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Alla conquista di un impero

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Era il principio della jungla umida, il regno dell’acto bâgh beursah (la tigre signora) come l’hanno chiamata i poeti indiani.

Della selvaggina piccola e grossa, spaventata dall’avvicinarsi di quei tre colossi accompagnati da tanta gente armata, balzava di quando in quando fuori da quei bambù, allontanandosi a corsa precipitosa.

Ora erano dei samber, specie di cervi, più grossi di quelli europei, dal pelame bruno violetto sul dorso e bianco argenteo sotto il ventre e la testa armata di corna robuste, che spiccavano dei salti meravigliosi, scomparendo in pochi istanti agli occhi dei cacciatori; ora invece erano dei nilgò, le antilopi indiane, grosse quasi quanto un bue di media statura, di forme però eleganti e fini ed il pelame grigiastro; ora delle bande di cani selvaggi, grossi quanto gli sciacalli ai quali rassomigliano molto nella forma della testa e che sono famosi cacciatori di daini, dei quali ne distruggono un gran numero.

Anche qualche bufalo delle jungle, strappato al suo riposo dal barrire degli elefanti, si scagliava, con impeto furibondo, fuori dalle macchie di bambù, mostrando la sua testaccia corta e quadra, armata di corna ovali e fortemente appiattite, curvantisi all’indietro. Si arrestava qualche momento, ben piantato sulle poderose zampe, guatando cogli occhi iniettati di sangue la carovana, smanioso forse di lanciarsi ad una carica disperata e di far strage di scikari e di valletti, poi s’allontanava a piccolo galoppo, volgendosi di quando in quando indietro e anche soffermandosi come per dire: un bhainsa della jungla non ha paura.

Il sole era prossimo al tramonto e gli elefanti cominciavano a dar segno di stanchezza in causa della pessima natura del suolo che cedeva facilmente sotto i loro larghi piedi, quando Yanez, dall’alto della cassa, al di là d’una piccola jungla formata esclusivamente di piante spinose, vide scintillare una distesa d’acqua.

– Ecco lo stagno della tigre nera, – disse.

Quasi nell’istesso momento una viva agitazione si manifestò fra i cani. Tiravano i guinzagli e latravano furiosamente formando un baccano assordante.

– Che cosa c’è dunque? – chiese il portoghese al mahut.

– I cani hanno fiutata la pista della kala-bâgh, – rispose l’indiano.

– Che sia passata per di qua?

– Certo, sahib. I cani non latrerebbero così.

– E quando passata? Di recente?

– Solo i cani potrebbero saperlo.

– Il tuo elefante non dà alcun segno d’agitazione?

– Nessuno finora.

– Avanzati verso lo stagno. Ne faremo il giro per vedere quale contegno terranno i cani.

– Sì, sahib, – rispose il mahut alzando la sua corta picca armata lateralmente d’un uncino molto acuto.

L’elefante che si era arrestato un momento, riprese il cammino scostando colla sua formidabile tromba i bambù. Era ancora tranquillo, tuttavia doveva essersi accorto anche lui che s’avanzava nel dominio della tigre perché non aveva più il passo lesto come prima.

I cani, sotto una tempesta di frustate, non urlavano più, però di quando in quando tentavano di rompere le funicelle per slanciarsi attraverso le typha.

– Che l’abbiano proprio fiutata la belva? – chiese Yanez, che sembrava inquieto, rivolgendosi verso Tremal-Naik.

– Credo che il mahut non si sia ingannato, – rispose il bengalese. – Per precauzione faremo bene a preparare le carabine.

Si è dato qualche volta che le tigri solitarie invece di fuggire si siano gettate improvvisamente addosso ai cacciatori.

– Approntiamoci, Sandokan. —

La Tigre della Malesia vuotò il suo cibuc e presa la sua carabina a due colpi, montò i grilletti mettendosela poi fra le ginocchia. Yanez e Tremal-Naik lo avevano imitato, poi avevano appoggiato contro l’orlo della cassa tre picche di corta misura che avevano però delle lame piuttosto larghe e coi margini affilatissimi.

– Tu Sandokan, veglia sul mahut, io guardo a destra e tu Tremal-Naik a sinistra, – disse Yanez quando quei preparativi furono terminati. – Conto più su di noi tre che su tutta questa gente.

