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Capitan Tempesta

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CAPITOLO XXVIII. Il tradimento d’Haradja

Tornò indietro, senza essersi fatta vedere dalla scorta e chiamò il maggiordomo, che attendeva i suoi ordini in una sala attigua a quella che Haradja usava ordinariamente per ricevere le persone di sua confidenza e cenare o pranzare in loro compagnia.

Il turco, un vecchio eunuco assai obeso e di statura quasi gigantesca, doveva aver già indovinato il pessimo tiro giuocato dalla sua padrona al Leone di Damasco, poichè, nel vederla entrare, si era permesso di sorriderle e di ammiccare furbescamente gli occhi.

– Il sotterraneo è sicuro? – chiese Haradja.

– Sì, padrona, – rispose l’eunuco, – Non ha che una sola uscita e quella è chiusa da una porta laminata in ferro, capace di resistere anche ad una colubrina.

– Va’ a chiamare il comandante dei giannizzeri ed intanto fa’ servire alla scorta di Muley-el-Kadel caffè, gelati e dolci e pregali di disarmare e di riposarsi, finchè il loro padrone avrà terminato di far colazione con me.

– Obbediranno?

– Ne dubiti?

– Ho veduto il Leone di Damasco sussurrare delle parole agli orecchi di quel negro, che sembra sia il comandante della scorta.

– Va’ e non occuparti d’altro. Al resto penso io. Attendo il capitano dei giannizzeri nella mia sala.

L’eunuco, quantunque fosse poco persuaso, discese lo scalone e comandò a parecchi schiavi, che l’aspettavano sulla soglia d’una stanza a pianterreno, di portare dei copiosi rinfreschi alla scorta, poi mosse risolutamente verso Ben-Tael che pareva s’impazientisse di non veder tornare il suo padrone.

– Prega i tuoi uomini di spegnere le micce dei loro archibugi e di scendere da cavallo, – gli disse. – Il Leone di Damasco sta pranzando colla mia padrona e non sarà fra voi prima di un’ora.

Ben-Tael fece un gesto di stupore.

– Il mio signore pranza colla nipote del pascià! È impossibile!

– E perchè? – chiese l’eunuco. – Che cosa vi trovi di strano? Forse che il Leone di Damasco non era un amico della mia padrona?

– Era, – disse Ben- Tael. – Ma non so se lo sia ancora e noi non siamo giunti in qualità veramente di amici.

Dirai quindi al mio signore che noi aspetteremo il suo ritorno rimanendo in sella.

– Haradja vi manda dei rinfreschi, – disse l’eunuco, accennando agli schiavi che s’avvicinavano portando dei larghi vassoi d’argento pieni di chicchere, di tazze e di tondi colmi di pasticcini d’ogni genere.

Ben-Tael lo guardò fisso negli occhi, come avesse cercato di leggergli qualche segreto pensiero, poi rispose, con accento risoluto:

– Noi non abbiamo bisogno di nulla. Ringrazierai però egualmente la tua signora della sua gentile attenzione a nostro riguardo.

– Rifiutate?

– Sì, – risposero asciuttamente gli uomini della scorta ad una voce.

– La mia padrona potrebbe offendersi.

– Il Leone di Damasco la tranquillizzerà, – disse Ben-Tael. – Noi dobbiamo obbedire ai suoi ordini e, finchè non verrà lui a dirci di accettare, non assaggeremo nulla.

– È troppo occupato per disturbarlo per una cosa così da poco.

– Aspetteremo.

L’eunuco, comprendendo che non sarebbe mai riuscito a smuovere il negro se ne andò assai di cattivo umore, temendo un brutto scoppio d’ira da parte della sua irascibile padrona.

La trovò infatti nella sala da pranzo che girava attorno alla tavola come una tigre in gabbia, col viso animato da una collera terribile e gli occhi fiammeggianti.

In un angolo, mogio mogio, stava il capitano dei giannizzeri che aveva mandato a chiamare.

– E tu, sei riuscito almeno? – chiese la nipote del pascià, volgendosi come una furia verso il povero eunuco.

– Quegli uomini hanno rifiutato non solo di assaggiare i tuoi pasticci ed i tuoi gelati, bensì anche di disarmare e di scendere da cavallo.

