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Capitan Tempesta

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CAPITOLO VII. Nella casamatta

El-Kadur, quand’ebbe veduto che Famagosta era perduta e che più nessuna resistenza era ormai da tentarsi nelle viuzze della città, dopo la fuga degli schiavoni e la ritirata precipitosa dei guerrieri veneti, si era lanciato a corsa sfrenata lungo la via di circonvallazione per rifugiarsi nella casamatta della torre della Bragola, dove si sentiva più sicuro che in qualunque altro luogo.

I turchi, anche da quella parte, cominciavano già a superare le cinte e pugnavano ferocemente contro gli ultimi difensori, diventati ormai troppo deboli per poter rovesciare le scale che venivano appoggiate ai margini dei bastioni a centinaia e centinaia.

Prima che gli albanesi scendessero le scarpate interne e si rovesciassero a loro volta entro la città, come avevano già fatto i giannizzeri, l’arabo, che era agile e lesto come le antilopi dei deserti del suo paese, giunse dinanzi allo stretto passaggio e vi si cacciò dentro chiudendolo subito con quattro o cinque grossi massi, onde non si potesse scorgere dal di fuori la luce della torcia che era ancora accesa.

Il suo primo sguardo fu per la padrona.

La giovane duchessa, stesa sul materasso, era in preda ad un fortissimo delirio. Agitava le braccia come per respingere dei nemici, credendo forse di stringere ancora in mano la spada e di dare addosso ai turchi e dalle sue labbra uscivano, ad intervalli, delle frasi sconnesse.

– Là… date dentro… eccoli, salgono… le tigri dell’Arabia… ricordatevi di Nicosia… quanto sangue… quanti strazi… ecco Mustafà… fuoco su di lui… Le Hussière… la notte di Venezia… la gondola nera… sulla laguna… notte dolcissima… la luna scintilla sulla Salute… le cupole di San Marco… Sirena incantatrice… vale il golfo di Napoli… Cos’è questo rombo che si ripercuote nel mio cervello?… Ah! Sì, li vedo… salgono… il Leone di Damasco li guida… uccidono!

Un grido era sfuggito dalla bella bocca della duchessa, mentre i suoi lineamenti erano spaventosamente alterati da un’angoscia inesprimibile.

Si era alzata a sedere, puntando le mani, cogli occhi dilatati dal terrore, guardandosi intorno senza nulla vedere, poi si era nuovamente rovesciata sul materasso, richiudendoli. Una calma improvvisa era subentrata a quell’accesso di delirio. Non ansava più, il suo volto si era ricomposto e la sua bocca sorrideva. Un sonno profondissimo pareva che l’avesse colta.

L’arabo, seduto su un macigno, presso la fiaccola che lanciava di quando in quando dei bagliori sanguigni sulle nere ed umide pareti della casamatta, la guardava, tenendosi la testa stretta fra le mani ed i gomiti appoggiati sulle ginocchia.

Di quando in quando un profondo sospiro sollevava il suo petto ed i suoi sguardi, staccandosi dalla duchessa, guardavano nel vuoto come se cercasse qualche lontana visione.

Uno strano lampo brillava negli occhi del povero schiavo; la sua fronte, che non aveva ancora conosciute le rughe, si offuscava burrascosamente. Al di sotto delle palpebre due lagrime gli irrigavano le brune gote, scendendogli silenziosamente fino al mento.

– Gli anni sono passati, i vasti orizzonti luminosi, le dune di sabbia, le tende della tribù predatrice che mi ha rubato fanciullo a mia madre, le alte palme, i mehari galoppanti sul deserto sconfinato, sono stati dimenticati, ma rivedo ancora nella mia schiavitù dorata la mia dolce Laglan – mormorava.

– Povera fanciulla, rubata e chi sa in qual paese della nefasta Arabia ti trovi ora! Avevi gli occhi neri come la mia padrona, avevi il volto dolcissimo e le labbra così belle; io dormivo felice quando tu suonavi la mirimba, scordando le crudeli battiture del padrone! Ti rivedo, fanciulla, quando portavi al povero schiavo, quasi morente sotto le sferzate dei curbax di quel miserabile, l’acqua onde si dissetasse. Ti rivedo quando sulla spiaggia sabbiosa mi sorgevi dinanzi stillante acqua marina e ti riposavi all’ombra delle palme, felice di guardarmi! Tu sei scomparsa, forse sarai morta laggiù, sulle rive del Mar Rosso, che allietava coi mormorii delle sue eterne onde i nostri affetti, le speranze del nostro avvenire ed è sorta nel mio cuore un’altra donna più fatale di te.

