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Attraverso l’Atlantico in pallone

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Capitolo 13. L’Atlantide

Il Washington, scaricato di quel peso considerevole, risaliva rapidamente verso le masse di vapori, che ingombravano la volta celeste. I muggiti dell’Atlantico, che il vento sollevava in enormi ondate, diventavano più fiochi via via che l’aerostato s’allontanava.

In pochi minuti gli aeronauti superarono la distanza che li separava dalle nubi e si trovarono avvolti, da un istante all’altro, fra una fitta nebbia carica di umidità, che pareva aprirsi a stento dinanzi all’aerostato. La temperatura scese bruscamente a 4° sopra zero, e un’oscurità intensa avvolse l’ingegnere, O’Donnell ed il negro.

Attraverso quei vapori, che dovevano avere uno spessore enorme, si vedevano di quando in quando guizzare dei rapidi bagliori che tosto scomparivano, e alcune fiammelle azzurre, i fuochi di Sant’Elmo, vennero a posarsi sui bordi della navicella ed a danzare sulle maglie della rete.

Simone, atterrito, emise un urlo acuto e balzò bruscamente in piedi con gli occhi smarriti, i capelli arruffati, il viso stravolto; ma O’Donnell gli si era messo a fianco e, afferratolo strettamente per le braccia, lo costrinse a sedersi.

“Non spaventarti, Simone” gli disse. “Attraversiamo le nubi, e quei fuochi non bruciano nessuno.”

L’aerostato in due minuti attraversò la massa di vapori e s’innalzò attraverso l’atmosfera pura, dove in alto scintillavano le stelle, e all’orizzonte brillava la luna, versando sugli aeronauti i suoi azzurrini raggi d’una dolcezza infinita.

Al disotto si vedevano le nubi accavallarsi confusamente sotto la spinta furiosa del vento, e nel loro seno guizzavano linee di fuoco. Di quando in quando dei tuoni formidabili irrompevano da quelle masse nebbiose e si propagavano con incredibile intensità attraverso le profondità incommensurabili della volta celeste.

Dell’oceano non vi era più traccia alcuna; anzi si sarebbe detto che la terra era scomparsa e che l’aerostato fosse uscito dalla sua orbita, per fuggire verso la luna.

In quelle alte regioni, il vento, non più frenato da alcun ostacolo, né contrariato da alcuna corrente, correva con velocità incredibile, trascinando con sé non più verso il sud-sud-est, ma verso l’est, spingendolo lungo il 32° parallelo.

“Finalmente” esclamò l’ingegnere. “Era tempo che il vento ci trascinasse verso l’oriente! Se si mantiene così in poche ore attraverseremo un grande tratto.”

“Con quale rapidità avanziamo?” chiese O’Donnell.

“Con la velocità delle grandi tempeste, cioè in ragione di novant’otto chilometri all’ora.”

“Altro che ferrovie!”

“Deve infuriare una tremenda tempesta sull’Atlantico” disse l’ingegnere.

“Compiango le navi che si trovano in pieno oceano, Mister Kelly.”

“Forse qualcuna non toccherà le sponde dell’Europa o dell’America.”

“Mentre noi non corriamo alcun pericolo.”

“Quassù, a 3500 metri d’altezza, no: ma se il nostro aerostato si fosse trovato esausto d’idrogeno e senza zavorra, nessuno di noi si sarebbe salvato. Udite che tuoni e guardate quante folgori solcano quelle nubi cariche di elettricità.”

“Il nostro Washington sarebbe stato fulminato.”

“Prima d’ogni altra cosa, O’Donnell. Essendo il più vicino alle nubi, avrebbe ricevuta le prime scariche.”

“Uccide sempre sul colpo la folgore, Mister Kelly?”

“No, O’Donnell: altre volte invece fa dei pessimi scherzi, ma che non sono mortali. Ora si limita a incenerire le vesti della persona senza recare alcun dolore: ora fonde o distrugge le monete, senza toccare il borsellino che la persona tiene in tasca, o scalza di colpo un viandante lasciandogli gli stivali. Si sono osservati in proposito, dei fenomeni bizzarri, inesplicabili. Si sono vedute delle persone uccise dal fulmine, ma che dopo colpite conservavano le carni fresche, come se fossero ancora vive: delle altre, invece, che le avevano completamente consumate.”

