Tasuta

Attraverso l’Atlantico in pallone

Tekst
iOSAndroidWindows Phone
Kuhu peaksime rakenduse lingi saatma?
Ärge sulgege akent, kuni olete sisestanud mobiilseadmesse saadetud koodi
Proovi uuestiLink saadetud

Autoriõiguse omaniku taotlusel ei saa seda raamatut failina alla laadida.

Sellegipoolest saate seda raamatut lugeda meie mobiilirakendusest (isegi ilma internetiühenduseta) ja LitResi veebielehel.

Märgi loetuks
Šrift:Väiksem АаSuurem Aa

Capitolo 11. Il transatlantico

Il negro, che doveva essere in preda ad un furioso accesso di delirio, aveva aperto le mani e penzolava dall’ultimo nodo della guide-rope, trattenuto dalle corde strette dell’irlandese.

Il disgraziato agitava pazzamente le braccia e le gambe, emetteva grida strozzate, e di quando in quando agli orecchi dei due aeronauti giungevano degli scoppi di risa.

L’ingegnere diede uno strappo alla funicella, rovesciando il cono, poi, unendo la sua forza all’irlandese, si mise a issare la guide-rope issando il negro che continuava a dibattersi.

Non era una cosa facile tirarlo su, assieme ai trecentocinquanta metri di fune, che da soli formavano un considerevole peso: però, riposando di quando in quando, dopo una buona mezz’ora riuscirono nella faticosa impresa.

O’Donnell fu pronto ad afferrare Simone ed a trarlo nella navicella, malgrado si dibattesse come un forsennato.

Appena gettò uno sguardo su quel disgraziato delirante, un grido di dolore gli sfuggì dalle labbra. La corta e ricciuta capigliatura del negro, che mezz’ora prima era ancora nera, era diventata bianca come la neve.

“Guardate gli effetti della paura, Mister Kelly” disse l’irlandese.

“Povero Simone! esclamò. Chissà quale terribile impressione gli ha prodotto quel malaugurato cefalopodo!”

“E non ritorneranno più neri i suoi capelli?”

“No.”

“E un caso stranissimo.”

“Ma non raro: rammento che Maria Antonietta, la disgraziata regina di Francia, divenne anch’essa canuta in una sola notte.”

‘“Ma.... guardate che occhi ha questo ragazzo! Si direbbe che è impazzito!”

“Dio non lo voglia, O’Donnell. Sarebbe una disgrazia terribile che presto o tardi potrebbe causarci dei gravi imbarazzi, nella situazione in cui ci troviamo. Proviamo a dargli un calmante forse il suo accesso, dopo una dormita, passerà.”

Simone, appena giunto nella navicella, era caduto fra le braccia dell’irlandese, come se le forze gli fossero improvvisamente mancate. Dalle sue labbra però uscivano grida rauche, le sue membra tremavano, i suoi occhi manifestavano sempre un vivo terrore e di quando in quando mandavano strani lampi.

L’ingegnere gli aprì a forza i denti e gli versò in gola un calmante, mescolato ad una dose d’oppio. Allora, a poco a poco, le grida cessarono, il tremito divenne meno forte; poi il negro chiuse gli occhi e cadde in un profondo sonno.

Fu disteso su un materasso, e per maggior precauzione i due gli imprigionarono le gambe, temendo che, in accesso di delirio, si precipitasse nell’oceano, e lo portarono a prua, per averlo sempre sotto gli occhi.

“Speriamo che si risvegli calmo” disse l’ingegnere. “Issiamo l’altro cono, O’Donnell: l’idrogeno si dilata e, se non ci innalziamo, sfuggirà per la valvola di sicurezza.”

In pochi minuti quella manovra fu eseguita, e l’aerostato, libero di quel peso, s’innalzò lentamente fino a quattrocento metri verso sud-est con una velocità di quindici miglia all’ora.

“Scendiamo ancora verso i climi caldi?” chiese O’Donnell

“Purtroppo” rispose l’ingegnere.

“Vedo però delle nubi. Che portino un cambiamento nella corrente?”

“È possibile. O’Donnell. Un uragano, lo desidererei ardentemente.”

“E non correremo pericolo?”

“Quale?”

“Un fulmine potrebbe colpirci e farci scoppiare i palloni.”

“Si evita.”

