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Attraverso l’Atlantico in pallone

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Capitolo 7. In mezzo all’Atlantico

L’Oceano Atlantico, che gli arditi aeronauti stavano per attraversare, è il più noto ed il più frequentato di tutti, quantunque sia stato interamente percorso solamente dopo la scoperta dell’America.

La sua esistenza era già nota agli antichi; ma fino al quindicesimo secolo, anzi più tardi, se ne ignoravano i confini. Oggi si conoscono esattamente la sua superficie, che è stata calcolata di 79.721.274 chilometri quadrati, la sua lunghezza che tocca dal nord al sud i 13.335 chilometri e le sue maggiori larghezze, che variano fra i 3500 e i 3600 chilometri, ed anche le sue profondità.

Anticamente si credeva che il fondo degli oceani, date le loro immense estensioni, fossero dappertutto uguale. Gli scandagli eseguiti con grandi fatiche, ma con molte cure, dalle navi da guerra delle nazioni europee ed americane hanno invece dimostrato che quei fondi hanno pianure, montagne ed abissi come tutti i continenti.

L’Atlantico specialmente non ha un fondo regolare: tutt’altro. Generalmente le valli di questo oceano diventano più profonde di mano in mano che si allontanano dai continenti; ma esso ha dei pianori che conservano la loro profondità per parecchie centinaia di miglia, anzi per delle migliaia. La parte centrale del bacino settentrionale, per esempio, è un immenso pianoro di forma irregolare, che si mantiene a circa 2000 braccia sotto la superficie delle acque e si alza lentamente verso le Azzorre, che possono chiamarsi il punto culminante, e verso le Isole Britanniche, le quali si trovano appoggiate sopra un banco che ha solo cento braccia di profondità; il che giustamente fa supporre che quel banco, o piattaforma, non sia altro che una parte sommersa dell’Europa. Ma se l’Atlantico ha grandi pianori che si mantengono a una costante profondità, ha più baratri immensi, spaventevoli, sia nel bacino settentrionale sia in quello meridionale. Fra le Isole Britanniche e l’Islanda ne fu misurato uno che diede una larghezza di 1200 miglia e una profondità di tre chilometri; a 130 chilometri da Porto Rico, un altro diede 8341 metri; un terzo a 0° 11, di latitudine sud, verso il Capo Verde, diede 7370 metri; un quarto, fra Madera e le Canarie, diede 5000 metri, e un quinto, fra le Azzorre e la costa del Portogallo, altrettanti.

Quale terribile fine per gli aeronauti, se l’aerostato fosse scoppiato bruscamente o si fosse lacerato sopra uno di quegli immensi baratri!

Fortunatamente quel magnifico vascello aereo, fabbricato dall’ingegnere con cura strema, dotato di uria forza ascensionale così potente ed equilibrato come era, si comportava quanto e forse meglio di un vascello galleggiante sull’acqua. Spinto dal vento, che si manteneva costantemente favorevole, soffiando sempre dal sud-ovest, si librava ancora alla stessa altezza: però fra breve avrebbe dovuto abbassarsi a causa del restringimento dell’idrogeno, che è molto sensibile ai cambiamenti di temperatura.

L’oceano aveva assunto una tinta cupa, e non si udivano che i suoi brontolii. Pareva che sotto l’aerostato si stendesse un immenso velo nerastro, o meglio uno strato di veli, il quale lasciasse trasparire, di quando in quando, dei vaghi riflessi, dovuti alle incerte luci degli astri.

L’aria era di una purezza ammirabile, d’una trasparenza cristallina, ed in alto scintillavano a milione le stelle, le quali parevano seguissero il corso del vascello volante. All’orizzonte, una tinta lievemente argentea annunciava il prossimo spuntare dell’astro notturno e si rifletteva sulle lontane acque dell’oceano, che prendevano, in quella direzione, una tinta madreperlacea d’un effetto ammirabile, veduta da quell’altezza. O’Donnell, sorpreso e stupito, guardava quella scena senza parlare, curvo sulla poppa del battello d’alluminio; Kelly continuava le sue osservazioni e guardava particolarmente i suoi barometri per rendersi conto della discesa dell’aerostato; il negro Simone, più che mai spaventato, batteva i denti per il freddo, che diventava acuto, e per il terrore, tenendosi sempre aggrappato, con la forza della disperazione, alle corde di sostegno.

