcuni istanti silenzioso. – Tu, Kammamuri, saresti capace di fabbricarmi una bomba? Basterà una scatola di latta, una di quelle che contengono le conserve.

Ne dobbiamo avere qui.

– Ne ho fatto imbarcare una dozzina piene di biscotti, prima di lasciare la jungla.

– Basterà una di quelle: con un chilogrammo di polvere si può produrre un bel guasto.

Lega però solidamente la scatola, con del filo di ferro se lo puoi trovare e mettici una buona miccia, che non sia più lunga di cinque centimetri.

– E con quale cannone la lancerai a bordo del poluar? – chiese Tremal-Naik.

– Andrò io a regalarla a quei signori, – rispose Sandokan. – Saremo costretti ad aspettare la notte poiché il sole già si alza; ma noi non abbiamo fretta ed i nostri amici, che sono nella jungla, non si inquieteranno pel nostro ritardo.

– Non riesco a comprendere il tuo progetto.

– Lo capirai quando mi vedrai all’opera. Va’ a riposarti, Surama, tu devi essere molto stanca.

Ti sveglieremo all’ora della colazione e tu Kammamuri va’ a fabbricarmi la bomba e metti fra la polvere più palle di carabina che puoi.

Vedremo poi come se la caverà quel poluar. —

Accese la pipa e si portò a poppa della nave per sorvegliare le mosse di quei misteriosi naviganti.

Il piccolo naviglio, levate le ancore e sciolte le sue due vele quadrate, aveva lasciata la riva ed avendo il vento favorevole, si era messo dietro alla bangle tenendosi ad una distanza di tre o quattrocento metri. Dietro la poppa rimorchiava il mur-punky.

Se avesse voluto avrebbe potuto superare facilmente la pesante barca di Sandokan, essendo quei piccoli bastimenti velocissimi, anche con vento scarso; ma si vedeva che il suo equipaggio non aveva alcun desiderio di fare troppo cammino, poiché di quando in quando abbassava ora l’una ora l’altra vela per rallentare la marcia.

Essendosi il sole ormai innalzato sopra le immense foreste del levante, Sandokan e Tremal-Naik potevano distinguere facilmente le persone che montavano quel poluar.

Non erano che dieci o dodici e parevano battellieri, non avendo per vestito che un semplice dootèe annodato intorno ai fianchi per esser più lesti a montare sull’alberatura, ma forse altri si tenevano nascosti nella stiva.

Una cosa aveva subito colpito il pirata ed il bengalese: era un enorme tamburo, uno di quelli che gl’indiani chiamano hauk e di cui si servono nelle feste religiose, tutto adorno di pitture e di dorature e sormontato da mazzi di penne variopinte e che si trovava collocato fra i due alberi, quasi in mezzo alla coperta.

– Quello non è un istrumento da guerra, – disse Sandokan, a cui nulla sfuggiva, – né fino ad oggi ho veduto quei tamburoni sui velieri indiani.

 

– E nemmeno io, – rispose Tremal-Naik. – Lo hanno collocato là per qualche motivo e che io forse indovino.

– Vuoi dire?

– Che quegli istrumenti quando sono vigorosamente percossi si possono udire a distanze incredibili.

– Sicché servirebbe?

– Per trasmettere dei segnali.

– Sono della tua opinione, – disse Sandokan. – Si prepara qualche cosa contro di noi. Ormai abbiamo fatto troppe osservazioni.

– Bah! aspettiamo questa sera e anche quel tamburone andrà a tenere allegra compagnia ai pesci del Brahmaputra. —

La bangle intanto continuava la sua marcia, senza troppo affrettarsi, non volendo Sandokan allontanarsi di troppo dal canale che conduceva alla laguna, seguìta ostinatamente dal poluar, il quale si sforzava di mantenersi sempre alla medesima distanza, quantunque la brezza mattutina fosse diventata più forte.

Il fiume che si svolgeva superbo, scendendo dolcemente, invece di restringersi tendeva ad allargarsi, scorrendo fra due magnifiche rive coperte di palas, di palmizi tara, di mangifere splendide e di nim dal tronco enorme e dal fogliame cupo e foltissimo.