“Sono assai capricciosi i fulmini, Mister Kelly!”

“Molto, caro amico. Il signor Neal, per esempio, ha veduto un disgraziato, a cui un fulmine aveva consumato le mani fino alle ossa, lasciandogli intatti i guanti.”

“È strano!”

“Altri hanno veduto delle persone alle quali i fulmini avevano lacerato o distrutto le vesti senza offendere la pelle del corpo, ed altre, invece, che avevano la pelle bruciata e le vesti intatte. Howard, anzi asserisce d’aver veduto un contadino a cui un fulmine aveva scucito gli abiti e gli stivali, ma così bene che pareva opera d’un sarto o d’un calzolaio. Il dottor Gualtiero di Chaubry, invece, ebbe la barba rasa da un fulmine e non gli spuntò più.”

“Ci sono quindi dei fulmini barbieri!”

“Un altro fu privato interamente del pelo che cresceva sul corpo, e i peli furono trovati incrostati e aggrovigliati attorno ai suoi polpacci.”

“Quello era un fulmine rasoio di tempra eccezionale!”

“Sì, burlone; ma vi sono i fulmini incisori. Un soldato, toccato da un fulmine, ebbe riprodotte su di una coscia tre foglie, che non scomparvero più, e io so che una signora, in Svizzera, ebbe disegnato un fiore sulla gamba sinistra. Dei fenomeni bizzarri furono osservati durante il terribile ciclone che il 19 agosto 1870 rovinò la città di S. Claudio nel Giura. Gli alberi colpiti dalle folgori divennero rossi; moltissime serrature furono guastate, perfino negli appartamenti ben chiusi; numerose porte furono private delle loro ferramenta, ed entro case che non erano state colpite dalle scariche elettriche si trovarono delle chiavi contorte entro i cassetti, e perfino a dei mobili strappate tutte le viti.”

“Sono cose che spaventano, Mister Kelly.”

“Vi credo O’Donnell. Fortunatamente noi siamo fuori della portata delle folgori.”

Intanto l’uragano si scatenava con estrema violenza sotto l’aerostato.

Il vento sconvolgeva le nubi, che s’alzavano qua e là come un oceano in tempesta, si laceravano, si pigiavano, roteavano, ora bianche con riflessi di madreperla, ora rosse come se nel loro seno avvampasse un fuoco immenso, ora nere come se tutto d’un tratto si rovesciasse su di loro un mare d’inchiostro o di bitume. Sibili acuti, stridii prolungati, scrosci formidabili, ora secchi e brevi, ora interminabili, uscivano da quelle masse, che l’uragano trasportava sulle sue possenti ali, e tutti quei fragori si perdevano in alto e abbasso, formando un cupo rimbombo. Talvolta, quando quei tuoni tacevano, s’udiva sotto le nubi un lontano muggito: era l’oceano che prendeva parte a quella terribile gara degli elementi scatenati.

L’aerostato che si manteneva a 3600 metri, divorava lo spazio con fantastica rapidità, in balìa delle correnti aeree, quantunque sembrasse immobile o quasi. La corrente che prima lo spingeva verso l’est si era spezzata, forse a causa dell’incontro con un’altra che aveva diversa direzione, e deviava sovente, ora piegando verso il sud, ora riprendendo la direzione precedente.

I due immensi fusi subivano di tratto delle scosse, e quando il vento cambiava, s’inclinavano verso prua, imprimendo alla navicella delle brusche oscillazioni.

Nessuno osava dormire. La paura che l’aerostato s’abbassasse, per causa del condensamento dell’idrogeno o d’un strappo, e che entrasse fra quelli nubi tempestose e sature di elettricità, li teneva svegli. Infine Simone, malgrado quei tuoni, si assopì fra due casse. Ma il suo sonno era agitato: di quando in quando trabalzava, agitava pazzamente le braccia, apriva i grandi occhi e dalle sue labbra uscivano delle grida rauche che tradivano sempre un profondo terrore. Quel disgraziato, se non era pazzo, poco ci mancava: il suo cervello doveva aver riportato un perturbamento pericoloso, dopo l’incontro del polipo gigante.