“In quale modo? Avete piantato dei parafulmini sui vostri aerostati?”

“No, ma basta innalzarsi sopra le nubi: operazione che sarebbe facilissima, con la zavorra che possediamo, ma che non è necessaria, potendo i nostri palloni in breve salire ad una grande altezza. Le nubi non si radunano che di rado oltre i mille o millecinquecento metri.”

“Allora noi assisteremmo ad una pioggia venuta dall’alto.”

“Con accompagnamento, di lampi, tuoni e scariche elettriche, ma per noi inoffensive.”

“Non mi spiacerebbe assistere ad un simile spettacolo. Accenna ad un cambiamento il barometro?”

“Fin da ieri sera, O’Donnell. Ma ritornando al mostro che per poco non ci trascinava nell’oceano, avete osservato che la nostra àncora è stata schiacciata?”

“Dal polipo gigante?”

“Senza dubbio. Doveva avere delle dimensioni enormi.”

“Doveva pesare almeno duemila chilogrammi, Mister Kelly. Io non ho mai veduto un mostro simile, né più brutto di quello. Se aveste veduto che occhi! Io credetti di venire affascinato e di cadere nella sua bocca. Che avesse scambiato la nostra àncora per qualche pesce?”

“È probabile”.

“Sono comuni quei cefalopodi?”

“Sono anzi molto rari e s’incontrano difficilmente. Si è messa in dubbio per lungo tempo la loro esistenza: ma gli scienziati hanno dovuto arrendersi, dopo che la nave a vapore Alecto ne incontrò uno mostruoso presso le Canarie, impadronendosi di un tentacolo, che si conserva ancora, credo, a Santa Croce di Teneriffa.”

“In un’opera di Sonini ho letto che taluni hanno delle dimensioni tali da abbracciare un vascello. Che sia vero?”

“Io ne dubito assai, O’Donnell, quantunque le leggende nordiche parlino di mostri immensi. Olaus Magnus, vescovo di Upsala, pretende d’aver veduto, nel XVI secolo, un mostro così enorme che era lungo un miglio e che somigliava più ad un’isola che a un pesce: un altro prelato scandinavo scrisse pure di aver scambiato un altro mostro per una roccia e di avervi innalzato sopra un altare, celebrandovi la messa, senza che quell’enorme polipo, o cetaceo che fosse, si tuffasse. Pontoppidan pretende che uno di questi mostri avesse tali dimensioni da farvi manovrare sopra nientemeno che un reggimento di cavalleria!”

“Diavolo! Era una piazza d’armi?”

“Gli scienziati hanno negato l’esistenza di quei colossali kraken : così li chiamavano i polipi nordici. Plinio, lo storico e naturalista romano, fa menzione di un mostro pescato sulle coste di Spagna ai suoi tempi e che pesava trecentocinquanta chilogrammi, con delle braccia lunghe dieci metri e la testa grossa come un barile; mentre quello che ho veduto dall’equipaggio dell’Alecto nel 1801 aveva il corpo lungo dai cinque ai sei metri e un peso di circa duemila chilogrammi.”

“Molti altri se ne sono veduti, ma di dimensioni più piccole. Nelle isole dell’Oceano Pacifico, specialmente alle Hawai, se ne pescano moltissimi che hanno il corpo lungo due metri.”

“Quello che si è aggrappato alla nostra àncora avrebbe potuto trascinarci sott’acqua?”

“Se aveva un peso di duemila chilogrammi, poteva farci scendere. Fortunatamente possediamo delle scuri, e avremmo tagliato senza fatica la fune, abbandonando l’ancora. Tò! Un vascello! Guardate là verso il nord.”

L’irlandese guardò nella direzione indicata, e là dove l’oceano pareva confondersi con l’orizzonte vide un grosso punto nero, sormontato da due pennacchi di fumo. Pareva che si dirigesse verso l’ovest.

“Sarà un transatlantico europeo che va in America” disse l’ingegnere.

“Che si diriga verso di noi?”

“È probabile. L’incontro d’un aerostato in pieno oceano è una cosa che non si è mai veduta, e l’equipaggio ci crederà forse dei disgraziati spinti qui contro la nostra volontà.”

“Mi pare, che abbia modificato la rotta, Mister Kelly” disse l’irlandese, che aveva preso un cannocchiale, puntandolo sullo steamer. “Non mi spiacerebbe andare a bere un bicchiere di Bordeaux su quel legno.”