– Hanno qualche sospetto forse? – chiese Haradja, impetuosamente.

– Qualche cosa temono di certo, signora. Mi sembrano tutti turbati e assai stupiti che il loro signore abbia accondisceso a pranzare con te.

– E tu, capitano, non rispondi della fedeltà dei tuoi giannizzeri? – chiese Haradja, volgendosi al comandante del corpo di guardia.

– Si tratta del Leone di Damasco, signora, e dubito che essi si prestino a distruggere la sua scorta. Quel giovane è troppo popolare fra l’esercito mussulmano e sono certo che tutti i soldati si ribellerebbero, anche se tale ordine venisse dato dal gran Vizir Mustafà.

– Ebbene, distruggerò gli uni e gli altri! – gridò Haradja con esaltazione.

Poi, volgendosi verso l’eunuco:

– Chiama a raccolta tutti gli schiavi e gli arabi della mia scorta e fa occupare da loro le terrazze superiori e tu, capitano, va’ a disarmare i tuoi uomini giacchè non posso contare sulla loro fedeltà.

Staccò dalla parete una scimitarra da combattimento, levandosi quella leggera e ricchissima che portava più per ornamento che per altro, chiamò i due arabi che stavano di guardia nel corridoio e comandò loro di accendere le micce dei loro archibugi e di seguirla nel cortile.

La scorta di Muley-el-Kadel non si era mossa e all’estremità del cortile si trovavano radunati i giannizzeri del corpo di guardia del ponte levatoio. Avevano ancora le loro armi e discutevano animatamente col loro capitano.

Sulle terrazze dominanti il cortile una trentina di servi e di arabi avevano preso posto sui parapetti, armati di lunghi archibugi.

Ben-Tael, sicuro del valore dei suoi damaschini che aveva scelti con grande cura, aveva guardato senza paura Haradja, che s’avanzava verso di lui colla fronte aggrottata e la sinistra posata fieramente sulla guardia della scimitarra.

– Sei tu che comandi la scorta? – chiese al negro, con voce sprezzante.

– Sì, signora.

– Ma… io ti ho veduto ancora! Tu eri fra gli uomini di Hamid! È vero.

– Non lo nego.

– E osi presentarti ancora dinanzi a me, cane d’un negro! – gridò Haradja furibonda.

– Io devo obbedire agli ordini del mio padrone, signora, – rispose Ben-Tael, freddamente.

– Sei dunque uno schiavo di Muley?

– Sì.

– Scendi da cavallo e getta le tue armi.

– Non posso obbedirvi, signora: solo dal Leone di Damasco posso ricevere degli ordini.

– Miserabile! Sono la nipote del Pascià! Disarmate tutti o nessuno di voi uscirà vivo dal mio castello.

Nessuno dei trenta uomini si mosse, nè spense le micce degli archibugi, anzi, Ben-Tael che teneva in mano due pistole, aveva fatto atto di puntarle verso la castellana.

– Mi avete capito? – gridò Haradja, che per la prima volta si vedeva contrariata nei suoi comandi.

– Noi disarmeremo, signora, – disse Ben-Tael, – solo quando vedremo comparire qui il nostro signore. Che cosa ne avete fatto del figlio del potente Pascià di Damasco? Noi vogliamo saperlo.

– Tu lo vuoi?

– Sì, signora, – rispose lo schiavo alzando la voce, onde anche i giannizzeri che assistevano alla scena potessero udirlo. – Voi avete arrestato il Leone di Damasco e fors’anche lo avete ucciso!

Un mormorio minaccioso s’era alzato dalla scorta e fra tutti quegli uomini era passato come un fremito d’ira, a malapena represso.

– Conducete qui il Leone, signora! – gridò lo schiavo.

– Ah! Tu comandi a me? – disse Haradja, rossa di collera. – A me, giannizzeri! Disarmate questi uomini e mandateli a raggiungere, nei sotterranei del castello, Muley-el-Kadel.

Con suo immenso stupore anche i suoi uomini non si erano mossi, quantunque il loro capitano avesse gridato ripetutamente:

– Avanti! Obbedite!

– Vili! – gridò Haradja. – Vi farò impalare tutti!