Ricordo i tuoi occhi neri, che io fissavo ogni sera quando il sole tramontava sul mare ed i cammelli tornavano dal pascolo, ma lei ha la pelle bianca, mentre io l’ho nera e non è schiava come te. Eppure non sono un uomo anch’io? Non ero nato libero? Forse che mio padre non era un gran guerriero degli Amarzucki?

Si era alzato, comprimendosi con maggior forza la testa e rigettando dietro di sè l’ampio mantello, poi tornò a sedersi o meglio si lasciò cadere sul masso, come se quell’energia momentanea l’avesse abbandonato.

El-Kadur piangeva e quelle lagrime gli irrigavano il viso bruno.

– Sono uno schiavo, – disse con voce rauca – un cane fedele della mia signora, che solo la morte potrà rendere felice.

– Meglio sarebbe stato che una palla od una scimitarra dei miei antichi correligionari m’avesse squarciato il cuore… tutte le ansie, tutti i tormenti dello schiavo disprezzato, a quest’ora sarebbero finiti…

Si era bruscamente alzato avviandosi verso l’apertura, come se avesse preso una decisione disperata ed aveva cominciato a rimuovere i massi.

– Sì, – disse con accento quasi feroce. – Andrò a trovare Mustafà, gli dirò che anch’io quantunque abbia la pelle nera e sia un arabo, sono un credente della Croce e non della Mezzaluna, che io ho molte volte traditi i turchi e mi farà decapitare.

Fra un’ora dormirò il sonno eterno anch’io, come dormono a quest’ora migliaia di prodi guerrieri e tutto sarà finito.

Un gemito che sfuggì dalle labbra della duchessa, lo arrestò, facendolo sussultare.

Si volse, passandosi una mano sulla fronte ardente.

La torcia stava per spegnersi e mandava qualche guizzo che si rifletteva sul bellissimo e pallido viso della duchessa.

Le tenebre stavano per invadere la casamatta, che non aveva più alcuna comunicazione col di fuori. Quell’oscurità fece sull’arabo una paurosa impressione.

– Quale delitto stavo per commettere io, andando a cercare la morte? E la mia padrona? Vile che sono, io l’abbandonavo qui, sola, ferita, senza soccorsi… io che sono il suo schiavo, il suo fedele El-Kadur! Ero pazzo, ero un miserabile!

Si era avvicinato in punta di piedi alla duchessa. Dormiva ancora, coi lunghi capelli neri sparsi intorno al viso marmoreo, le braccia tese come se stringessero la formidabile spada di Capitan Tempesta ed il pugnale.

Il suo respiro era regolare, ma il suo cervello doveva essere turbato da qualche sogno, perchè di quando in quando la fronte si rannuvolava e le sue labbra s’increspavano.

Ad un tratto un nome le sfuggì dalla bocca.

– El-Kadur… mio fido amico… salvami…

Un lampo di gioia sconfinata era brillato negli occhi neri e profondi del figlio dei deserti arabi.

– Mi sogna, – mormorò, con un sordo singhiozzo. – Mi chiede di salvarla! Ed io stavo per abbandonarla e lasciarla morire! Ah! Mia signora! L’arabo, lo schiavo vostro morrà, ma vi strapperà dai pericoli che v’insidiano.

Quell’esplosione di gioia fu però di breve durata, perchè un altro nome era uscito dalle labbra della duchessa.

– Le Hussière… dove sei tu… quando ti rivedrò?

Un nuovo singhiozzo aveva lacerato il petto dell’arabo.

– Pensa a lui, – disse, senza però che nella sua voce si sentisse alcuna vibrazione di rancore. – L’ama… e non è uno schiavo… Sono pazzo…

Andò a ricollocare a posto i massi, accese una nuova torcia, essendovene parecchie nella casamatta, poi tornò a sedersi accanto alla duchessa, reggendosi la testa colle mani.

Pareva che non udisse più nulla: nè il rombo delle ultime cannonate, che venivano sparate sulla cima delle torri non ancora conquistate, nè il vociare furioso dei turchi ormai irrompenti al disopra dei bastioni.

Che importava a lui ormai che Famagosta fosse caduta e che l’orribile strage fosse cominciata, quando la sua padrona non correva più pericolo alcuno?