Alle due del mattino, l’aerostato si trovò quasi improvvisamente sopra l’oceano. Le masse di vapore colà cessavano e pareva che sfuggissero per il sud, forse spinte da un’altra corrente aerea.

Per alcuni minuti si vide quell’immenso accatastamento di nubi ondeggiare fra cielo e mare, fra il balenare dei lampi, poi scomparve sul fosco orizzonte. I fragori cessarono rapidamente, si udì ancora come un lontano rullìo, poi i muggiti dell’oceano soffocarono la voce dell’elettricità.

Giù, in fondo, si vedeva confusamente l’Atlantico, che i pallidi raggi dell’astro notturno illuminavano. Appariva come un immenso velo d’una tinta indefinibile, fra l’azzurro cupo e il marrone, sbattuto, agitato da poderosi colpi di vento. A intervalli si scorgevano degli spazi, delle linee biancastre che si muovevano rapidamente e che subito scomparivano. Doveva essere la spuma che incoronava enormi ondate.

O’Donnell, che osservava tutto, additò all’ingegnere una nave che fuggiva verso il sud, con la velatura ridotta. La si vedeva salire faticosamente gli enormi cavalloni, sprofondare negli avvallamenti, rimontare, poi discendere e quasi scomparire fra la spuma. Per alcuni istanti si scorsero i suoi fanali di posizione, che brillavano come due punti luminosi, uno rosso e l’altro verde, poi più nulla.

L’aerostato, spinto dal vento, che aveva ora un impulso di ottanta chilometri all’ora, s’allontanava, lasciando indietro tutto. Nessuna nave, nessun incrociatore, dotato delle più potenti macchine poteva gareggiare con esso.

Alle tre l’irlandese, che si ostinava a rimanere sveglio quantunque ogni pericolo fosse ormai cessato, essendo il cielo purissimo, sgombro d’ogni nube, segnalò un vivo chiarore che appariva sull’oceano, verso il nord-est.

“Un’isola forse?” chiese all’ingegnere, che aveva afferrato un cannocchiale.

“Una terra qui? E impossibile, O’Donnell” rispose Kelly.

“Le Azzorre non sono sulla nostra rotta?”

“No: sono più al nord, e poi sono ancora assai lontane.”

“Possono essere le Canarie, Mister Kelly?”

“Nemmeno, O’Donnell. Sono più lontane delle Azzorre.”

“Possono essere quelle del Capo Verde.”

 

“Malgrado la nostra rapida corsa, devono distare ancora di qualche migliaio e più di miglia; e poi credo che l’uragano ci abbia spinti verso il sud.”

“Ma qual cosa supponete che sia dunque?”

“La distanza è troppa e l’oscurità fitta, per discernere qualche cosa; ma io temo che sia un incendio.”

“Un incendio!? Dove?”

“Forse di una nave.”

“Per San Patrick! Una nave brucia in mezzo all’uragano! Una nave che brucia in mezzo all’uragano! Quale terribile situazione per l’equipaggio!”

“Potrebbe pur essere qualche vulcano, O’Donnell.”

“Un vulcano in mezzo all’Atlantico! Che cosa dite, Mister Kelly?”

“E perché no, amico mio?”

“Se dite che siamo lontani da tutte le isole, dove volete che posi questo vulcano? Sulle onde forse?”

“Sul fondo dell’oceano.”

“Ma, che io sappia, nessun vulcano fu segnalato in mezzo all’Atlantico.”

“Ebbene, che importa? Non può essere sorto da un momento all’altro, forse in questa notte? Credete voi che il fondo dell’Atlantico sia tranquillo? No, O’Donnell: s’agita sovente la sotto la spinta dei fuochi interni, subisce talora delle modificazioni, s’alza o s’abbassa, e nel 1811 formò perfino un’isola vulcanica nei pressi delle Azzorre, al largo di San Michele.”

“Un’isola!”