Poi, alzando una mano verso i servi e gli arabi che stavano sulle terrazze, comandò:

– Fuoco! Spazzatemi questi traditori!

I trenta uomini della scorta, con una mossa simultanea avevano puntati gli archibugi verso le terrazze, facendo una scarica terribile, mentre Ben-Tael sparava le sue pistole sui due arabi che seguivano Haradja facendoli stramazzare moribondi sulle pietre del cortile.

Mentre servi e arabi, presi da un panico indescrivibile fuggivano all’impazzata attraverso le terrazze, lo schiavo, approfittando dello stupore di tutti, si era gettato giù da cavallo ed era piombato su Haradja afferrandola strettamente per una mano e puntandole contro il jatagan che si era levato dalla cintura.

– Signora, – le disse, mentre i suoi uomini ricaricavano precipitosamente gli archibugi – non vi farò alcun male Purchè diate ordine che si conduca qui subito Muley-el-KadeL. Se vi rifiutate, giuro sul Corano che vi ucciderò, qualunque cosa possa dopo accadere.

Haradja era rimasta muta ed immobile. Pareva che quell’atto audace avesse paralizzata la sua indomabile energia.

– Il Leone di Damasco o la morte, signora! – ripeté Ben-Tael, con voce ancor più minacciosa.

Haradja tentò con uno sforzo supremo di liberarsi da quella stretta senza potervi riuscire, possedendo lo schiavo di Muley-el-Kadel, sotto un’apparenza piuttosto gracile, una muscolatura di ferro.

– Non mi sfuggirete, signora, – le disse Ben-Tael. – È inutile che tentiate di resisterci e vi avverto anzi che noi siamo uomini da andare fino a fondo.

– A me, giannizzeri! – ripetè Haradja, con voce strozzata dal furore.

Anche questa volta i selvaggi e formidabili soldati del Sultano non alzarono le armi e non lasciarono il loro posto. Solamente il capitano si era slanciato innanzi per accorrere in suo aiuto e, fatti pochi passi, aveva dovuto subito fermarsi dinanzi a quattro archibugi che lo avevano preso di mira.

– Non avanzare, comandante, – aveva gridato un uomo della scorta, – o comando il fuoco!

Dinanzi a quella minaccia, il povero capitano non aveva più osato inoltrarsi. Haradja capì finalmente di non poter più contare sopra nessuno, nemmeno sugli arabi e sugli schiavi, i quali, dopo la prima scarica che aveva fatto parecchi vuoti nelle loro file, non avevano più il coraggio di mostrarsi sulle terrazze.

 

– Cedo alla violenza, – disse, coi denti stretti, saettando su Ben-Tael uno sguardo pieno d’odio. – Ricordati però che un giorno la nipote del pascià si vendicherà terribilmente di te e che non morrà contenta se prima non ti avrà fatta strappare di dosso la tua nera pelle.

– Quel giorno farete di me quello che vorrete, signora, – rispose lo schiavo. – Pel momento, se vi preme salvare la vostra, dovete far condurre qui, senza ritardo, il mio padrone e signore. Non vi accordo che cinque minuti di tempo.

Haradja si volse verso l’eunuco che gli stava a pochi passi, più morto che vivo per lo spavento.

– Conduci qui il Leone di Damasco, – gli disse.

– Quattro uomini lo seguano e lo uccidano se cerca d’ingannarci, – disse Ben-Tael, volgendosi verso la scorta.

Quattro cavalieri balzarono a terra e presero in mezzo il disgraziato eunuco, soffiandogli in faccia il fumo delle micce degli archibugi.

– Avanti e senza volgerti indietro, – gli disse uno dei damaschini, spingendolo ruvidamente, – e bada soprattutto alla tua testa che mi pare sia piuttosto pesante pel tuo collo.

Il pover’uomo, che tremava come una foglia, guidò i quattro uomini verso la base d’uno dei torrioni, aprì una porticina ferrata e scomparve colla scorta.

Ben-Tael aveva subito allentata la stretta, lasciando libera la nipote del grande ammiraglio, dicendole:

– Aspettate il ritorno del Leone di Damasco, mia signora. Forse avrà ancora qualche cosa da dirvi prima di lasciare il vostro castello.

Haradja si morse le labbra a sangue e non rispose.