“Disgraziatamente non possiamo discendere, O’Donnell” disse l’ingegnere. “Bisognerebbe aprire le valvole e lasciare sfuggire una certa quantità di gas; e questo è troppo prezioso per noi.”

Il transatlantico, che doveva aver scorto il vascello aereo, il quale si librava in un’atmosfera purissima, aveva modificato subito la sua rotta e si dirigeva verso gli aeronauti per portare a loro soccorso. Senza dubbio il suo equipaggio credeva che fossero stati spinti sull’oceano da qualche uragano, e accorreva per raccoglierli.

“Approfitteremo per dare notizie ai nostri amici d’America” disse l’ingegnere, strappando alcuni foglietti dal suo libricino e coprendolo di una calligrafia fitta.

Lo steamer ingrandiva a vista d’occhio. Era uno di quei superbi transatlantici che dalle coste dell’Europa si recano in America e viceversa, compiendo il viaggio in una dozzina di giorni e anche meno.

Misurava quasi cento metri, portava quattro alberi e due ciminiere, le quali vomitavano torrenti di fumo misto a scorie. Il ponte era pieno di passeggeri, i quali seguivano ansiosamente la rotta dell’aerostato. Le loro grida, data la calma che regnava sull’oceano, giungevano distintamente agli orecchi degli aeronauti.

In capo a mezz’ora lo steamer che filava verso l’ovest, fu quasi sotto al Washington trecento voci s’alzarono, gridando: “Scendete! Scendete!”

L’ingegnere si curvò sulla prua della navicella, agitando la bandiera degli Stati dell’Unione e gridando:

“Buon viaggio! Andiamo in Europa!”

Lo sentirono. Un “hurrah” immenso s’alzò dal transatlantico, e quei trecento passeggeri si misero a sventolare i fazzoletti, mentre il capitano faceva ammainare tre volte la bandiera in segno di saluto.

“Desiderate qualche soccorso?” chiese il comandante, imboccando il portavoce.

“Grazie, signore” rispose l’ingegnere: “abbiamo il necessario. Vi prego solo d’incaricarvi della mia posta.”

Aveva avvolto le lettere in un astuccio di tela e le aveva poi richiuse in una scatola di latta. Gettò il pacco, che cadde in mare a venti braccia dallo steamer.

Una scialuppa fu calata dalla gru di babordo assieme a due marinai, i quali s’impadronirono della scatola, ritornando a bordo.

“Buon viaggio!” gridarono i passeggeri affollati sulla tolda.

“Grazie, signori” rispose l’ingegnere, vivamente commosso.

Poi, mentre un nuovo e più formidabile “hurrah” salutava gli intrepidi, il transatlantico riprese la rotta, filando verso l’ovest. Per alcuni minuti si videro i passeggeri sventolare entusiasticamente i loro fazzoletti e si udirono le loro grida, poi, avendo l’aerostato ripreso la sua marcia ascensionale a causa della dilatazione dell’idrogeno, lo steamer impicciolì rapidamente, e tutte quelle voci si cambiarono in un lontano sussurrio.

 

“Dove andrà quello steamer?” chiese O’Donnell che non era meno commosso dell’ingegnere.

“A Boston, è probabile” rispose Kelly. “Almeno lo suppongo dalla sua direzione o dal nostro incrocio in queste latitudini.”

“Vi confesso, Mister Kelly, che ho provato una forte emozione in questo incontro. Mi è parso d’aver trovato un lembo dell’America o dell’Europa.”

“Vi credo, O’Donnell”

Intanto l’aerostato continuava a salire, riscaldandosi l’aria: superò dapprima i mille metri, poi i duemila: ma giunto ai duemila cinquanta si arrestò.

L’ingegnere che pareva in preda ad una certa agitazione e che non staccava gli occhi dal barometro, corrugò più volte la fronte e represse un sospiro. La forza ascensionale del Washington cominciava a diminuire e non raggiungeva più la grande elevazione di prima.