“Sì, quella chiamata Sabrina, che si elevò sull’oceano per trecento metri, ma che poi fu demolita dai flutti. Un’altra pure ne emerse in quei paraggi dopo una abbondante eruzione di vapori, di fumo e di fuoco, durante un terremoto; ma subito scomparve.”

“Vi sono quindi delle isole vulcaniche in quest’oceano?”

“Forse che le Azzorre, le Canarie, Ascensione, S. Elena e Tristan da Cunha non sono di origine vulcanica?”

“Anche le Bermude?”

“No, O’Donnell: quelle sono state formate dai coralli.”

“Se, come mi dite, il fondo dell’Atlantico subisce delle modificazioni e s’agita, si può prestare fede agli antichi scrittori circa la scomparsa dell’Atlantide.”

“E perché no?”

“Ma credete che sia realmente esistito quel continente? E, prima di tutto, che cos’era quest’Atlantide di cui ho udito vagamente parlare?”

“Un’isola immensa, grande, secondo gli antichi, come la Libia e l’Asia minore riunite, e che si estendeva al di qua delle Colonne d’Ercole, ossia dello Stretto di Gibilterra, e che altre isole minori congiungevano ad un continente.

Tutti gli scrittori antichi ne fanno parola, e ciò fa supporre che sia realmente esistita o che esista tutt’ora.”

“Che esista? Dove mai, Mister Kelly?”

“Ve lo dirò poi. Omero nella sua Odissea l’accenna; Esiodo nella sua Teogonia, Euripide nei suoi drammi, Solone nella grande epopea da lui ideata, Platone, Strabone e anche Plinio ne parlarono.

Sembra che gli Atlantidi giungessero nel Mediterraneo, spinti dal desiderio di altre conquiste e che cercassero di sottoporre al loro dominio la Grecia; ma sarebbero stati respinti dai primitivi Ateniesi. Avrebbero però invaso parte del Mediterraneo, l’Egitto, l’Africa settentrionale e le coste della Tirrenia, ossia dell’attuale Italia e alcune parti dell’opposto continente.

Si dice che in quella grande occasione regnasse una potente schiatta di re e che numerose tribù la occupassero. In una certa epoca, però, dopo violenti terremoti e diluvi, l’isola sarebbe stata inghiottita con tutti i suoi abitanti. Anche i cartaginesi fanno menzione di un’isola deliziosa: anzi avevano deciso di andare ad occuparla, nel caso che un disastro avesse distrutto la loro repubblica.”

“Ma in quale modo venne inghiottita?”

“Si sono date diverse spiegazioni. Alcuni credono a causa di un tremendo terremoto; altri, fra i quali Bory de Saint-Vincent e Mantelle, due eminenti scienziati, credono che sia stata subissata dall’irrompere nell’oceano delle acque di un grande lago salato dell’Africa, forse quello del Sahara, che sembrerebbe il letto d’un antico mare.”

“Io però la penso diversamente, O’Donnell; e credo che l’Atlantide esista ancora. Sarà o sembrerà una enormità, ma io ritengo che gli antichi fossero, in fatto di cognizioni geografiche, ben più innanzi degli europei del 1400 e anche del 1500. Si dice che quell’isola si estendeva al di là delle Colonne d’Ercole e che numerose altre isole più piccole la univano ad un continente. Ebbene, gettate uno sguardo sulla carta del nostro globo. Che cosa vedete all’occidente dell’Europa?”

“L’America” disse O’Donnell. che prestava grande attenzione alle parole dell’ingegnere.

“E dopo, l’America?

“Ma possibile!”

“Aspettate: che cosa vedete?”“

“Le innumerevoli isole dell’Oceano Pacifico?”

“E poi?”

“Il grande continente asiatico-europeo!” esclamò O’Donnell.

“Io dunque concludo che l’Atlantide degli antichi era l’attuale America, che le isole che la univano all’opposto continente sono quelle dell’Oceano Pacifico e che quell’opposto continente è quello asiatico-europeo, il solo che gli antichi greci potevano conoscere.”

“Dunque gli antichi conoscevano la rotondità del globo.”

“Sì, O’Donnell: io ne sono convinto e affermo che essi conoscevano la nostra Terra meglio che gli europei del 1400.”