Guardava fisso innanzi a sè, vagamente, seguendo chissà quali visioni. Forse il suo pensiero ricorreva alla sua prima giovinezza, quando, fanciullo, galoppava pei deserti luminosi ed ardenti dell’Arabia, sui rapidi mehari, non schiavo ancora. E ripensava forse alla notte tremenda in cui una tribù nemica aveva assalito, nel colmo delle tenebre, le tende di suo padre e dopo d’aver sgozzati i guerrieri che le difendevano, l’avevano tratto brutalmente su un rapido corsiero per far di lui, figlio d’un capo già potente, un miserabile schiavo.

Forse pensava alla piccola Laglan, la sua compagna di miserie e di martirî, che gli aveva fatto battere per la prima volta il cuore e che nella sua ardente fantasia d’orientale, somigliava, salvo il colore della sua pelle, alla duchessa d’Eboli sua padrona.

Le ore passavano ed El-Kadur non si muoveva. La giovane, non più in preda al delirio, dormiva profondamente.

Passarono così parecchie ore. Le grida ed il rombo dei cannoni degli artiglieri non si udivano più; solo di quando in quando echeggiavano pochi colpi d’archibugio, seguiti da uno scoppio d’urla feroci e che poco dopo si spegnevano bruscamente.

– Dalli al giaurro! Dàlli! Dàlli! – Quel giaurro doveva essere qualche povero abitante della disgraziata città o qualche soldato veneto scovato fra le rovine delle case e che senz’altro veniva moschettato come un cane idrofobo dai crudeli giannizzeri di Mustafà, non ancora sazi di sangue cristiano, nonostante l’immane strage commessa.

Un debole gemito strappò ad un tratto El-Kadur dalla sua immobilità e dalle sue fantasticherie.

L’arabo si era nuovamente alzato, accostandosi alla giovane duchessa, la quale aveva riaperto gli occhi e si sforzava di alzarsi.

– Sei tu, mio fedele El-Kadur? – chiese la ferita, con voce debole, cercando di sorridergli.

 

– Veglio su di te, padrona, da molte ore, – rispose l’arabo. – Non alzarti, non vi è bisogno e poi pel momento nessun pericolo ci minaccia. Come stai?

– Sono debole assai, El-Kadur, – rispose la duchessa con un sospiro – e chissà quando potrò impugnare la spada.

– Non sarebbe di alcuna utilità in questo momento.

– È tutto finito, dunque? chiese la giovane, mentre un profondo dolore le alterava il bel viso.

– Tutto.

– E gli abitanti?

– Forse sterminati, come lo furono quelli di Nicosia. Mustafà non perdona a coloro che per tanti mesi lo tennero valorosamente in iscacco. Quello non è un guerriero: è una tigre, signora.

– E dei capitani che cosa sarà avvenuto?

– Non te lo saprei dire.

– Che siano stati uccisi anche essi?

L’arabo crollò il capo senza rispondere.

– Dimmelo, El-Kadur insistette la duchessa. – Che Mustafà si sia vendicato anche su Baglione, su Bragadino, su Tiepolo, su Spilotto e sugli altri?

– Dubito che li abbia risparmiati, signora.

– Non potresti in qualche modo assicurartene? Tu puoi, pel colore della tua pelle e pel costume che indossi, aggirarti senza pericolo dentro e fuori Famagosta.

– Non oserei uscire di qui in pieno giorno, per non esporti ad una morte sicura. Qualcuno potrebbe vedermi smuovere le macerie che otturano il passaggio, sospettare che qui vi sia nascosto qualche tesoro ed impormi di farlo entrare. Aspettiamo questa sera, signora. La prudenza non è mai troppa, coi turchi.

– Ed il mio tenente? L’hai visto cadere morto, tu?

– Quando io ho lasciato il bastione di San Marco era ancora vivo, anzi gli ho detto che tu ti trovavi al sicuro in questa casamatta.

– Allora vi è qualche speranza che egli venga a raggiungerci.

– Se è sfuggito alle scimitarre dei turchi, – rispose El-Kadur. – Permetti che visiti la tua ferita? Nel mio paese si sa medicare meglio che in altri luoghi.

– È inutile, El-Kadur, – rispose la duchessa. – Lascia che si rimargini da sè. Non è così grave come credi.

Sono debole solamente per la perdita del sangue; dammi da bere: la sete mi divora.

– Non posso darti nemmeno una goccia d’acqua, signora; qui non vi sono che delle giare colme di vino di Cipro e di olive.

– Dammi del Cipro, almeno.