Il gas sfuggiva attraverso i pori della seta quantunque questa fosse stata tessuta con la massima cura. Se la grande corrente si fosse mantenuta stabile come il primo giorno, spingendoli verso l’Europa, l’ingegnere non si sarebbe inquietato, possedendo ancora quattrocento metri cubi d’idrogeno immagazzinato nei cilindri e circa settecento chilogrammi di zavorra da gettare; ma ora che l’aerostato veniva trascinato verso l’equatore, per esser poi forse respinto verso le coste americane dagli alisei, o verso l’Atlantico meridionale, la cosa era diversa, e quella grande traversata cominciava a diventare assai problematica.

Tuttavia non disperò, e nulla disse per non impressionare il suo compagno. Confidava sempre sui grandi mezzi che aveva ancora disponibili.

L’aerostato, dopo aver raggiunto i 2500 metri, si mise a filare verso sud-est con maggior velocità di prima, avendo incontrato una corrente più fresca. Ora si avanzava a 700 metri per minuto primo, avvicinandosi sempre più al tropico del Cancro.

L’oceano, dopo la scomparsa del transatlantico, era ridivenuto deserto. Perfino gli uccelli marini erano scomparsi. Però di quando in quando si vedeva apparire a fior d’acqua qualche pesce-cane, e si vide anche un pesce martello di dimensioni ragguardevoli.

Essendo il sole assai ardente, O’Donnell tese sopra il battello una tenda, per riparare anche il negro, il quale continuava a dormire profondamente.

A mezzodì l’ingegnere fece il punto e constatò che l’aerostato si trovava a 36° 7’ di lat. nord e a 32° 5’ di long. ovest.

“Dove ci troviamo?” chiese O’Donnell.

“Sui paralleli della Virginia,” rispose Kelly.

“Tanto siamo discesi?”

“Purtroppo.”

“A quale distanza dalle coste americane?”

“A 1250 miglia, in linea retta: ma dovete tener conto della curva rientrante che il continente descrive dal Capo della Nuova Scozia al Capo Hatteras.”

“E dall’Isola Brettone!’’

“In linea retta distano 800 miglia.

“Abbiamo percorso un bel tratto. Mister Kelly, in poco più di due giorni.”

“Non dico di no. O’Donnell. Disgraziatamente, questa marcia così rapida non ci ha avvicinati all’Europa, anzi ci ha allontanati”

“Se l’aerostato seguisse il nostro parallelo senza deviare, dove andrebbe a terminare?”

“Nei pressi dello stretto di Gibilterra.”

“Entrerebbe allora nel Mediterraneo?”

“Sì: ma invece il vento continua a spingerci verso il sud-est e ci porterà quindi sulle coste dell’Africa.

“Ebbene, cadremo in Africa invece che in Europa. L’Atlantico l’avremo ugualmente attraversato.”

“È vero: ma possiamo cadere su di una costa deserta o in mezzo a qualche tribù di selvaggi.”

“Bella occasione per farci credere figli del cielo e farci nominare sceicchi di qualche grande tribù.”

“Zitto!”

“Che succede?”

“Simone si sveglia.”

Capitolo 12. L’uragano

Difatti, il povero negro stava per aprire gli occhi. Aveva respinto la coperta di lana che O’Donnell gli aveva gettato addosso e cercava di liberarsi le gambe dai legami.

Si alzò a sedere con una brusca mossa e girò all’intorno uno sguardo smarrito, fissandolo poi sull’ingegnere e, quindi, sull’irlandese. Il suo volto nero, che contrastava vivamente col bianco dei suoi ricciuti capelli, tradiva ancora un profondo terrore, e le sue labbra non avevano riacquistato colore.

“Dove sono?” chiese, con voce rauca e tremula.

“Simone, amico mio,” disse l’ingegnere, “non riconosci più i tuoi amici?”

Il negro lo guardò senza rispondere, poi, passandosi una mano sulla fronte, sembrò evocare qualche lontano ricordo.

“Simone, tranquillizzati” riprese l’ingegnere. “Non vi era motivo di spaventarsi tanto.”

“Ah!” esclamò il negro. “Mi ricordo quegli occhi…oh! che orribili occhi!”

Un tremito convulso lo riprese a quel ricordo, e i suoi denti stridettero.

“Calmati, Simone” disse O’Donnell. “Che diamine! Tanta paura per un polipo gigante? Prendi questo bicchiere di whisky e mandalo giù, figliolo mio.”