“Ma quei terremoti e quei diluvi, quelle terre subissate?”

“Quei terremoti, quel grande cataclisma può essere avvenuto, può avere inghiottito qualche isola, come può, invece, aver fatto sorgere le Azzorre e le Canarie, che sono, come ho già detto, d’origine vulcanica. Chissà? Forse gli antichi navigatori, spaventati da quel cataclisma, non ardirono più avventurarsi sull’Atlantico, e l’America rientrò nel buio e fu dimenticata fino all’epoca in cui Colombo e Caboto e via via gli altri grandi navigatori la fecero ancora conoscere alle popolazioni europee.”

Capitolo 14. Le calme tropicali

Alle cinque del mattino i raggi del sole invasero bruscamente lo spazio, illuminando l’oceano fino agli estremi limiti dell’orizzonte. Quasi contemporaneamente, il forte vento che spingeva l’aerostato verso l’est scemò grado a grado, e parve che la corrente si spezzasse, o si disperdesse, come se avesse trovato un ostacolo.

Veniva forse respinta dai venti alisei, che soffiano da levante a ponente, partendo dalle coste del Portogallo e dalla Spagna, e terminando nell’America centrale? L’ingegnere, che temeva d’essere stato trascinato dall’uragano molto al sud, lo supponeva.

Se ciò era vero, per il Washington si preparava un brutto momento, poiché poteva venire afferrato da una grande corrente e ricondotto verso le coste americane, senza che gli arditi aeronauti avessero potuto opporvisi in modo alcuno.

“A mezzodì faremo il punto e sapremo dove ci troviamo” disse Kelly ad O’Donnell che lo interrogava. “Speriamo di non essere discesi tanto al sud.”

Il caldo però cresceva di mano in mano che il sole si alzava sull’orizzonte, e questo era un indizio certo che l’aerostato era stato condotto nelle regioni ardenti del tropico del Cancro. Alle nove il termometro già toccava i 32° Rèaumur ed accennava ad alzarsi ancora.

O’Donnell, abituato ai climi freddi del Canada, cominciava a soffrire assai ed aveva disteso la tenda per difendersi dai morsi di quel sole, diventato così bruscamente insopportabile. Il solo Simone, da vero negro, pareva che si trovasse benissimo in quella temperatura elevata: anzi sembrava che si fosse persino calmato, poiché ora se ne stava silenzioso, non aveva più gli sguardi smarriti, né il suo viso manifestava l’impressione paurosa di prima.

Alle dieci il pallone era quasi immobile. Una calma assoluta regnava sopra l’oceano, il quale, col cessare del vento, era ridiventato tranquillo e terso come una immensa lastra azzurra.

“Ci troviamo nelle regioni tropicali” disse l’ingegnere che da qualche minuto osservava la superficie dell’Atlantico.

“Da che cosa lo arguite?” chiese O’Donnell.

“Vedete laggiù volare quegli uccelli?”

L’irlandese si curvò sul bordo della navicella e col cannocchiale vide alcuni volatili dalle penne bianche e nere, le ali forcute, la coda fornita di due lunghe penne, i quali si precipitavano di quando in quando sui flutti con estrema rapidità, per pescare i pesci che guizzano alla superficie.

“Che uccelli sono?” chiese.

“Fetonti, o, come li chiamano i marinai, paglie in coda. Questa specie non si allontana mai dai tropici.”

“Ma come si trovano qui, a una così grande distanza da terra?”

“Sono uccelli dal volo potente e possono in poche ore attraversare incredibili distanze. Chissà? Forse hanno i loro nidi alle Azzorre, o alle Canarie, o alle isole del Capo Verde.”

“Dove ci troviamo noi dunque?”

“Lo sapremo fra un’ora e mezzo. O’Donnell. Il mezzodì non è lontano.”

Durante quell’ora e mezzo il Washington non guadagnò più di dieci miglia: il calore invece aumentò sempre più, toccando i 35 gradi. Se a quell’altezza di 3800 metri era così elevato, quale non doveva essere presso la superficie dell’oceano? Colà il termometro doveva segnare i 40 gradi, se non di più.