Trascorsero alcuni minuti. I damaschini, sempre a cavallo, sorvegliavano attentamente le terrazze, pronti a sparare sugli arabi e sugli schiavi se avessero osato mostrarsi.

I giannizzeri guardavano ora la scorta del giovane Leone ed ora Haradja, senza aprire bocca, colle micce degli archibugi spente, decisi a quanto sembrava a nulla tentare contro il più popolare eroe dell’esercito mussulmano ed a sfidare la collera della loro padrona, senza darsene molto pensiero.

Ad un tratto i quattro damaschini apparvero, gridando:

– Salutate il Leone di Damasco!

Muley-el-Kadel era comparso dietro di loro tranquillo e sorridente.

Si fermò un momento, guardando i suoi uomini che agitavano festosamente i loro elmetti, lanciò su Haradja uno sguardo sprezzante, attraversò poi lentamente il cortile e salì sul suo cavallo, che Ben-Tael teneva per le briglie.

– Partiamo, – disse semplicemente.

La scorta gli si mise dietro e sfilò fra i giannizzeri che si erano affrettati ad aprire le file, gridando:

– Lunga vita al Leone di Damasco!

Muley-el-Kadel fece loro un gesto d’addio e attraversò il ponte levatoio.

Quando fu all’estremità del piccolo altipiano si volse e vide ferma in mezzo al ponte la nipote del Pascià che gli tendeva il pugno con un gesto minaccioso.

– Tigre! – mormorò il giovane. – Riprendimi ora se lo puoi.

E spronò il cavallo vivamente, raggiungendo in brevi istanti le pianure acquitrinose.

Solo là Muley-el-Kadel rallentò alquanto la corsa, per lasciarsi raggiungere da Ben-Tael che era rimasto indietro colla scorta.

– È necessario impedire che la galera di Metiub giunga a Hussif o la duchessa sarà perduta disse al fedele schiavo.

– E come faremo, signore? Non abbiamo navi sottomano.

– A Suda vi sono parecchie gagliotte prese ai greci e gran numero di rinnegati dell’Arcipelago e sono sia le une che gli altri sotto gli ordini del capitano Chitet, un uomo che mi deve molta riconoscenza e qualche cosa d’altro ancora.

Egli metterà tutto il suo naviglio a mia disposizione, senza sollevare alcuna difficoltà e vedremo se la galera di Metiub potrà resistere all’attacco di una mezza dozzina di quei velieri montati da gente risoluta come noi, e da rinnegati, certo ansiosi di menar le mani contro i miei compatrioti.

Vi è una via che costeggia il mare?

– Sì, padrone, ed è la più breve per giungere a Suda.

– La conosci?

– Come questa.

– Andiamo dunque a vedere il Mediterraneo – concluse Muley-el-Kadel. – Non si tratta che di far presto.

– In quattro ore noi saremo a Suda, se i cavalli non cadranno.

– Spero che resisteranno a questo ultimo sforzo.

Lasciarono la pianura acquitrinosa e piegarono verso ponente, dove una serie di collinette divideva la campagna dalle rive del Mediterraneo.

Trovata facilmente una gola attraverso quelle alture, scesero verso la spiaggia slanciandosi sulle dune, fra le quali gli isolani avevano aperto un sentiero che le sabbie, sollevate dai venti di scirocco e di ponente, avevano quasi interamente coperto.

Galoppavano da un paio d’ore, aizzando sempre i poveri animali che avanzavano penosamente, ansando e sbuffando, quando dietro una duna s’alzò un uomo seminudo, molto abbronzato, che gridò con voce stentorea:

– Ferma, Ben-Tael! Salute al Leone di Damasco!

Tutta la scorta si era fermata, sguainando le scimitarre, temendo che dietro le dune si tenessero celati altri uomini.

Ad un tratto un grido sfuggì allo schiavo di Muley-el-Kadel.

– Nikola Stradioto!

– Chi è costui? – chiese il Leone di Damasco.

– Un greco, quello che guidava la gagliotta e che ci condusse a Hussif.

– Come ti trovi qui tu? – chiese Muley, facendogli cenno di accostarglisi.

– Una domanda prima, signore. Dove andavate? In cerca della duchessa?

– Sì, e vengo in questo momento dal castello d’Hussif, credendo che fosse stata condotta colà.