Il negro afferrò il bicchiere che l’irlandese gli porgeva e lo vuotò d’un fiato, poi domandò:

“È morto il mostro?”

“L’ho ucciso” rispose O’Donnell.

“E quegli occhi? Dove sono quegli occhi?”

“Ventre di foca!” esclamò O’Donnell. “Vuoi che me li sia messi in tasca?”

“Mi fanno paura, li vedo ancora dinanzi a me, mi fissano sempre. Che orrida luce mandano!”

“Signor Kelly, temo che il suo cervello sia malato.”

“Quando l’impressione di terrore sarà cessata, forse si calmerà” rispose l’ingegnere. “Sorvegliamolo però, O’Donnell: in un momento di eccitazione, quel povero giovanotto può commettere qualche pazzia.”

“Temete che salti in mare?”

“No, ma.....” disse l’ingegnere, esitando.

“Mi mettete dei sospetti, Mister Kelly.”

“E quali?”

“Che Simone sia diventato pazzo.”

“Non lo credo: ma non vi nascondo che sono assai inquieto per il suo stato. Povero giovane! Se avessi saputo che non era un uomo adatto a prendere parte a questo viaggio irto di pericoli, l’avrei lasciato a terra: ma io lo credevo ormai abituato ai viaggi aerei, dopo avergli fatto fare più di ottanta ascensioni sul pallone frenato. Orsù, non disperiamo: forse si calmerà!”

L’ingegnere però cominciava a dubitare. Il negro pareva tranquillo, è vero, ma i suoi sguardi erano sempre smarriti ed avevano di quando in quando certi lampi, come quelli che si vedono negli occhi dei pazzi.

Si era coricato sulle casse e rimaneva immobile, immerso in chissà quali tetri pensieri; pareva che non si rammentasse più di trovarsi sul vascello aereo e nemmeno di essere in compagnia del suo padrone e di O’Donnell. Però dai trasalimenti che agitavano le sue labbra si indovinava che egli era ancora in preda a un terribile spavento e che pensava sempre agli occhi smisurati del polipo gigante.

Il Washington intanto continuava a filare sopra l’immenso oceano. Il sole, che cominciava a diventare assai caldo, aveva dilatato completamente l’idrogeno, innalzando l’aerostato di altri duecento metri.

Il vento si manteneva stabile e sempre fresco e trascinava il vascello aereo nella stessa direzione del giorno innanzi, cioè verso il sud-est. Però da certi indizi, s’indovinava che doveva fra non molto subire qualche violenza.

Qua e là, perduti nell’immensità celeste, si vedevano parecchi cirri, e si sa che quelle nubi portano un cambiamento nelle direzioni e nelle velocità dei venti. Anche ad oriente si vedevano salire nubi biancastre, opaline che indicavano come in quella regione soffiasse una corrente contraria.

“La perturbazione atmosferica si avvicina,” disse l’ingegnere a O’Donnell, “e temo che l’incontro violento delle correnti d’aria produca qualche uragano. Siamo vicini a una regione che si è acquistata una ben triste celebrità.”

“A quale regione?”

“Le Antille e le Lucaie non sono lontane, O’Donnell.”

“Vi è la fabbrica dei cicloni in quelle isole? chiese l’irlandese.

“Sì” rispose l’ingegnere ridendo. “Non vi è forse regione più battuta dagli uragani che quella. Quelle ricche e splendide isole ogni qualche tempo subiscono danni immensi a causa delle trombe che vanno a rompersi sulle loro coste. Vi basti sapere che colà il vento raggiunse più volte una velocità di 45 metri per minuto secondo.”

“Quale urto deve produrre!”

“A simili correnti non resistono le case più solide.”

“Quelle disgraziate isole devono subire spaventevoli devastazioni, Mister Kelly.”

“Ve ne citerò alcune per darvi un’idea di quegli uragani. Nel 1825 un ciclone si rovesciò sulla Guadalupa, devastando completamente piantagioni di zucchero e di caffè, atterrando le abitazioni, anzi rasandole al suolo. Un grande fabbricato di pietra, appena costruito, fu rovesciato in gran parte, e le tegole venivano trascinate via con tale impeto, che talune attraversarono perfino delle porte da parte a parte!”

“Quello era vento!”