A mezzodì preciso, l’ingegnere fece il punto. Fatto rapidamente il calcolo, dopo le osservazione dell’ottante constatò che il Washington si trovava a 17° 15’ di longitudine ovest, ed a 24° 39’ di latitudine nord.

“Siamo a poche miglia dal tropico” diss’egli. “I fetonti non mi avevano ingannato.”

“Dobbiamo aver percorso una distanza immensa da ieri a stamane” disse O’Donnell. “Ieri ci trovavamo a…”

“A 32° 54’ di longitudine e a 30° 7’ di latitudine” disse l’ingegnere.

“Dunque noi abbiamo percorso in ventiquattr’ore?”

“Circa mille miglia verso il sud-est.”

“Sfido qualunque vascello a varcare uno spazio in così breve tempo. Se il vento ci spingesse sempre in tale direzione dove ci trascinerebbe?”

“Verso le isole del Capo Verde.”

“E se ci portasse all’est?”

“Sulle coste del deserto di Sahara.”

“Dove andiamo ora?”

“All’est.”

“Ma gli alisei in questa regione, Mister Kelly?”

“Non sono lontani, e se scendiamo poche decine di leghe verso il sud, li incontreremo. Sapete dove temo di trovarmi?”

“Non lo saprei.”

“Nella zona delle calme del Cancro.”

“Brutta scoperta. Mister Kelly.”

“Terribile, O’Donnell, poiché queste calme possono tenerci immobili, o quasi, per parecchi giorni e forse per delle settimane. Il nostro aerostato ha, si può dire le ore contate e cadrà in pieno oceano.”

“Ma abbiamo la navicella.”

“È vero; ma le nostre provviste sono limitate, e soprattutto l’acqua comincia a scemare rapidamente, con questo calore intenso.”

“Diavolo! La cosa è più seria di quanto credessi, Mister Kelly. Tuttavia non disperiamo: chissà che questa calma si rompa ben presto e il vento ci sospinga sulle coste africane.”

Quella calma che li imprigionava non accennava a cambiarsi. Pareva che le correnti aeree si fossero disperse, o che il calore solare le avesse assorbite, poiché non soffiava il più leggero alito di vento, né in alto, né presso la superficie dell’oceano, che era liscia come un cristallo. Solo il caldo aumentava in modo inquietante, facendo rapidamente svaporare la provvista di acqua racchiusa nei barili di alluminio. Per colmo di sventura, l’idrogeno sfuggiva attraverso i pori della seta. Si era guastata la vernice in qualche punto, a causa dell’umidità depositata sugli aerostati dalle nubi, o si scioglieva invece per l’estremo calore? Forse per un motivo, o per l’altro, la forza ascensionale del Washington era scemata, e verso le punte estreme dei due immensi fusi tornavano a disegnarsi delle pieghe. Da tremilaseicento metri, in otto ore, era disceso di quasi cinquecento. Se non avessero gettato quel sacco di zavorra, sarebbe forse disceso di altri mille.

L’ingegnere tuttavia non si sgomentava, possedeva ancora i suoi quattrocento metri cubi di idrogeno e circa seicentocinquanta chili di zavorra, o con questi mezzi calcolava di mantenere in aria il suo aerostato parecchi giorni ancora. Scomparso il sole, la discesa del Washington si accentuò e divenne ben presto assai rapida, abbassandosi la temperatura di parecchi gradi in pochi quarti d’ora. Alle dieci non era che a duecento metri dalla superficie dell’oceano. Prevedendo un’altra caduta e volendo risparmiare la zavorra più che poteva, l’ingegnere fece gettare la guide-rope unitamente ai due coni e all’àncora a branchi.

Poiché gli oggetti immersi in acqua perdevano una parte del loro peso specifico, con tale manovra si scaricava l’aerostato di un peso non disprezzabile. Infatti, il Washington malgrado la temperatura continuasse a scemare, arrestò la sua discesa, mantenendo i suoi duecento metri.