Di quando in quando compariva qualche risaia, chiusa tra arginetti alti alcuni piedi, destinati a trattenere le acque, tutta coperta da lunghi steli d’un bel verde e che producono dei chicchi enormi; ma ben presto la foresta riprendeva il suo impero svolgendosi fra un caos di liane che formavano dei pergolati bellissimi.

Numerose bande di semnopiteci, svelte e leggere scimmie che gli indiani chiamano langur, alte un metro e mezzo, ma così magre da non pesare oltre dieci chilogrammi, si mostravano sugli alberi e salutavano i naviganti con fischi acuti, scagliando nel medesimo tempo frutta e ramoscelli, essendo insolentissime.

Sulle rive invece, fra i canneti, svolazzavano gruppi di bellissime anitre bramine, di cicogne, di bozzagri e di marabù e sonnecchiavano indolentemente, scaldandosi al sole, grossi coccodrilli dai dorsi rugosi e coperti di piante acquatiche.

A mezzogiorno, Sandokan fece dirigere la bangle verso la riva sinistra e affondare l’ancora, onde permettere ai suoi uomini di far colazione.

Il poluar continuò la sua marcia per altri tre o quattrocento metri per non destare forse dei sospetti, ma poi poggiò verso la riva destra gettando le sue ancore in un minuscolo seno, dove l’acqua era ancora abbastanza profonda.

Dal fumo che sfuggiva dal casotto di poppa, Sandokan s’accorse subito che anche quell’equipaggio si preparava il pasto del mezzodì.

– Hai ancora qualche dubbio sulle intenzioni di quegli uomini? – chiese a Tremal-Naik.

– No, – rispose il bengalese che appariva preoccupato. – Se non troviamo il mezzo di sbarazzarci di quel legno, non ci lasceranno più.

Quegli uomini devono aver ricevuto l’ordine di spiarci.

– Aspettiamo questa notte. —

Fecero chiamare Surama e pranzarono sulla tolda, dopo d’aver avuto la precauzione di far stendere una vela sopra le loro teste onde preservarsi da qualche colpo di sole.

Non fu che verso le quattro del pomeriggio che Sandokan fece dare il segnale della partenza.

La bangle si era appena mossa che anche il poluar spiegava una delle sue due vele, prendendo la medesima via.

– Ah, non volete lasciarci? – disse il pirata. – La bomba è pronta e penserà essa ad arrestarvi anche in piena corsa. —

Le due barche continuarono a navigare di conserva, l’una a remi e l’altra a vela, mantenendo la medesima distanza che variava dai trecento ai cinquecento metri.

La regione era diventata deserta.

Non si scorgevano più né risaie, né capanne e nemmeno barche.

La jungla, sfuggita da tutti gli abitanti che non avevano alcun desiderio di ricevere le visite poco gradite delle tigri e delle pantere, non doveva essere lontana.

Infatti verso il tramonto, la bangle che si era avanzata assai, benché lentamente, passava dinanzi al canale che conduceva nella palude; ma Sandokan vedendosi sempre alle costole il poluar, si guardò bene dal dare il comando di cacciarvisi dentro.

Lasciò che la barca risalisse il fiume per un paio di miglia ancora, poi, quando le tenebre scesero, fece gettare di nuovo le ancore presso la riva sinistra.

Il poluar, come aveva fatto al mezzodì, proseguì la sua marcia per alcune centinaia di metri e si ancorò non già sulla riva opposta, bensì in mezzo al fiume, onde sorvegliare più strettamente la piccola barca.

– Cenate pure, – disse Sandokan a Tremal-Naik ed a Surama.

– E tu? – chiese il bengalese.

– Mangerò dopo il bagno.

– Che cosa vuoi tentare?

– Non te l’ho detto? Voglio sbarazzarmi di quegli spioni.

– E come?

– Il tuo bravo Kammamuri m’ha preparato una bomba veramente splendida. Quando tu, Surama, diventerai la regina dell’Assam lo nominerai generale dei granatieri.

– Io farò tutto quello che desidereranno i miei protettori, – rispose la giovane con un amabile sorriso.