“Quarantacinque anni prima, un altro uragano aveva atterrato interamente Savanala-Marry, città situata sulla costa occidentale della Giamaica. mandando a picco quattro navi che si trovano nella baia e rovinandone altre tre. Alla Martinica invece fu così terribile, essendovisi unito uno spaventevole maremoto, che uccise novemila persone, seppellì circa mille infermi sotto le rovine dell’ospitale di Fort-de-France, atterrò la cattedrale, sette chiese e rovesciò centinaia di case, mentre il mare, alzatosi otto metri sul livello ordinario, d’un sol colpo spazzava via centocinquanta fabbricati.”

“Che tremendi disastri!” esclamò O’Donnell.

“Ma questo non è ancora tutto. Una flotta composta di cinquanta navi mercantili di due fregate, sorpresa dall’uragano nei pressi della Martinica, fu inghiottita dal mare, e soli sette barconi riuscivano a salvarsi. Dei cinquemila uomini che montavano quelle navi, ben pochi riuscirono ad approdare. A Santo Stefano altre ventisette navi furono fracassate contro la costa; alla Dominica tutte le abitazioni intorno al porto furono demolite; all’isola S. Vincenzo, di seicento case che formavano la cittadella di Kingston, solo quattordici rimasero in piedi, e il mare lanciò sulle spiagge banchi di corallo strappati dal fondo; a Santa Lucia infierì più tremendo, poiché atterrò tutte le abitazioni uccise fra i rottami seimila persone, distrusse il forte, e il mare sollevò dei grossi cannoni che erano situati su di un bastione alto trentacinque metri!

Durante quel cataclisma furono osservati dei fenomeni elettrici bizzarri. Si videro dei fulmini globulari in grande numero, e tutte le costruzioni metalliche furono distrutte o contorte o lacerate in modo incredibile.”

“Se si cogliesse un simile ciclone, il nostro Washington non resisterebbe.”

“Lo credo, O’Donnell. Anche innalzandoci, la spinta del vento sarebbe tale da lacerare i nostri palloni come fossero di carta. Fortunatamente simili uragani sono rari.”

“To’!” esclamò O’Donnell, che da qualche istante guardava verso l’est. “Che cosa si vede laggiù, Mister Kelly?”

L’ingegnere guardò nella direzione indicata e vide, a circa duemila metri, dinanzi all’aerostato, una zona color verde pallido, sospesa a circa duemiladuecento metri.

“E una nube trasparente che si mostra a noi orizzontalmente” disse.

“Si direbbe un grosso velo.”

“Il vento ci spinge sopra di essa. La osserveremo dall’alto.”

L’aerostato marciava precisamente nella direzione della nube. In pochi minuti vi fu sopra, essendo più alto di circa trecento metri. Tosto il colore verdastro scomparve, e i due aeronauti scorsero solamente una lunga distesa di nebbia leggerissima, che permetteva di discernere sotto di essa l’oceano. L’ombra immensa dei due palloni appena si distingueva su quella zona vaporosa, tanto era trasparente.

Al di là però di quella nebbia il Washington s’imbatté in una grande nuvola, o meglio in parecchi banchi di fitti vapori, disposti in strati dello spessore di ben oltre duecento metri sovrapposti gli uni su gli altri e separati da un breve spazio d’aria.

Gli aeronauti si trovarono avvolti in una semioscurità e provarono un’acuta sensazione di freddo assai umido.

In pochi istanti le loro vesti furono bagnate, e l’aerostato, diventato più pesante per quella umidità, s’abbassò bruscamente, attraversando strati inferiori.

“Precipitiamo?” chiese O’Donnell, mentre Simone, che pareva si fosse accorto della caduta del Washington, s’era rapidamente alzato, gettando uno sguardo strabuzzato.

“Ci fermeremo e più tardi risaliremo” rispose l’ingegnere.

 

“Senza gettare zavorra?”

“S’incaricherà il sole di asciugarvi. Badate a Simone, O’Donnell”

“Non lo perdo d’occhio.”

Il Washington attraversò successivamente tre strati di densa nebbia e si arrestò a circa ottocento metri dall’oceano. Colà l’atmosfera era sgombra di nubi e raggi del sole, cadendo un po’ orizzontalmente, erano caldissimi.