“Tremila metri” disse ad un tratto l’ingegnere.

“E scendiamo ancora?”

“Sempre.”

“Che il nostro peso sia soverchio?”

“No: è l’idrogeno che si restringe per il freddo.”

“Che sfugga invece da qualche apertura?”

“Sentite odore di gas?”

“No.”

“Tutto dunque va bene.”

“Ma fino a quando scenderemo?”

“Lo sapremo più tardi.”

“Finiremo per toccare l’oceano?”

“Forse nelle notti seguenti; ma ora no: la forza ascensionale del nostro aerostato è per ora troppo potente. Oh! Oh!”

“Cosa avete?”

L’ingegnere non rispose. I suoi occhi si erano fissati sulle due bussole, e la sua fronte si era corrugata.

“Che la corrente da me studiata, e che soffiava costantemente dal sud-ovest verso il nord-est, finisca qui?” mormorò. “Ciò sarebbe grave.”

“Ma che cosa avete?” insistette l’irlandese. “Ho da darvi una seria comunicazione, O’Donnell.” rispose l’ingegnere. “Noi abbiamo virato di bordo, come dicono i marinai.”

“E cosa importa?”

“Voi sapete dove ci spingerà ora il vento?”

“Io no.”

“Intanto ci riconduce verso l’America.”

“In direzione del banco!”

“No: verso il nord-ovest, dritti allo stretto di Davis, fra la Groenlandia ed il Labrador.”

“Brutta scoperta, in fede mia! Cosa pensate di fare? Mi spiacerebbe assai ritornare nel Canada.”

“Se ci trovassimo vicini alla superficie dell’oceano, getterei le mie ancore: ma siamo tanto alti che tutte le nostre funi riunite non toccherebbero l’acqua.”

“E non ci si può abbassare di più?”

“Sì, ma dovremmo sacrificare una parte del nostro gas, e capirete che per noi è troppo prezioso per lasciarlo fuggire.”

“A quale distanza ci troviamo dal banco di Terranova”

“A centosettanta miglia.”

“E ritorniamo?”

“Con una velocità di sessanta miglia all’ora. Continuando in questa nuova direzione, avvisteremo il Labrador fra quattro o cinque ore.”

“Dannato vento! Speriamo che cambi. Mister Kelly, quantunque non mi dispiaccia di andare al polo invece che in Europa. Sarebbe una magnifica scoperta.”

“Che per il momento lascio ad altri, O’Donnell, non avendo portato con me vesti adatte a quei terribili freddi, né una cucina portatile per farci qualche bevanda calda. Se il vento ci spinge in quella direzione, scenderemo alla prima terra e riprenderemo il tentativo più tardi, su un’altra costa.”

“Mi spiacerebbe assai.”

“E anche a me. Speriamo però che la corrente si ristabilisca col levar del sole.”

“Che la vostra corrente si mantenga a 3500 metri?”

“Può essere che al di sotto di quell’altezza ne esista un’altra, quella che ora ci porta al nord-ovest.”

“Gettiamo zavorra e innalziamoci.”

“Sarebbe una grande imprudenza, O’Donnell: ci priveremmo di un peso che più tardi potrebbe esserci di estrema necessità, e quando il sole dilaterà il nostro idrogeno, noi saliremmo a tale altezza da non poter resistere. A 8000 metri la rarefazione dell’aria è mortale, o poco meno; a 9000 nessuno di noi resisterebbe.”

“Lasciamo dunque che il vento ci porti al nord-ovest, e domani vedremo.”

“Continuiamo a scendere?”

“Sì,” rispose l’ingegnere. “E da questa discesa spero assai di fermare l’aerostato. Eccoci già a 2500 metri, e non ci arrestiamo ancora: l’idrogeno si raffredda rapidamente: tanto meglio!”

Infatti il pallone, o meglio i due palloni, a causa dell’umidità della notte, che li rendeva più pesanti, e del freddo acuto che restringeva l’idrogeno, calava a vista d’occhio, facendo dei bruschi salti. Si arrestava un momento, poi scendeva, come se le sue forze venissero improvvisamente meno e l’idrogeno perdesse la sua potenza ascensionale, poi tornava a fermarsi per riprendere, qualche minuto dopo, le sue ricadute.