– E su Kammamuri e sui nostri malesi, – aggiunse la Tigre della Malesia. – Non sono uomini da volgere le spalle nel momento del pericolo. —

Quantunque tutto indicasse che quelle jungle fossero state percorse dalla terribile belva, gli elefanti giunsero senza cattivi incontri sulle rive dello stagno e ne fecero il giro levando solamente alcune coppie di pavoni ed una mezza dozzina di oche selvatiche, grosse quanto quelle europee, col collo invece più lungo, le ali orlate di nero, la testa adorna d’un ciuffo.

Quello stagno non aveva che una circonferenza di cinque o seicento metri e serviva da serbatoio ad alcuni minuscoli torrenti che si perdevano nelle vicine jungle.

Le piante acquatiche, le jhil, che somigliano al loto comune e che producono un grosso tubero assai apprezzato dagli indiani, lo avevano invaso per buona parte.

– Accampiamoci qui, – disse Yanez al mahut.

Gettò la scala e scese coi suoi compagni. Il maggiordomo lo aveva subito raggiunto per attendere i suoi ordini.

– Fa’ alzare la tenda e preparare l’accampamento.

– Sì, mylord.

– Una domanda prima.

– Parla.

– Vi sono altri stagni nei dintorni?

– Nessuno. Non vi è che il fiume, ma è molto lontano ancora.

– Sicché i nilgò ed i bufali sono costretti a venire qui a dissetarsi.

– Ai villaggi non s’avvicinano mai e poi quelle fontane sono troppo frequentate dagli uomini e dalle donne.

– Non mi occorre ora che una buona cena. —

Gli scikari, i valletti ed i servi, aiutati anche dal malesi che erano sotto la direzione di Kammamuri, in meno d’un quarto d’ora prepararono l’accampamento intorno ad un magnifico pipal nim, dal tronco enorme e dal fogliame cupo e fitto, che coi suoi immensi rami lo copriva quasi tutto.

Trattandosi di fermarsi in quel luogo forse parecchi giorni, gli scikari per premunirsi dalle sorprese della terribile kala-bâgh, con dei bambù incrociati avevano formata come una barriera tutta all’intorno, legandoli strettamente.

La tenda, quantunque non fosse proprio necessaria, era stata rizzata contro un albero, ossia quasi nel centro del campo.

Il pranzo, molto abbondante, poiché il babourchi aveva caricato alla lettera di provviste il terzo elefante destinato più al servigi della carovana che ad affrontare la pericolosa bestia, fu subito preparato e anche lestamente divorato dai cacciatori.

– Mylord, – disse il maggiordomo entrando sotto la tenda, dopo che Yanez ed i suoi compagni ebbero finito di mangiare. – Devo far accendere dei fuochi intorno all’accampamento?

– Guardati bene dal farlo, – rispose il portoghese. – Spaventeresti la tigre e allora dove andremo a cercarla? Noi siamo venuti qui per cacciarla e non già per tenerla lontana.

– Può piombare sul campo, mylord.

– E noi saremo pronti a riceverla. Fa’ collocare delle sentinelle dietro la cinta e non preoccuparti d’altro. Hai del grasso tu?

– Del ghi(burro chiarificato) che potrà servire ugualmente.

– E delle scatole di latta?

– Sì, quelle della carne conservata per te e pei tuoi compagni.

– Riempiene tre o quattro di burro, mettici dentro un pezzo di tela od una funicella, falle accendere e collocale intorno all’accampamento, alla distanza di tre o quattrocento passi.

– Io farò quello che vorrai.

– Che cosa vuoi fare con quelle scatole Yanez? – chiese la Tigre della Malesia quando il maggiordomo si fu allontanato.

– Attiriamo la bâgh, – dissero Tremal-Naik ed il portoghese.

– Ah i furbi!

– L’odore del grasso o del burro si espande a grandi distanze e giungerà alle nari della tigre, – continuò Tremal-Naik. – Facevo così quand’ero il cacciatore della jungla nera e le belve giungevano sempre ed anche in buon numero.

– Amici, prendiamo le nostre armi ed andiamo a imboscarci fuori del campo, – disse Yanez. – Io sono certo che quella bestiaccia cadrà questa notte sotto i nostri colpi.

– Sono pronto, – disse la Tigre della Malesia.

Presero le loro carabine e le munizioni, si passarono nella cintura i kriss che sapevano, i due pirati specialmente, maneggiare meglio di qualunque altro e lasciarono la tenda.