– Si trova altrove, signore, e se non vi affrettate a correre in suo aiuto, non so se si salverà dalle zampe dell’avventuriero polacco.

Essi fuggono inseguiti dai marinai di Metiub.

– Che cosa mi racconti tu?

– La galera è stata incendiata da me e da papà Stake ed è affondata, non c’è quindi per ora pericolo che i cristiani vengano ricondotti a Hussif.

– E dov’è la duchessa? – chiese Muley con profonda emozione.

– Non molto lontana da qui.

– Vi è anche il visconte con lei?

– No, l’avventuriero polacco l’ha annegato. Io ho veduto quel miserabile lasciarsi cadere in fondo al mare e tornare a galla solo. Stavo per abbandonare la gagliotta ed io ho assistito all’assassinio di quel disgraziato gentiluomo.

– Sali dietro di me e guidaci, ma dimmi prima perchè ti trovavi qui.

– Mi avviavo verso il castello colla speranza di trovarvi, essendomi immaginato che Ben-Tael vi avrebbe condotto colà, non avendo egli potuto assistere al disastro della galera e…

Una scarica di archibugi, che risuonò in lontananza, dietro la linea delle colline, gli impedì di proseguire.

– Monta! – gridò Muley-el-Kadel, estraendo la scimitarra.

Poi, volgendosi verso i suoi uomini, comandò con voce tuonante:

– Alla carica e non risparmiate i soldati di Haradja. Il Leone di Damasco vi guida!

CAPITOLO XXIX. La morte del polacco

Quantunque la duchessa, già da quando aveva incontrato il visconte Le Hussière nel cortile del castello d’Hussif, si fosse un po’ rassegnata a perdere il fidanzato, che le lunghe privazioni ed i disagi d’una lunga campagna prima e la crudeltà d’Haradja, avevano ridotto in tristissime condizioni di salute e più ancora dopo la grave ferita toccatagli, apprendendone la morte aveva avuto un lungo svenimento, seguito da una disperata crisi di lagrime.

Per un momento papà Stake, El-Kadur e Perpignano, che la curavano amorosamente sotto una tenda improvvisata con una vela trovata in una delle scialuppe, avevano avuto il timore che perdesse la ragione.

Fortunatamente, ventiquattro ore dopo, la crisi era cessata ed una calma improvvisa era subentrata, permettendo alla duchessa di chiudere gli occhi e di addormentarsi.

Metiub, che pensava sempre a quel famoso colpo di spada e che temeva di non poterlo imparare mai più, dopo d’aver fatto improvvisare un accampamento fra le dune pei suoi sessanta uomini che erano riusciti a salvarsi, non aveva mancato di visitare parecchie volte la duchessa, spingendo la sua generosità fino a mettere a disposizione dei cristiani una parte dei viveri, che alcuni uomini previdenti, anche fra tutto quel trambusto, erano riusciti ad imbarcare.

Il polacco si era pure presentato sotto la tenda, ma gli sguardi poco rassicuranti di papà Stake ed il contegno sprezzante di Perpignano l’avevano consigliato a tenersi lontano. Il dubbio che potesse essere stato lui ad assassinare il visconte, si leggeva troppo chiaro sui volti oscuri di quei due uomini e l’avventuriero non desiderava, pel momento, avere questioni.

– Cadrà egualmente fra gli artigli dell’Orso, anche se voi veglierete su di lei, – si era detto il briccone, uscendo dalla tenda. – Fra poco faremo i conti anche con voi, miei poveri galli spennati e si era ben guardato dal farsi vedere fra le dune occupate dai cristiani.

Come abbiamo detto, dopo ventiquattro ore, la duchessa, calmatasi un po’, si era addormentata. Era appunto quel sonno riparatore che attendevano ansiosamente El-Kadur, Perpignano e papà Stake.

– Ecco il momento di deciderci, – disse il vecchio marinaio, – Una notte ancora perduta e noi andremo a girare come mostraventi sulle aste di ferro che s’innalzano sulle torri d’Hussif.

Io ho saputo che quest’oggi è giunto all’accampamento uno dei messi mandati da Metiub nei villaggi della costa e che ha recata la notizia che domani una gagliotta giungerà per raccoglierci.