O’Donnell, quantunque avesse grande fiducia in quel vascello aereo e nel suo inventore, cominciava a diventare inquieto. In quanto a quel poltrone di Simone, ad ogni ricaduta mandava sordi gemiti e guardava con occhi smarriti la cupa superficie dell’oceano, che si avvicinava rapidamente. Quel povero diavolo si riteneva ormai perduto ed aspettava, con inesprimibile angoscia, il momento in cui l’aerostato sarebbe stato inghiottito.

L’ingegnere invece era tranquillo, anzi benediceva in cuor suo quell’umidità e quel freddo, che gli permettevano di gettare le sue ancore e arrestare quella marcia verso regioni affatto opposte a quelle che sperava di raggiungere.

Alle 9 di sera l’aerostato non era che a mille metri dall’oceano. Si udivano distintamente i sordi muggiti delle cupe ondate, e si distingueva nettamente la spuma che le copriva.

Alle 10 era a 500 e alle 11 e un quarto a 300. La discesa si arrestò: l’equilibrio si era ristabilito.

“Giù le ancore” disse l’ingegnere.

“Avremo funi sufficienti?” chiese O’Donnell, respirando liberamente.

“Unendo le tre funi delle guide-ropes e tutte le altre, ne avremo a esuberanza.”

“Non scenderà più l’aerostato?”

“Non credo: anzi lo alleggeriremo d’un peso notevole e lo costringeremo, per di più, a fermarsi. Aiutatemi, O’Donnell.”

I due grandi coni d’alluminio, della capacità totale di quattrocentosessanta litri, vennero trasportati uno a prua e l’altro a poppa e legati alle lunghe corde, che erano state rapidamente annodate.

L’ingegnere e l’irlandese, aiutati da Simone che si era finalmente deciso a muoversi, calarono nell’oceano i due grandi coni, i quali tosto si capovolsero, riempiendosi d’acqua.

L’aerostato scaricato di quel peso, tese subito le due corde e interruppe bruscamente la sua fuga verso il nord-ovest. I due immensi fusi virarono di bordo e si piegarono verso la direzione del vento; ma i due coni tennero fermo, opponendo una resistenza incredibile.

 

Per alcuni istanti il vascello aereo rimase perfettamente immobile; poi il vento, che urtava con violenza le sue immense superfici, si diede a trascinarlo nella direzione primitiva. Ma la velocità della marcia era minima: l’ingegnere constatò che l’aerostato percorreva a mala pena tre miglia all’ora.

“Questo risultato sorpassa le mie previsioni” disse. “In una sola ora di buon vento possiamo riguadagnare ciò che perdiamo in otto o dieci ore di marcia contraria. Volete ora un consiglio, O’Donnell?”

“Parlate, Mister Kelly.”

“Avvolgetevi in una grossa coperta di lana e dormite, finché Simone veglia. Non corriamo alcun pericolo e possiamo chiudere gli occhi in attesa del nostro quarto di guardia.”

“Mi terrete compagnia?”

“Fino alla mezzanotte. Alle quattro del mattino voi mi sostituirete.”

“Non domando di più. Buona notte, Mister Kelly, e se vi occorre qualche cosa, tiratemi le gambe senza riguardo, o fatemele tirare da Simone.”

I due aeronauti si avvolsero nelle loro coperte per ripararsi dall’umidità e dal freddo della notte e s’addormentarono profondamente, mentre il Washington filava lentamente verso nord-ovest, trascinando le due ancore, che fendevano le onde con sordi fragori.

A mezzanotte Simone, che a poco a poco riprendeva coraggio e che non aveva osato chiudere gli occhi per tema di svegliarsi in fondo all’oceano, chiamò l’ingegnere.

“Nulla di nuovo?”chiese questi al negro.

“Nulla, massa” rispose l’interrogato.

“Andiamo sempre verso il nord-ovest?”

“Sì.”

“Va a dormire, e non fare brutti sogni.”

Si sedette a poppa del battello, accese una sigaretta e gettò uno sguardo sull’oceano, che brontolava a meno di 250 metri di distanza, mentre il raffreddamento dell’idrogeno continuava con l’abbassarsi della temperatura notturna.

Nessun lume si scorgeva sulla nera superficie dell’Atlantico.