– Tu occupati dell’accampamento e fidati più dei miei uomini che dei tuoi scikari, – disse Yanez al maggiordomo che era ritornato.

– E tu, mylord, dove vai? – chiese l’indiano con stupore.

– Noi andiamo a scovare la kala-bâgh.

– Di notte!

– Non abbiamo paura, noi. Addio: presto udrai le nostre carabine. —

Avvertirono anche Kammamuri di vegliare attentamente, poi i tre valorosi uscirono dal campo, tranquilli come se andassero a cacciare dei beccaccini.

Era una di quelle splendide notti delle quali se ne vedono solamente nell’India.

Le stelle fiorivano nel cielo purissimo, sgombro di qualsiasi nube e la luna s’alzava al di sopra delle cupe foreste che s’estendevano al di là del Brahmaputra, proiettando i suoi raggi azzurrini sulla jungla che circondava lo stagno.

Yanez ed i suoi due compagni, oltrepassate le scatole piene di burro chiarificato che bruciavano crepitando e lanciando di quando in quando sprazzi di luce vivissima, s’addentrarono fra i canneti ed i cespugli della jungla finché ebbero trovato un piccolo spazio scoperto, una minuscola radura dove non crescevano che pochi mindi.

– Ecco un magnifico posto, – disse il portoghese, deponendo la carabina. – Di qui possiamo sorvegliare l’accampamento e anche la jungla. Si direbbe che le piante non lo hanno invaso per far piacere a noi.

– È vero, – rispose Sandokan.

– Taci! – disse in quell’istante Tremal-Naik.

– Che cosa hai udito? —

La risposta non la diede il bengalese. Fu un hu-ab terribile, formidabile, che rintronò nella notte tranquilla come un colpo di tuono e che scosse perfino le salde fibre della Tigre della Malesia.

 

La risposta l’aveva data la kala-bâgh!

9. Il colpo di grazia di Yanez

Le tre più formidabili potenze carnivore, si sono divise il mondo in modo da non incontrarsi quasi mai sui loro passi: il leone si è riservata l’Africa; l’orso, che diventa molto sovente un carnivoro terribile, l’Europa e l’America settentrionale dove impera fra le alte montagne rocciose sotto il nome di grizly; la tigre l’Asia e anche buona parte delle grandi isole che appartengono all’Oceania.

Sono circa seicento milioni di abitanti che si è riservata la acto bâgh-beursah, ossia la tigre signora, come la chiamano i poeti indiani; e quali tributi preleva ogni anno su quei disgraziati! Nella sola India non meno di diecimila persone trovano la loro tomba negli intestini del feroce carnivoro.

I rettili, che sono molto più numerosi in quella vasta penisola, non ne prelevano che la metà.

Vi sono tigri in Persia, nell’Indo-Cina, a Sumatra, a Giava, a Borneo, nella penisola Malese, anche nella Nuova Guinea, persino nella Mongolia e nella Manciuria; ma nessuna eguaglia per bellezza, per astuzia, per ferocia, le tigri dell’India, e perciò forse sono state chiamate tigri reali.

Tutte le altre tigri sono infatti inferiori a quelle che abitano le jungle indostane. Quelle delle isole malesi sono meno belle, più basse di zampe, più tozze e quindi molto meno eleganti. Anche il loro pelame, quantunque più spesso e più lungo ed egualmente rigato, non soddisfa.

Hanno delle basette meno sviluppate, i ciuffi del pelo del ventre e delle cosce meno abbondanti, gli occhi più falsi, più maligni, la lingua sempre pendente come fosse perennemente assetata di sangue, la coda bassa, l’incedere ruvido. Sono i contadini della foresta.

La tigre indiana invece ha uno sviluppo maggiore, più grazia, più eleganza pur essendo egualmente feroce, anzi forse più carnivora delle altre.

Come statura supera tutte le altre, anche quelle della Cina che assaltano, con coraggio straordinario, i campagnuoli delle immense pianure della Manciuria.

Una bella tigre indiana non misura mai, dalla punta del naso alla estremità della coda, meno di due metri e cinquanta centimetri, però ve ne sono di quelle che raggiungono perfino i tre metri.

Dalla base delle loro zampe anteriori, posate a piatto, fino all’orecchio, corre un metro, e colla loro impronta sul suolo coprono un circolo di venti centimetri di diametro.