Un’ora dopo l’aerostato risaliva fra le nubi; ma poco dopo tornava a ricadere a causa della umidità che lo rendeva sempre pesante. Essendo vicino al tramonto e sapendo che il pallone sarebbe egualmente ricaduto per il condensarsi dell’idrogeno, l’ingegnere non volle privarsi di parte della zavorra, che ora diventava più preziosa che mai.

Alle nove la notte scese con rapidità quasi fulminea, non essendovi presso i tropici che un brevissimo crepuscolo, e l’aerostato poco dopo ricominciava la discesa, mentre la seta dei due immensi fusi formava, specialmente alle due estremità, delle pieghe considerevoli.

L’ingegnere, vedendo il cielo coprirsi rapidamente di nubi e temendo che l’uragano già annunciato dal barometro scoppiasse durante la notte, non indugiò a prendere tulle le precauzioni necessarie per non trovarsi impreparato. Fece mettere per la prima volta in opera la pompa premente per riempire più che poteva i due palloncini d’aria, onde mantenessero tesa la superficie dei due grandi fusi, eliminando le pieghe del tessuto, che potevano diventare pericolose con un vento impetuoso. Sotto la violenta pressione della pompa, i due palloncini si gonfiarono tanto quasi da scoppiare, comprimendo l’idrogeno dei due fusi, il quale rioccupò gli spazi lasciati poco prima liberi dal condensamento. Se quell’aria non aumentava la forza ascensionale, manteneva però tesa la superficie della seta, la quale in tal modo non offriva presa al vento, né formava borse entro le quali potesse introdursi e produrre degli strappi.

Non si limitò a questo. Fece preparare due cilindri di idrogeno compresso sotto le manichelle dei fusi, che erano state saldamente legate a poppa della navicella, e disporre la zavorra lungo i bordi per essere più pronti a gettarla in mare al primo pericolo. Mentre erano occupati in questi preparativi le nubi avevano invaso la volta celeste, stendendosi sopra l’aerostato e facendo scomparire le stelle. Una profonda oscurità avvolgeva l’oceano e il Washington, oscurità che pareva diventasse di momento in momento più densa e paurosa.

Il vento aveva fatto un brusco salto, piegando verso il sud-est, e la sua velocità era notevolmente accresciuta, toccando i sedici metri per minuto secondo. Non aveva ancora raggiunto la rapidità che acquista nelle tempeste, che è di metri 22,5 per minuto secondo, di 27 nelle grandi tempeste, di 36 negli uragani e di 45 nei terribili cicloni, ma non doveva tardare a diventare più violento.

Lo si udiva fischiare talora attraverso le corde e le maglie delle reti e lo si sentiva imprimere delle scosse ai due grandi fusi, i quali campeggiavano come se si trovassero sulle onde del mare, facendo oscillare la navicella. Però sembrava che una calma assoluta regnasse intorno agli aeronauti, poiché, filando col vento e con pari velocità, raramente provavano gli effetti di quei soffi impetuosi.

Sotto, invece, si udiva l’oceano muggire sordamente a meno di quattrocento metri. Di quando in quando, su quell’immensa distesa color d’inchiostro, si vedevano fugaci bagliori, prodotti senza dubbio da un principio di fosforescenza.

Simone, ogni volta che udiva quei minacciosi brontolii e quei cozzi furiosi delle grande ondate, trasaliva e fissava i suoi grandi occhi sul padrone, mentre delle parole rotte gli uscivano dalle labbra contratte.

Alle dieci O’Donnell, essendosi aggrappato ad un filo di rame che rinforzava una corda di sostegno, con una grande sorpresa vide scoccare una scintilla e provò alla mano una puntura.

“Per Giove e Saturno!” esclamò “Che cosa è questa?”

“Brutto segno” rispose l’ingegnere “Bisogna sacrificare della zavorra e innalzarci.”

“Perché, Mister Kelly?”

“Ciò indica che l’aria è satura di elettricità e che fra poco cadranno parecchi fulmini. Saliamo, O’Donnell, prima che uno colpisca i nostri aerostati.”

“Quanta zavorra dobbiamo gettare?”

“Cinquanta chilogrammi basteranno.”

O’Donnell afferrò un sacco e lo precipitò nell’oceano.

Quasi nel medesimo istante un lampo abbagliante ruppe le tenebre e un sordo tuono echeggiò fra le tempestose nubi, perdendosi nei lontani orizzonti con un lungo rullo.