Solo all’orizzonte le acque riflettevano il primo quarto della luna, tingendosi di una luce biancastra, e la luce rossastra od azzurrognola delle stelle prossime al tramonto.

Il silenzio era solamente rotto dal fragore prodotto dalle ancore, che cercavano di opporre resistenza al vento, il quale spingeva l’aerostato e dai brontolii sordi delle onde.

Alzò il capo e vide i due immensi fusi dondolarsi lentamente con le punte volte verso il nord-ovest. Il vento produceva dello pieghe sulla loro superficie, ingolfandosi nella seta; ma era debole e non poteva produrre alcun guasto. L’ingegnere avrebbe potuto eliminarle, gonfiando i due palloncini con la piccola pompa premente, ma non essendovi alcun pericolo, sarebbe stata una fatica vana. Più tardi, il calore solare si sarebbe incaricato di rendere lisce quelle superfici.

L’ingegnere continuò a fumare tranquillamente, dolcemente cullato dalla navicella, che il vento faceva oscillare, in attesa di venire sostituito dall’irlandese, il quale russava sonoramente sotto un banco, strettamente avvolto nella sua coperta di lana.

Già verso l’oriente una luce incerta cominciava ad apparire, tingendo il cielo di riflessi madreperlacei e facendo impallidire gli astri, quando l’ingegnere fu bruscamente strappato dalle sue meditazioni da un lontano muggito, che pareva si avvicinasse rapidamente.

Si alzò e guardò sotto di sé; ma nulla scorse sulla nera superficie dell’oceano. Girò intorno lo sguardo e vide, verso l’ovest, tre punti luminosi solcare l’orizzonte con fantastica celerità.

“Uno steamer,” mormorò “una nave che va in Europa, o che si dirige verso gli stabilimenti della baia di Hudson.”

Ad un tratto mandò un grido. Una fiamma rossa era balenata fra quei tre punti luminosi, seguita poco dopo da una detonazione, e un proiettile era passato, fischiando, fra i due aerostati, ricadendo in mare con un sordo tonfo.

Capitolo 8. Le grandi ascensioni

Al grido dell’ingegnere e alla detonazione, O’Donnell e il negro, svegliatisi bruscamente, erano balzati in piedi, credendo che l’aerostato fosse scoppiato e che la navicella precipitasse fra le spumanti onde dell’Atlantico.

“Gran Dio!” esclamò l’irlandese. “Che cosa succede, Mister Kelly?”

“Alle ancore e senza perdere tempo!” disse l’ingegnere.

“Precipitiamo?”

“No: ci prendono a cannonate”

“Ancora?”

“Silenzio: afferrate il gherlino che scorre sulle guide-ropes e rovesciate il cono di prua, mentre io rovescio quello di poppa, e tu, Simone, preparati a gettare un sacco di zavorra. Presto, o una palla attraverserà qualche pallone.”

L’irlandese, che aveva compreso il pericolo gravissimo che correvano, afferrò la funicella che scendeva assieme alla corda-guida e che si univa all’estremità del cono, e operò una trazione energica, mentre l’ingegnere, dal canto suo, faceva altrettanto. Le due ancore si rovesciarono, scaricandosi dei quattrocento litri che contenevano: peso enorme, che l’aerostato non sarebbe stato capace di sollevare, se non gettando altrettanta zavorra.

Il Washington, alleggerito da quel peso considerevole, fece un brusco salto in aria, rovesciando i tre aeronauti, che non avevano avuto il tempo di aggrapparsi alle corde. Quasi nello stesso momento un colpo di cannone tuonò sull’oceano, e un obice passò, fischiando, a tre soli metri dalla murata di babordo della navicella, scoppiando seicento passi più innanzi.

“Canaglie!” urlò O’Donnell. “Se avessi una dozzina di granate, vorrei rasare la vostra nave come un pontone.”

L’aerostato continuava a salire con grande rapidità. Passò i mille metri, poi i duemila, e si arrestò ai duemilatrecento. Urla di furore echeggiarono sull’oceano, seguite da tre detonazioni e da un vivo fuoco di moschetteria; ma ormai il pallone era fuori di portata, e né le palle dei cannoni, né quelle delle carabine lo potevano raggiungere.