La loro testa non è molto sviluppata in confronto a quella del leone e delle pantere, nondimeno le loro mascelle sono più larghe, i denti più lunghi e più formidabili, gli artigli più duri e più tremendi. Il petto invece è più ristretto, e come incollatura lo ha maggiore il giaguaro americano, ciò che gli permette di trascinare, senza soverchia fatica, perfino una mucca.

Una tigre però, nel suo pieno sviluppo, può saltare una cinta di tre e anche di quattro metri, portandosi in bocca un vitello ben grosso.

La sua astuzia è estrema. Il leone, conscio delle proprie forze, quando caccia o si prepara ad assalire, annuncia la sua presenza con un ruggito formidabile, che assomiglia ad un colpo di tuono. La tigre invece di rado fa udire la sua voce prima dell’assalto.

Al pari della pantera si tiene imboscata, per ore ed ore, aspettando pazientemente la preda e non lancia il suo urrah, se non quando tuffa il suo muso fra gl’intestini della sua vittima, e anche non sempre.

L’urlo rauco udito da Yanez e dai suoi compagni annunciava che la kala-bâgh si era già guadagnata la cena o che aveva fiutati i cacciatori?

– Che cosa ne dici tu, Tremal-Naik? – aveva chiesto il portoghese al suo amico indiano, che stava ascoltando. – Tu le conosci meglio di noi queste bestie pericolose.

– Potrò ingannarmi – aveva risposto il bengalese – ma questo deve essere un urlo di delusione. Quando una tigre atterra la preda, lancia un formidabile a-o-ung e non già un hu-ab.

Le è andato male il colpo su qualche nilgò o su qualche bufalo, ne sono sicuro.

– Allora verrà a cercarci, – disse Sandokan.

– Sì, se vorrà guadagnarsi la cena, – rispose Tremal-Naik.

– Con un piatto forte a base di piombo, – disse Yanez.

– Se saremo capaci di offrirglielo.

– Lo dubiti, tu?

– Oh no!

– I miei nervi sono tranquillissimi.

– Ed anche i miei – aggiunse la Tigre della Malesia.

– State zitti.

– S’avvicina? – chiesero ad una voce Sandokan e Yanez prendendo le carabine e sdraiandosi al suolo.

– Non so, ho udito tuttavia un lieve rumore fra quella macchia di bambù che si alza dinanzi a noi.

– Che cerchi sorprenderci? – chiese Sandokan.

– È probabile, – rispose Tremal-Naik.

– La faccenda diventa seria. Prepariamoci a ricevere degnamente la signora tigre, – disse Sandokan.

Un altro hu-ab rintronò in quel momento e molto più sonoro e più vicino del primo, seguìto subito da un cupo a-o-ung prolungato, d’un effetto sinistro.

– Quella tigre deve avere veramente nel suo corpo una delle sette anime di Kalì – disse Yanez sforzandosi di sorridere. – Non ho mai veduto una tigre così audace da lanciare, in piena notte, quasi sul viso dei cacciatori, il suo grido di guerra.

– È una solitaria – rispose Tremal-Naik – ed ha ormai fiutato l’odore della carne fresca e soprattutto umana.

– Per Giove! Non saranno i miei polpacci che mangerà questa sera.

– Prendiamo posizione, – disse Sandokan. – Tu Yanez collocati alla mia destra a quindici o venti passi di distanza e tu Tremal-Naik alla mia sinistra, un po’ più innanzi. Cerchiamo di attirarla e di avvolgerla.

Attenti a non farvi sorprendere.

– Non temere Sandokan, – disse il bengalese. – Io sono perfettamente tranquillo.

– Ed io sono dispiacentissimo di non poter finire la mia sigaretta, – rispose Yanez. – Mi rifarò più tardi. —

Mentre Sandokan indietreggiava di alcuni passi, il portoghese e Tremal-Naik si scostarono, uno a destra e l’altro a sinistra, raggiungendo i margini della piccola radura e coricandosi dietro i bambù spinosi.

Dopo il secondo urlo, la tigre non si era fatta più udire, però i tre cacciatori erano più che certi che si avanzava silenziosamente attraverso alla jungla, sperando di sorprenderli.