– Sai questo? – disse Perpignano, spaventato.

– Me l’ha assicurato un mastro che avvicina Metiub.

– Allora bisogna decidersi prontamente, – disse El-Kadur.

– Non si tratta altro che di alzare i tacchi appena i turchi si saranno addormentati, – rispose papà Stake. – Io credo che la duchessa, con quattro o cinque ore di buon sonno sarà in grado di seguirci. Ha una fibra meravigliosa, più resistente di quella d’un capitano di ventura… Per San Marco! Ed il polacco? Non veglierà quel briccone?

– Ed io non ci sono?

– Che cosa vuoi dire, El-Kadur?

– Che un pugnale lo tengo nascosto sotto la mia fascia e che sarà pronto a spaccare il cuore di quel miserabile.

– Adagio, arabo del mio cuore, getta un po’ d’acqua nel tuo sangue ardente. Qui non siamo nel deserto e dobbiamo essere estremamente prudenti.

– Se ci sbarrasse la strada?

– Allora farai quello che meglio ti piacerà. Se però dormirà anche lui come un ghiro, lascialo in pace. Un giorno lo ritroveremo, spero e allora vi sarà anche il vecchio Stake a prestarti man forte.

– Concludiamo, – disse Perpignano. – Per che ora la fuga?

– Il più tardi possibile, tenente, onde lasciar tempo alla signora duchessa di rimettersi meglio dal terribile colpo ricevuto. E poi, alle tre o alle quattro si dorme più intensamente che alla mezzanotte.

– Dovremo procurarci almeno delle armi, perchè noi saremo indubbiamente inseguiti dopo l’alba osservò il tenente.

– I mussulmani hanno portato con loro un certo numero di pistole e di moschetti e anche delle scimitarre disse El-Kadur, – Sono nelle scialuppe ed a me non sarà difficile andare a rubarle quando tutti dormiranno.

– Tu sei un uomo prezioso, pezzo di pan bigio, – rispose papà Stake. – Se t’imbarcherai un giorno con me, ti nominerò di colpo quartiermastro, il che equivale quasi al grado di nostromo.

L’arabo scosse il capo sorridendo tristamente.

– El-Kadur non lascerà vivo Cipro, – disse poi.

– Che idee lugubri, – rispose papà Stake. – Io non ne ho mai avute! Orsù, gettiamoci intorno alla tenda e dormiamo con un solo occhio. Dobbiamo guardarci dal polacco.

– Veglierò io, – disse El-Kadur – riposatevi pure.

Perpignano e papà Stake uscirono, mentre l’arabo si accoccolava accanto alla duchessa, la quale dormiva tranquillamente.

I mussulmani si erano dispersi per le dune, scavandosi delle profonde buche nella sabbia, onde dormire più comodamente. Avevano divorata in fretta la loro magra razione, composta esclusivamente di biscotti e sapendo di non correre alcun pericolo da parte dei loro compatrioti, si erano sdraiati nei loro letti improvvisati.

Perpignano, papà Stake, Simone ed i rinnegati, avevano creduto opportuno d’imitarli, onde avere le gambe più leste per prendere il largo al momento opportuno.

Malgrado tutte le sue buone intenzioni, anche il vecchio marinaio si era addormentato e non con un solo occhio. Il povero vecchio non era meno stanco dei giovani, anzi aveva maggior bisogno di riposo di loro, malgrado la robustezza incredibile della sua fibra.

Dormiva da parecchie ore, quando fu bruscamente svegliato da una mano che lo scuoteva fortemente.

 

Aprì gli occhi e s’alzò a sedere, inarcando le braccia, pronto a tempestare di pugni l’importuno.

Vedendo El-Kadur si contenne.

– È l’ora?

– Tutti dormono rispose l’arabo.

– E la signora?

– È pronta a seguirci.

– E le armi?

– Ho preso due spade, quattro scimitarre e mezza dozzina di moschetti colle relative munizioni, più alcune pistole. Tutti avremo qualche arma per difenderci.

– Sei un brav’uomo, pezzo di pan bigio.

– Sbrigatevi, tutti i vostri compagni sono in piedi.

– Sono pronto: ed il polacco, dorme?

– Non l’ho veduto.