Quella prima notte, passata fra le calme del tropico, fu tranquilla. L’aerostato rimase perfettamente immobile, lasciando agio agli aeronauti di riposare comodamente. L’ingegnere però, che dormiva con un solo occhio, fu svegliato più volte dai balzi dei pesce-cani, i quali si erano radunati in parecchi sotto il Washington urtando più volte i due coni e l’ancorotto. All’alba il sole apparve all’orizzonte bruscamente, fugando le tenebre, e la temperatura, che era scesa a 28 gradi, salì quasi istantaneamente a 34 gradi. Il Washington parve che si svegliasse di colpo e s’innalzò lentamente nell’aria, ma quasi a malincuore. stentatamente. Quegli uomini, quella zavorra, quel battello e tutti gli oggetti che conteneva, cominciavano a diventare pesanti per le sue forze, che a poco a poco s’indebolivano, pari a quelle d’un ferito che perde lentamente il proprio sangue.

 

Tuttavia risali fino a settecento metri, e toccata quell’altezza, incontrò una debole corrente d’aria che si dirigeva verso l’est, ma con una leggera deviazione verso il sud-est.

“Hum!” fece O’Donnell, che si era svegliato. “Siamo un po’ ammalati, Mister Kelly. Le forze del vostro valoroso Washington se ne vanno, e bisognerà rinvigorirle.”

“Lo credo, O’Donnell.” rispose l’ingegnere. “Se questa calma continua, non so che accadrà di noi.”

“A che velocità ci spostiamo?”

“Appena sette miglia all’ora.”

“Diavolo! Il nostro Washington è diventato una lumaca! Ditemi, Mister Kelly: vi sono stati degli aeronauti che sono precipitati in mare coi loro palloni?”

“Molti, come ve ne sono stati molti che si sono schiacciati contro terra.”

“La lista dei naufragi aerei deve essere immensamente lunga, Mister Kelly.”

“Meno di quello che si crede, O’Donnell, e le catastrofi avvenute si devono quasi sempre alle imprudenze degli aeronauti. Si calcola che siano state fatte, dalla scoperta dei palloni, più di ventimila ascensioni, e le disgrazie non superano forse il centinaio.”

“Devono però essere state tremende!”

“Questo è vero. O’Donnell, poiché quando un pallone scoppia o precipita, nessuna manovra può salvare l’aeronauta.”

“Chi sono stati i primi a fare quel terribile capitombolo?”

“Pilâtre, il rivale di Blanchard, e il suo compagno Romain, furono le prime vittime della scienza aerostatica. Si erano innalzati da Boulogne il 15 giugno del 1785, per tentare la traversata della Manica e scendere in Inghilterra, con un pallone munito di un fornello, il quale doveva mantenere il gas continuamente dilatato, introducendo una corrente d’aria calda in una specie di tubo. Volendo innalzarsi di più, invece di spegnere il fornello, lo attivarono, e il pallone scoppiò con un rimbombo formidabile. I due disgraziati piombarono a terra, sfracellandosi in mezzo a un bosco, a circa quattro chilometri dalla città, accanto a una torre che esiste ancora. Pilâtre fu ucciso sul colpo: il suo compagno respirò alcuni minuti, poi morì, senza aver pronunciato una parola. Una modesta colonna, situata all’estremità d’una prateria, ricorda la tragica fine di quelle prime vittime dell’aerostatica. Zambeccari, ardito aeronauta italiano, che diede un grande impulso all’aerostatica, fu un’altra vittima. Sfuggito miracolosamente alla morte in pieno Adriatico, sul quale il vento lo aveva trascinato dopo essersi innalzato da Bologna il 21 Ottobre 1804, alcuni anni più tardi morì bruciato sotto gli occhi della moglie, dei figli e d’un numero immenso di spettatori, essendosi rovesciata la lampada che serviva a dilatare il gas. Il suo corpo fu trovato carbonizzato.”

“Quale orribile fine!” esclamò O’Donnell, rabbrividendo.

“Nel 1802 Olivari s’innalzò con una semplice mongolfiera di carta: il suo pallone prese fuoco, e quell’audace precipitò al suolo, sfracellandosi.”

“E aveva avuto l’audacia di salire con un pallone di carta?”