Mentre Yanez e Tremal-Naik stavano stesi bocconi, Sandokan si era messo in ginocchio, tenendo la carabina bassa onde la belva non potesse subito scorgerla. Gli occhi del terribile uomo scrutavano minuziosamente le alte canne della jungla per cercar di scoprire da quale parte poteva mostrarsi la ferocissima belva.

Un gran silenzio regnava. Non si udivano né urla di sciacalli, né ululati di cani selvaggi. Il grido di guerra della kala-bâgh doveva aver fatto fuggire tutti gli animali notturni.

Solo di quando in quando passava sulla jungla come un fremito leggero, dovuto a qualche soffio d’aria, poi la calma ritornava.

Passarono alcuni minuti d’angosciosa aspettativa pei tre cacciatori. Quantunque fossero coraggiosi fino alla temerità e già abituati a misurarsi con quei formidabili predatori, non potevano sottrarsi completamente ad un certo senso d’irrequietezza.

Yanez masticava nervosamente la sua sigaretta che aveva lasciata spegnere, Sandokan tormentava i grilletti della carabina e Tremal-Naik non riusciva a rimanere immobile.

Ad un tratto gli orecchi acutissimi della Tigre della Malesia percepirono un leggerissimo rumore, come un fruscio. Pareva che qualche animale scivolasse cautamente fra i bambù.

– L’ho dinanzi, – mormorò Sandokan.

In quell’istante un soffio d’aria passò sulla jungla e gli portò al naso quell’odore particolare e sgradevole che emanano tutte le belve feroci.

– Mi spia, – sussurrò il pirata. – Purché non piombi invece su Yanez e su Tremal-Naik, che mi pare non si siano ancora accorti della sua presenza. —

Gettò sui due compagni un rapido sguardo e li vide immobili sempre coricati.

D’improvviso i bambù che gli stavano dinanzi s’aprirono bruscamente ed egli scorse la tigre ritta sulle zampe posteriori, che lo saettava coi suoi occhi fosforescenti.

Sandokan alzò rapidamente la carabina, mirò un istante e lasciò partire, uno dietro l’altro, i due colpi che rintronarono formidabilmente nel silenzio della notte.

La kala-bâgh mandò un ululato spaventevole, che fu seguito da altri quattro spari, fece due salti in aria, poi scomparve in mezzo alla jungla con un terzo salto.

– Colpita! – aveva gridato Yanez, correndo verso Sandokan, che ricaricava precipitosamente la carabina.

– Sì! Sì, toccata! – aveva risposto Tremal-Naik, balzando in piedi.

– Vorrei però averla veduta a cadere e non rialzarsi più, – disse Sandokan. – Che abbia delle palle in corpo ne sono certo, tuttavia non possiamo dire di avere la sua pelle.

– La troveremo morta nel suo covo, – disse Tremal-Naik. – Se le ferite non fossero gravissime si sarebbe gettata contro di noi. Se è fuggita è segno che non si sentiva più in grado di affrontarci.

– Che le abbiamo fracassate le zampe anteriori? – chiese Yanez. – Io ho mirato all’altezza del collo.

– È probabile, – rispose Tremal-Naik.

– Non credi che ritorni?

– L’aspetteresti inutilmente.

– Andremo a cercarla domani.

– E le daremo il colpo di grazia, se sarà ancora viva, – aggiunse Sandokan. – Orsù torniamo al campo. Alcune ore di sonno non guasteranno. —

Stettero qualche minuto in ascolto, poi non udendo alcun rumore lasciarono la radura riattraversando l’ultimo tratto di jungla che li separava dall’accampamento.

Fuori della cinta incontrarono Kammamuri coi sei malesi.

– Andate a dormire, – disse loro Sandokan. – L’abbiamo ferita e all’alba andremo a scovarla.

Avvertite il chitmudgar (maggiordomo) che faccia preparare per tempo gli elefanti. —

Tutti gli indiani erano in piedi, colle armi in mano, temendo che i cacciatori avessero mancata la tigre e che questa assalisse l’accampamento.

Quando però udirono che era stata gravemente ferita, tornarono a coricarsi.

I tre amici si cacciarono sotto la tenda, accettarono un bicchiere di birra, che il maggiordomo aveva premurosamente offerto e si gettarono senza spogliarsi sui materassini, mettendosi a fianco le carabine.

Il loro sonno non durò che poche ore. I barriti degli elefanti e le urla dei cani li avvertirono che tutto era pronto per cominciare la battuta.