– Andiamo.

S’alzò e gettò uno sguardo all’intorno. Tutto il campo era immerso nell’oscurità e non si udiva rumore alcuno.

I turchi non meno stanchi degli altri, dormivano profondamente.

– Tutto va bene mormorò.

La duchessa si era già alzata e teneva in mano una delle due spade portate da El-Kadur. Pareva che avesse riacquistata tutta la terribile energia dell’antico Capitan Tempesta.

– Signora, – disse papà Stake – vi sentite in grado di seguirci?

– Sì, – rispose la duchessa. – Io torno la donna che combatteva a Famagosta.

Io devo salvarvi: venite, amici, e ricordatevi che noi siamo tutti cristiani e che quelli che ci stanno di fronte sono turchi, dei nemici della Repubblica di Venezia e del Leone di San Marco. Partiamo.

Tutti si erano armati ed erano pronti a qualsiasi cimento, preferendo morire colle armi in pugno, piuttosto che essere ricondotti a Hussif e finire fra i più atroci tormenti.

Camminando sulla punta dei piedi, per non far scricchiolare la sabbia delle dune, lasciarono la tenda, avviandosi verso la catena di colline che separava le pianure interne del lido. Già El-Kadur al mattino aveva esplorato quelle alture ed era riuscito a scoprire uno stretto passaggio che permetteva di oltrepassare senza difficoltà, quella linea di rocce che a prima vista erano sembrate inaccessibili.

Nell’accampamento improvvisato si udivano sempre i turchi a russare sonoramente entro le buche scavate nella sabbia.

La duchessa, che pareva avesse dimenticato in quel momento supremo perfino il disgraziato signor Le Hussière, precedeva il drappello, fiancheggiata da El-Kadur che era armato d’un moschettone la cui miccia fumava.

Raggiunsero così la base delle rocce, e non essendo stato dato alcun allarme, s’inoltrarono nello stretto passaggio scoperto dall’arabo.

Stavano per scomparire tutti entro le alte rocce tagliate a picco, quando un grido s’alzò nell’accampamento turco.

– All’armi! I cristiani fuggono!

Papà Stake aveva mandato un vero ruggito.

– Il polacco! Brigante d’un orso! Vegliava come i suoi congeneri. Gambe! Gambe! Fra poco avremo i turchi addosso!

Tutti si erano messi in corsa, mentre verso il lido si udivano grida furibonde e comandi precipitati.

– Presto! Presto! gridavano Perpignano ed il vecchio marinaio.

– Padrona, – disse El-Kadur volgendosi verso la duchessa. – Vuoi che ti porti? Tu sai che le mie braccia sono robuste.

– Non è necessario, – rispose Eleonora. – Capitan Tempesta ha riacquistate le sue forze. Avanti, miei prodi!

La stretta gola fu attraversata in un lampo ed il drappello scese verso le pianure dell’interno, correndo a tutta lena.

– Vedo laggiù una casa! – gridò El-Kadur, nel momento in cui il cielo si tingeva dei primi albori. – Cerchiamo di raggiungerla.

A mezzo miglio si scorgeva infatti vagamente, sul margine d’un vigneto devastato, una piccola fattoria col tetto coperto di stoppie.

– Rifugiamoci là dentro, – disse papà Stake. – Potremo opporre una lunga resistenza e anche…

Un grido assordante lo interruppe. I turchi avevano scoperta la stretta gola e scendevano le alture urlando. Metiub ed il polacco, furiosi di essere stati così abilmente giuocati, li capitanavano.

– Un ultimo sforzo! – gridò papà Stake. – Se cadiamo nelle loro mani ci faranno a pezzi e le nostre teste serviranno d’ornamento ai merli d’Hussif! Signora, siete stanca?

– Avanti, – rispose invece la duchessa.

Anche quel mezzo miglio fu superato e finalmente il drappello irruppe nella fattoria.

Era una casa non molto vasta, colle pareti assai massicce e che pareva fosse stata abbandonata da molto tempo dai suoi proprietari, se non erano stati invece massacrati dalle orde che Mustafà lanciava attraverso le campagne, per far ampie raccolte di teste di cristiani.

– Organizziamo subito la difesa, – disse Perpignano, dopo d’aver fatto una rapida ispezione alle quattro stanze fornite ognuna di due piccole finestre.