“Auff!” esclamò l’irlandese, asciugandosi il freddo sudore che gli imperlava la fronte. “Cinque minuti di ritardo e noi eravamo perduti! Vedete, Mister Kelly, a qual pericolo vi esponete per colpa mia?”

“Un viaggio senza emozioni che cosa sarebbe?” disse l’ingegnere. “Per Bacco! Quegli inglesi sono bene accaniti contro di noi! Ma si stancheranno presto.”

“Che specie di nave hanno mai, per averci raggiunti ancora?”

“Una nave che fila quindici o sedici nodi all’ora.”

“Ma noi abbiamo filato più di loro.”

“Ma il vento ci ha respinti verso le coste americane. Se la corrente non avesse cambiato direzione, a quest’ora quella nave sarebbe così lontana da perdere ogni speranza di raggiungerci. Ci ha incontrati per pura combinazione.”

“Fortunatamente l’avete scorta per tempo. Ci insegue ancora?”

“Vedo laggiù i suoi fanali di posizione; ma sono già assai lontani.”

“Andiamo ancora verso il nord-ovest?”

“…Ma…No: abbiamo ritrovato la nostra corrente e navighiamo verso il nord-est!”

“Verso l’Europa!”

“Sì, O’Donnell. Ricomincio a sperare.”

L’aerostato, innalzatosi per lo scaricamento di quei cinquanta chilogrammi di zavorra, aveva infatti ritrovato quella grande corrente aerea che l’ingegnere aveva scoperta, e che pareva soffiasse costante verso il nord-est. Mentre l’attenzione degli aeronauti era volta alla nave da guerra, i due immensi fusi avevano virato di bordo, ed ora fuggivano nella prima direzione con una velocità di sessanta miglia all’ora, avanzando in quell’enorme distesa di acqua, che si tingeva dei primi chiarori dell’alba. La nave da guerra, impotente a lottare con la velocità straordinaria dei due aerostati, aveva cessato il suo cannoneggiamento. In pochi minuti era diventata un punto oscuro che appena si distingueva sulla superficie dell’Atlantico. Fra poco anche i suoi fanali dovevano scomparire.

Il sole, intanto, stava per alzarsi sull’orizzonte orientale. La luce bianca era diventata rosea, gli astri impallidivano rapidamente, confondendosi fra quelle prime ondate rosseggianti; poi il primo raggio sorse improvvisamente là dove l’oceano sembrava unirsi col cielo, e l’acqua scintillò, cospargendosi di pagliuzze d’oro di un effetto superbo, mentre la superficie dei palloni si imporporava. Le ultime tenebre scomparvero sotto quella brusca invasione dei raggi: gli astri sembrarono fondersi istantaneamente, e le acque ripresero la loro tinta verdastra, smeraldina, alternata a strati di un azzurro profondo.

L’ingegnere esaminò l’orizzonte per vedere se qualche nave era in vista, o se si scorgeva, verso il nord-est, qualche terra. L’Oceano era deserto, e nessuna isola o continente si vedeva in alcuna direzione.

Solamente degli uccelli marini volteggiavano sopra l’azzurra superficie, precipitando di quando in quando fra le onde per impadronirsi dei pesci che osavano mostrarsi.

Si vedevano numerose procellarie, quei funebri uccelli delle tempeste, che s’incontrano sotto tutte le latitudini, qualche fregata dal fulmineo volo e parecchie coppie di alcioni. Di tratto in tratto si vedevano pure balzare fuori dalle onde, volare per venti o trenta metri e poi ricadere, centinaia di quegli strani pesci, detti dattilotteri o pesci volanti, alcuni lunghi un buon piede, bruttissimi, di colore bruno rossastro, le natatoie nere, con in capo una specie di casco irto di pungiglioni, ed altri lunghi appena venti centimetri e con la pelle azzurro-argentea. S’alzavano da varie parti, s’incrociavano in tutti i sensi, facevano sforzi prodigiosi per mantenersi in aria, ma ricadevano appena si disseccavano le loro natatoie.

Senza dubbio, quei disgraziati abitanti dell’oceano erano assaliti da altri pesci più potenti e più voraci.

“È una disgrazia il non avere più una rete” disse O’Donnell.

“Mangerei volentieri un arrosto di pesci per colazione.”

“Vi dimenticate che siamo a tremila metri e che non abbiamo una cucina, ghiottone?” chiese l’ingegnere.