– Eccoli ridiventati coraggiosi, – disse Yanez, vedendo gli scikari schierati dinanzi ai colossali animali e pieni di ardore.

Vuotarono una tazza di tè caldissimo e presero posto sui loro elefanti.

– All right! – comandò Yanez quando vide che tutti erano pronti.

I tre pachidermi si misero subito in movimento, preceduti dagli scikari e fiancheggiati dai behras.

Appena fuori dalla cinta i cani furono liberati e si slanciarono in tutte le direzioni abbaiando con furore.

Cominciava appena allora a rischiararsi il cielo. Gli astri si smorzavano a poco a poco ed una luce rossastra, che diventava rapidamente più intensa, saliva dalla parte d’oriente.

Una fresca brezza spirava dal non lontano Brahmaputra, piegando ad intervalli i bambù, che formavano la jungla.

Dinanzi ai cani che si gettavano furiosamente attraverso le piante con grande coraggio, animali e volatili fuggivano precipitosamente, indizio sicuro che la terribile kala-bâgh non imperava più su quei dintorni.

Degli axis, che durante la notte si erano forse abbeverati allo stagno, scappavano a tutte gambe. Erano gli eleganti cervi indiani, somiglianti ai daini, dal pelame fulvo, macchiato di bianco con una certa regolarità.

Talvolta invece erano stormi di kirrik, bellissimi uccelli dalle penne nere e lucentissime, bianche solamente sul collo e sul petto, con un piccolo ciuffo di penne sulla testa e la coda molto folta ed allungata.

– O la tigre è morta o sta agonizzando nella sua tana, – disse Tremal-Naik, a cui nulla sfuggiva. – Quegli axis e questi uccelli non si troverebbero qui, se quella brutta bestia battesse ancora la jungla.

Questo è un buon segno.

– Tu che hai soggiornato molti anni nelle Sunderbunds ne devi sapere più di noi, – disse Yanez. – Io comincio a sperare d’offrire a quel briccone di rajah la pelle della kala-bâgh.

– Ed io ne sono sicuro, – aggiunse Sandokan.

– Il tuo principe sarà così pienamente soddisfatto, – disse Tremal-Naik. – La pietra di Salagraman prima, poi la pelle della tigre che gli ha divorato i figli.

Che cosa potrebbe desiderare di più? Tu, Yanez, sei un uomo veramente fortunato.

– L’impresa non è ancora finita, amico. Anzi è ancora da cominciare.

– Che cosa vorrai offrirgli ancora?

 

– Non lo so nemmeno io per ora.

– Il ministro?

– Oh! Quello rimarrà prigionero finché Surama sarà proclamata principessa dell’Assam.

Quello guasterebbe troppo le mie faccende.

– E sono così numerose, è vero, Yanez? – disse Sandokan.

– Non poche di certo… Aho! Che cos’hanno i cani? —

Dei latrati furiosi s’alzavano fra i bambù ed i cespugli spinosi. Si vedevano i botoli a slanciarsi animosamente innanzi e poi ritornare precipitosamente verso gli elefanti, i quali mostravano una certa irrequietezza alzando ed abbassando alternamente le trombe e soffiando vigorosamente.

Anche gli scikari si erano fermati, dubbiosi fra l’andare innanzi o mettersi sotto la protezione dei pachidermi.

– Ehi, mahut, che cosa c’è dunque? – chiese Yanez, afferrando la carabina.

– I cani hanno fiutata la kala-bâgh, – rispose il conduttore.

– Anche il tuo elefante?

– Sì perché non osa più andare innanzi.

– Allora la tigre è vicina.

– Sì, sahib.

– Fermati qui e noi scendiamo. —

Gettarono la scala di corda, presero le loro armi e scesero.

– Mylord! – gridò il maggiordomo. – Dove vai?

– A finire la kala-bâgh, – rispose tranquillamente il portoghese. – Fa’ ritirare i tuoi scikari. Non mi sono necessari. —

Quell’ordine non era necessario, poiché i battitori, spaventati dai latrati acuti dei cani, che annunciavano la presenza della fiera, si ripiegavano già precipitosamente, onde non provare la potenza di quelle unghie.

– Questi indiani valgono ben poco, – disse Sandokan. – Potevano rimanersene nel palazzo del principe.