“Sì, O’Donnell, ma simili audacie si chiamano pazzie. Il 7 Aprile 1806 Momesent s’innalzò con un pallone fornito d’una tavola invece di una navicella, per renderlo più leggero. L’aeronauta perdette l’equilibrio e andò a schiantarsi nei fossati della città di Lilla, scavandosi da se stesso una tomba nella sabbia.”

“Che capitombolo!”

“Il 17 Luglio 1812 Bittorf salì con una mongolfiera di carta e morì come Olivari, vittima della sua imprudenza. Più tardi precipitarono i fratelli Brachet, che alla navicella avevano sostituito un contrappeso. Non avendo potuto rallentare la discesa del pallone, si sfracellarono contro terra. Il 6 Luglio 1819 è una donna che cade vittima della sua audacia, la prima che avesse osato lanciarsi nelle alte regioni dell’aria. È la signora Blanchard: piombò sul tetto di una casa a Parigi e rimase uccisa.”

“Povera signora!”

“Dimenticavo La Mountain un imprudente alzatosi il 4 Luglio 1874 con una mongolfiera a Jone, nel Michigan. Invece di imprigionare il pallone nella rete, come si usò sempre, aveva avuto la disgraziata idea di racchiuderlo fra delle funi non arretate: queste si ravvicinarono le une alle altre, la mongolfiera uscì e lo sventurato aeronauta precipitò insieme alla navicella e alle corde penzolanti, schiacciandosi su di un campo, sotto gli occhi di migliaia di spettatori terrorizzati.

Dimenticavo Durof, innalzatosi il 31 Agosto 1874 a Calais assieme alla sua giovane moglie. Fu questo uno dei più drammatici naufragi aerei. Il suo aerostato, che si chiamava Tricolore, venne trascinato sull’oceano e dopo dodici ore cadde fra le onde. Marito e moglie, aggrappati al cerchio, lottarono disperatamente fra i marosi che cercavano di strapparli dal cerchio e d’inghiottirli, finché la giovane donna svenne. Suo marito la sostenne e non lasciò il cerchio. Una nave li scorse, gettò in acqua un canotto ed ebbe la fortuna di salvarli!

L’ultima catastrofe fu quella dello Zenith il pallone montato da Croce-Spinelli, Silvel e Tissandier. Voi sapete che solo quest’ultimo si salvò.”

“E un’ecatombe di aeronauti. Mister Kelly.”

“V’ingannate, O’Donnell. Forse, in ventimila viaggi fatti dalle navi, le vittime inghiottite dagli oceani sono più numerose.”

“E dite che queste catastrofi si devono alle imprudenze degli aeronauti?”

“Sì, ma talvolta anche degli spettatori, del popolo che assiste alle ascensioni e che non tiene conto dei pericoli ai quali vanno incontro gli aeronauti. Fu il popolo che costringe Zambeccari a fare l’ascensione del 21 Ottobre 1804 a Bologna. L’aeronauta non voleva partire, essendo il vento sfavorevole; ma fu beffeggiato, chiamato codardo, ed egli partì con due compagni, Andreoli e Grassetti, senza aver preso cibo, con il fiele sulle labbra, con la disperazione nell’anima: trascinati sopra l’Adriatico, furono salvati per miracolo da un bastimento. Nel 1812, il 21 Settembre, quello stesso popolo bolognese lo forzò ad affrettare l’ascensione: il pallone s’incendiò e il disgraziato morì bruciato vivo. Ad Arban toccò una sorte consimile, a causa del popolo triestino, che l’8 Settembre 1846 lo costrinse con ingiurie e minacce a innalzarsi malgrado il vento contrario, senza corda-guida, senza un’ancora, e venne raccolto morente in mezzo all’Adriatico. Ma quell’uomo era predestinato a venire inghiottito dal mare. Infatti, alcuni anni più tardi s’innalzava a Barcellona e…”

L’ingegnere non proseguì, si era girato verso l’est e i suoi occhi parevano fissi su qualche cosa.

“Scorgete qualche nave?” gli chiese O’Donnell.

“Non so che cosa sia, ma vedo laggiù un punto nero, che mi sembra immobile.”