“Avete ragione, Mister Kelly. Mi dimenticavo che non abbiamo del fuoco e che, anche avendone, sarebbe pericoloso accenderlo. Ma, per mille diavoli, vi sono delle migliaia di pesci laggiù.”

“Vi sorprende forse?”

“No, perché io so che i pesci sono molto prolifici e che depongono centinaia di nova.”

“Anche migliaia, e qualcuno anche milioni.”

“Suppongo che saranno le aringhe le più feconde. So che nelle baie della mia patria si radunano in banchi immensi.”

“Vi ingannate, perché le aringhe in media non danno che tremila uova.”

“Vi sembra poco?”

“E cosa direste dei merluzzi che ne depongono sette milioni?”

“Per Giove!”

“E del pesce lira, che ne depone dai venti ai trenta?”

“Trenta milioni di uova!” esclamò O’Donnell. “‘Quale famiglia deve uscire da una coppia di quei pesci!”

“Si ritiene che siano i più prolifici di tutti. Ve n’è però uno che per le sue dimensioni meschine può calcolarsi più fecondo dei pesci lira: è pleuronectes flexus, il quale è piccolo, somigliante alla così detta passera di mare e può dare fino a un milione e mezzo di uova.”

Mentre così chiacchieravano e il negro preparava la colazione che sostituiva il caffè, che non figurava fra le loro provviste per mancanza della cucina, il Washington, che galleggiava in mezzo a un mare di luce, cominciava a salire verso le alte regioni dell’atmosfera.

Già le sue pieghe erano scomparse a poco a poco e le sue superfici si erano stese sotto lo sforzo dell’idrogeno che il calore solare dilatava, aumentando considerevolmente la sua forza ascensionale, che diventava ora maggiore a causa di quel getto di zavorra.

Alle dieci era già salito a 3600 metri e non si era ancora fermato. O’Donnell, che non si era ancora accorto di nulla, ma che sentiva aumentare il freddo, il quale toccava già quasi lo zero, si guardò attorno, credendo che l’aerostato fosse entrato in qualche nube di ghiaccioli; ma l’atmosfera era d’una limpidezza ammirabile.

“Dove siamo?” chiese. “Ci siamo avvicinati, a nostra insaputa, alle regioni polari?”

“No: filiamo sempre verso il nord-est, seguendo il 48° parallelo” rispose l’ingegnere. “Questo abbassamento di temperatura deriva dalla nostra elevazione. Guardate il barometro: siamo già a 3700 metri.”

“Che il pallone voglia scappare nella luna?”

“Si fermerà. Non dubitate.”

“Più si sale, più aumenta il freddo?”

“Sì e l’aria diventa talmente rarefatta da uccidere gli imprudenti che osano salire troppo in alto.”

“E per quali cause?”

“Per la diminuzione della tensione dell’ossigeno, che a quelle altezze non penetra più nel sangue e di conseguenza nei tessuti in quantità sufficiente a mantenere le combustioni vitali nel loro stato di energia normale. All’altezza in cui ci troviamo, già il vostro polso deve avere ottanta battiti al minuto, e dovete provare un principio di nausea.”

“Infatti provo un certo malessere, Mister Kelly.”

 

“Se la salita continuerà, il vostro ventre comincerà a gonfiarsi, sentirete la faccia in congestione e proverete anche qualche vertigine. Più su vi è la morte, ma noi non toccheremo quella zona mortale.”

“Lo spero, Mister Kelly, se non per me, per voi. Ditemi: vi sono stati degli aeronauti che hanno osato spingersi fino a quella zona?”

“Sì e alcuni non sono più ridiscesi vivi. I primi che si slanciarono arditamente negli spazi celesti per verificare fino a quale altezza l’aria era respirabile per l’uomo, furono Robertson e Lhoêst, i quali nel 1803 riuscirono a raggiungere, a quanto sembra, i 7000 metri. Si disse allora che a Robertson era gonfiata la testa a tal segno da non potersi più mettere il cappello; ma io la ritengo una frottola.

Nel 1804 Gay-Lussac tocca pure 7000; prova nausee, vertigini e un principio di soffocamento; ma ridiscende vivo. Darral e Bixio nel 1850 toccarono anche loro i 7000 metri. Nel 1850 Gaisher e Coxwell affermarono di aver raggiunto i 10.000 metri. Il primo svenne; ma il secondo, quantunque non potesse far uso delle mani perché il freddo intenso gliele aveva assiderate, riusciva ad afferrare coi denti la corda della valvola di sfogo, obbligando il pallone a ridiscendere.