Se non vi fossero gli ufficiali inglesi, l’India sarebbe a quest’ora quasi inabitabile.

– Badate alle spine, – disse in quel momento Yanez. – Lasceremo qui mezzi dei nostri abiti. —

La jungla in quel luogo era foltissima e non facile a superarsi. Macchioni di bambù spinosi si stringevano gli uni addosso agli altri.

La kala-bâgh si era scelta un buon rifugio, se si trovava veramente colà.

– Lascia a me il primo posto, – disse Sandokan a Yanez.

– No, amico – rispose il portoghese. – Vi sono troppi occhi fissi su di me ed il colpo di grazia deve darlo mylord, se vuol diventare celebre.

– Hai ragione, – disse Sandokan, ridendo. – Noi non dobbiamo figurare che in seconda linea. —

Dei guaiti lamentevoli si erano alzati fra una macchia che cresceva venti passi più innanzi, ed i cani davano indietro. La tigre doveva averne sventrati alcuni.

– È nascosta là, – disse Yanez, armando la carabina.

– Potremo passare? – chiese Sandokan.

– Mi pare che vi sia un’apertura sulla nostra destra, – disse Tremal-Naik. – Deve averla fatta la tigre.

– Sotto, Yanez. Con sei colpi possiamo affrontare anche quattro belve, – disse Sandokan.

Il portoghese girò intorno alla macchia e trovata un’apertura vi si cacciò dentro, mentre i cani per la seconda volta tornavano ad indietreggiare, latrando a piena gola.

Percorsi quindici passi, Yanez si fermò e togliendosi colla sinistra il cappello, disse con voce ironica:

– Vi saluto, acto bâgh beursah! —

Un sordo mugolìo fu la risposta.

La tigre era dinanzi al portoghese, sdraiata su un ammasso di foglie secche, ormai impotente di nuocere.

Aveva tutto il pelame del petto coperto di sangue e le due zampe anteriori fracassate.

Vedendo comparire quei tre uomini, fece un supremo sforzo per rimettersi in piedi, ma cadde subito lasciandosi sfuggire dalle fauci spalancate un urlo di furore.

– Abbiamo pronunciata la tua sentenza – disse Yanez, che si teneva a soli dieci passi dalla belva. – Tu sei stata accusata di assassinio e d’antropofagia, perciò i signori giurati sono stati inflessibili e tu devi ora pagare il fio dei tuoi delitti e regalare la tua pelle a S. A. il rajah dell’Assam, per compensarlo dei sudditi che tu gli hai divorati. Chiudi gli occhi. —

La tigre invece di obbedire fece un nuovo tentativo per alzarsi ed infatti vi riuscì. Yanez però l’aveva ormai presa di mira.

Due colpi di carabina rimbombarono formando quasi una sola detonazione, e la kala-bâgh ricadde fulminata con due palle nel cervello.

– Giustizia è fatta, – disse Sandokan.

– Avanti gli scikari! – gridò Yanez. – La tigre è morta. —

I battitori costruirono rapidamente una specie di barella, incrociando e legando dei solidi bambù e caricarono la belva, non senza però una certa apprensione.

– Per Giove! – esclamò Yanez, che si era avvicinato per poterla meglio esaminare. – Non ho mai veduto una tigre così grossa.

– Si è ben nutrita di carne umana, – disse Tremal-Naik.

– Il pelame tuttavia non è veramente splendido. Si direbbe che questa bestia soffriva la rogna.

– Tutte le tigri che si nutrono esclusivamente di carne umana, perdono la loro bellezza primiera ed il loro pelame a poco a poco si guasta.

– Che sia una specie di lebbra? – chiese Sandokan.

– Può darsi, – disse Yanez. – Tu sai che anche i dayachi dell’interno del Borneo, che sono pure antropofagi, vanno soggetti a quella malattia quando abusano troppo di carne umana.

– L’ho notato anch’io, Yanez. Comunque sia è sempre una bella bestiaccia.

Giacché la nostra missione è finita, affrettiamoci a ritornare a Gauhati. Abbiamo più da fare laggiù che qui. —

Ritornarono al loro elefante, fra le acclamazioni entusiastiche del maggiordomo, degli scikari e dei conduttori di cani e fecero ritorno all’accampamento.

Divorata la colazione che i servi avevano già allestita e fatta una fumata, la carovana levò il campo facendo ritorno alla capitale dell’Assam.