– Voi, signora, occupate le due camere superiori con papà Stake, Simone ed El-Kadur e prendete quattro moschetti.

Io rimango qui coi greci. Non sparate che a colpo sicuro e risparmiate, più che vi sarà possibile, le munizioni.

– E cerchiamo soprattutto di cacciare un’oncia di piombo nel cranio del polacco aggiunse papà Stake. – Non tiro male io e se mostra un pezzo solo del suo corpo è fritto e per sempre.

– Lesti! – comandò il tenente. – I mussulmani giungono.

Il drappello si divise e la duchessa coi suoi tre compagni occupò le due stanzette superiori, mettendosi dinanzi alle finestre colle micce dei moschettoni accese.

– Morte ai giaurri! Scanniamoli! Bruciamoli vivi nel loro covo.

Erano una sessantina, ma solamente tre o quattro erano armati di fucili e pochi avevano delle scimitarre e qualche scure.

Nondimeno erano sempre troppi, perchè i cristiani potessero avere la speranza di distruggerli.

Vedendo sporgere dalle finestre le lunghe canne degli archibugi, gli assalitori si erano fermati a tre o quattrocento passi, poi si erano gettati a terra, nascondendosi dietro i magri cespugli e dietro i massi che si trovavano in abbondanza intorno alla casa.

I greci avevano già aperto il fuoco, abbattendo due dei quattro fucilieri di Metiub che avevano tardato a nascondersi.

Anche papà Stake, vedendo un turco alzarsi dietro ad un cespuglio, aveva sparato mandandolo a tener compagnia alle bellissime uri del paradiso maomettano.

Gli assedianti, resi furiosi per quelle prime perdite, non tardarono a rispondere e per un paio d’ore fu un continuo scambio d’archibugiate con nessun svantaggio da parte degli assediati, che si trovavano ben riparati dietro le massicce muraglie della casa e che sparavano i loro colpi con molta prudenza.

Anche la duchessa, che aveva riacquistato il suo impareggiabile sangue freddo, aveva bruciate parecchie cariche abbattendo per suo conto tre o quattro uomini, essendo una destra bersagliera.

Così però non poteva durare a lungo. I turchi, che non avevano nessun desiderio di farsi fucilare a distanza come se fossero dei conigli, verso le dieci del mattino presero la decisione disperata di assaltare da tutte le parti la casa e di tentare una lotta corpo a corpo.

Furono infatti veduti a radunarsi, poi scagliarsi a corsa disperata, urlando sempre:

– Morte ai giaurri!

– Amici! – gridò la duchessa. – Ecco il momento terribile! Appena ci giungono sotto, mano alle spade ed alle scimitarre!

– E adoperiamo gli archibugi come mazze! – aggiunse papà Stake, che non perdeva un atomo della sua calma e del suo inalterabile buonumore. – Voglio fare una superba marmellata di carne turca e mandarla a cucinare nei forni dell’harem del Sultano.

I turchi attraversarono in un baleno lo spazio che li divideva dagli assediati e, quantunque esposti al fuoco dei moschettoni e delle pistole, che gettò a terra parecchi di loro, irruppero furiosamente entro la casa, che era priva della porta.

Perpignano ed i greci, dopo una breve lotta, sopraffatti dal numero, si ritrassero sulla scala moschettandoli a bruciapelo, poi misero mano alle scimitarre opponendo una resistenza accanita.

La duchessa ed i suoi compagni stavano per accorrere in aiuto del veneziano e dei greci, quando una parte del tetto formato di stoppie crollò e tre uomini caddero nella stanza attigua, impedendo così loro di raggiungere la scala.

La duchessa si era voltata e aveva mandato un urlo di rabbia.

– Voi, Laczinki!

– Che viene a riprendersi la sua preda, signora – disse il polacco col suo sorriso beffardo.

– Non mi avrete che morta!

In quel momento comparvero gli altri due. Erano Metiub che teneva in mano una pesante scimitarra d’abbordaggio ed uno dei suoi ufficiali.

– Occupati della donna tu, capitano! – gridò il comandante della galera. – Noi ce la sbrigheremo con costoro. Con quattro colpi saranno tutti a terra.