Io però sono d’opinione che non abbiano raggiunto quell’altezza, e così pensano pure molti aeronauti. Se si fossero spinti tanto in alto, non sarebbero ritornati a terra vivi.

La più drammatica e più terribile ascensione fu quella dello Zenith, che costò la vita a due giovani e audaci aeronauti, a Croce-Spinelli, un italiano naturalizzato francese, ed a Silvel. Già nel 1874, incoraggiati e aiutati dalla Società Francese di Navigazione Aerea, avevano fatto una prima ascensione, raggiungendo i 7300 metri. Il 15 Aprile 1875 partivano sull’aerostato lo Zenith, in compagnia di Tissandier, un aeronauta che aveva eseguito già oltre venti ascensioni. L’aerostato, continuamente scaricato dalla zavorra che portava, s’innalzava rapidamente verso le solitudini gelate delle grandi altezze. Il freddo li intirizzì, le nausee sopravvennero, le vertigini li colsero; ma continuarono intrepidamente a salire. A 8000 metri Croce-Spinelli e Silvel, malgrado respirassero di frequente l’ossigeno che avevano portato con loro, caddero; ma Tissandier resiste ancora e continuò le sue osservazioni. A 8600 metri lo Zenith s’arrestò, poi ridiscese; ma portava con sé due cadaveri: Croce-Spinelli e Silvel erano morti! Che cosa ne dite, O’Donnell?”

L’irlandese, che fino ad allora gli stava seduto a sinistra, a cavalcioni d’una panchina del battello, non diede alcuna risposta. L’ingegnere si volse verso di lui e lo vide accasciato su se stesso, come se fosse stato improvvisamente colto da uno svenimento, o da un sonno irresistibile.

Guardò a poppa e vide il negro Simone che pareva pure addormentato.

“Diavolo!” esclamò. “Dove ci troviamo?”

Gettò uno sguardo sul barometro: segnava 4300 metri. “È troppo,” mormorò. “Ancora poche centinaia di metri più in alto, e questi uomini, non abituati alle ascensioni, dormiranno per sempre. Afferrò le due corde che mettevano capo alle valvole di sfogo e diede uno strappo. Tosto in alto si udirono degli scoppiettii e all’intorno si sparse un acuto odore di idrogeno.

“Basta,” disse mezzo minuto dopo. “È troppo prezioso per consumarlo.” Il Washington, benché appena salassato, discendeva lentamente nelle regioni più respirabili. In dieci minuti toccò i 3600 metri e colà giunto arrestò la sua discesa. O’Donnell aprì gli occhi, sbadigliando come un orso che non dorme da una settimana.

“Che vi pare della disgraziata sorte toccata a Croce-Spinelli e a Silvel?” gli chiese Kelly, con un sorriso leggermente malizioso.

“Silvel! Croce-Spinelli!…” esclamò O’Donnell, guardando l’ingegnere con due occhi strabuzzati. “Ma siete uno stregone voi, che indovinate i miei sogni?”

“Avete sognato, O’Donnell?”

“Sì, di palloni, di ascensioni di un certo Tissandier e… Ma perché ridete?”

“Perché non avete sognato nulla di tutto ciò, ma l’avete udito dalla mie labbra e vi siete addormentato mentre io vi narravo quella drammatica ascensione.”

“Mi sono addormentato, io!”

“Sì, O’Donnell, ma per effetto dell’altezza del Washington e Simone, che comincia solamente ora ad aprire gli occhi, vi teneva compagnia. Come vi sentite?”

“Benissimo: anzi ho una fame da lupo.”

“Buon segno,” disse Kelly, ridendo. “Con la discesa scompaiono repentinamente i disturbi pericolosi cagionati dalle eccessive altezze.”

“Dev’essere così, signor Ned; ma si vede che le ascensioni non sono fatte per me, né per Simone. Che ne dici, negrotto mio?”

Il negro si limitò a sbadigliare in tal modo da correre il pericolo di slogarsi le mascelle, mostrando due file di denti da fare invidia a un coccodrillo dell’Africa equatoriale.