– Pensiamo ora al nostro affare, – disse Sandokan. – La notte è oscura e nessuno mi vedrà attraversare il fiume.

– Tu vuoi farti divorare! – esclamò Tremal-Naik spaventato.

– Da chi?

– Vi sono coccodrilli e anche squali d’acqua dolce nelle acque del Brahmaputra. —

Sandokan alzò le spalle, poi levandosi dalla fascia il kriss malese disse con noncuranza:

– E quest’arma a che cosa dovrebbe dunque servire? – chiese. – Quando il vecchio pirata di Mompracem l’ha bene in pugno, se ne ride degli uni e anche degli altri. La mia carne non fa per loro, tranquillizzati.

– Lascia che t’accompagni.

– No, amico. In queste faccende non può agire che un solo uomo.

– Non mi hai spiegato ancora il tuo progetto.

– È semplicissimo. Vado ad appendere la mia bomba ai cardini del timone del poluar, accendo la miccia e ritorno tranquillamente a bordo della mia bangle.

Vedrai che guasto farà quel chilogrammo di polvere! Kammamuri, sono pronto. —

Il maharatto accorse portando con una certa precauzione la famosa bomba, la quale non consisteva che in una scatola di latta, bene cerchiata con filo di rame tolto dai bordi della bangle, con una miccia lunga otto o dieci centimetri ed un gancio, ad una delle due estremità, formato pure di filo di rame, per poterla appendere ai cardini del timone.

Sandokan la esaminò attentamente, fece col capo un gesto come d’uomo soddisfattissimo, poi entrato nel casotto di poppa, si spogliò rapidamente stringendosi ai fianchi un dootèe e passandovi dentro il kriss.

– Ora tu, mio bravo Kammamuri, mi legherai sulla testa la bomba e vi unirai l’acciarino e l’esca.

Assicura bene l’una e gli altri, onde non costringermi a rifare il viaggio. —

Kammamuri non si fece ripetere due volte l’ordine.

– Fa’ calare una fune ora, – riprese Sandokan.

– Bada ai coccodrilli, signore, – disse Surama che sembrava commossa. – Tu arrischi la tua preziosa vita per me.

– E per gli altri, – rispose il fiero pirata. – Sii tranquilla, mia bella fanciulla. La carne delle vecchie tigri di Mompracem è troppo coriacea. —

Stese la mano alla giovane ed a Tremal-Naik, raccomandò il più assoluto silenzio, poi si lasciò scivolare lungo la fune, immergendosi, dolcemente, nella corrente dal fiume.

Surama, Tremal-Naik e tutto l’equipaggio, avevano seguìto ansiosamente cogli sguardi il formidabile pirata chiedendosi, non senza sgomento, come sarebbe finito quell’audace tentativo, ma dopo pochi istanti lo perdettero di vista essendo l’acqua oscurissima ed il cielo coperto di vapori.

Sandokan si era messo a nuotare silenziosamente, tagliando la corrente, che era d’altronde debolissima, senza far rumore. Con frequenti colpi di tallone si teneva ben alto, temendo che qualche spruzzo bagnasse l’esca o la miccia.

Il poluar si trovava a soli quattrocento metri: una distanza derisoria per un uomo dell’arcipelago della Sonda. Nessun nuotatore può competere con un malese ed un bornese della costa. Si può dire che quegli audaci pirati nascono nel mare e che vi muoiono dentro.

Sandokan, di passo in passo che s’accostava al piccolo veliero indiano, diventava più prudente. Non era il timore d’incontrare qualche coccodrillo o qualche squalo d’acqua dolce, bensì il timore che degli uomini vegliassero a bordo e che potessero scorgerlo.

Di quando in quando si fermava per ascoltare, poi rassicurato dal profondo silenzio che regnava sul fiume e sul veliero, riprendeva la sua marcia silenziosa, agitando le braccia e le gambe con somma prudenza e sempre più dolcemente.

A cinquanta passi dal poluar subì un urto. Credette per un istante che qualche sauriano cercasse di assalirlo; trovò invece sotto mano un corpo molle, che lo appestò col suo puzzo nauseante di carogna imputridita.