L’arabo s’alzò, levò il pesante coperchio di pietra che copriva una enorme giara, ossia uno di quegli immensi vasi somiglianti agli orci, usati dai levantini ed immerse un bicchiere di cuoio, offrendolo poi alla giovane la quale lo vuotò d’un fiato.

– Questo ti calmerà la febbre, – disse l’arabo. – Vale meglio dell’acqua corrotta dei pozzi della città.

La duchessa, appena bevuto, tornò a coricarsi, appoggiando il capo ad una mano, mentre l’arabo piantava la torcia dietro l’angolo d’un muro onde non si potesse scorgere al di fuori, attraverso le fessure dei massi, la luce.

– Come finiremo noi, El-Kadur? – chiese la duchessa dopo alcuni minuti di silenzio. – Credi tu che noi riusciremo a lasciare, inosservati, Famagosta per andare in cerca di Le Hussière?

L’arabo provò un rapido trasalimento, poi disse con voce tetra:

– Lascia il signor visconte per ora, padrona, e pensiamo a salvarci.

– Ti ho chiesto se lo potremo noi?

– Forse, coll’aiuto d’un uomo, il solo che abbia fra tante migliaia di turchi, un cuore generoso e cavalleresco.

– Chi può essere costui? chiese la duchessa, guardandolo fisso.

– Il Leone di Damasco.

– Muley-el-Kadel?

– Sì, padrona.

– L’uomo che io ho vinto?

– Ma a cui hai donata la vita, mentre avresti potuto ucciderlo senza che nessuno, nemmeno i turchi, avessero avuto a che dire. Egli è forse l’unico uomo che rimprovera al gran vizir le sue febbri di sangue cristiano.

– Se egli sapesse che è una donna che lo ha scavalcato e ferito…

– Ragione di più per ammirarti, signora.

– E che cosa vorresti fare?

– Recarmi dal Leone di Damasco ed esporgli le nostre condizioni. Io sono certo che quel forte e leale guerriero non ti tradirà, anzi e poi… chissà, potrebbe darti qualche preziosa informazione sul luogo ove è stato condotto il visconte.

– Tu crederesti a tanta generosità da parte d’un turco?

– Sì, signora rispose l’arabo con voce ferma.

– Lo conosci, Muley-el-Kadel?

– Ho avuto occasione di avvicinarlo una sera, assieme a quel capitano turco che io ubriacavo colla speranza di carpirgli delle informazioni sul conto del signor Le Hussière.

– Sicchè speri che ti accolga?

– Non ne dubito. Ricorrerò, nel caso che fosse necessario, ad uno stratagemma.

– A quale?

– Permetti che non te lo dica per ora, padrona.

– E se invece ti uccidesse come un traditore? – chiese la duchessa.

L’arabo fece un gesto vago, poi mormorò fra sè:

– Il povero schiavo avrebbe finito di soffrire.

Poi aggiunse, a voce alta:

– Ripòsati, signora. C’è tempo a questa sera.

La duchessa obbedì dolcemente al consiglio dell’arabo, ma passarono molte ore prima che riuscisse a chiudere gli occhi.

El-Kadur, per non affaticarla con dei discorsi, si era gettato bocconi dietro i macigni accumulati dietro l’apertura, tendendo attentamente gli orecchi ai rumori esterni.

In lontananza udivasi di quando in quando a squillare le trombe ed alzarsi dei clamori assordanti. I turchi, accampati intorno alle mura, dovevano festeggiare la loro vittoria che assicurava ormai al Sultano il dominio di Cipro.

Entro la città continuavano gli spari degli archibugi. Si fucilavano gli ultimi superstiti che quei crudeli andavano scovando fra le rovine delle case o si eseguivano delle fantasie guerresche? El-Kadur non avrebbe potuto dirlo.

Quando si alzò, la notte era calata e la duchessa, indebolita dalla perdita di sangue, era tornata ad addormentarsi.

L’arabo s’accostò al materasso e guardò a lungo la padrona, ascoltando il suo lieve respiro.

– Quanto è bella, – mormorò con voce rotta. – Povero schiavo! Meglio sarebbe che tu fossi morto sotto il bastone del tuo primo padrone. Avresti sofferto meno.

Si passò una mano sulla fronte che era madida di sudore, riattizzò la torcia, esaminò le sue pistole versando nello scodellino un po’ di polvere ed allungando le micce, si assicurò alla cintura il jatagan e si diresse verso l’apertura, mormorando:

– Andiamo dal Leone di Damasco.

Ad un tratto s’arrestò, rattenendo il respiro. Gli era parso di udire un lieve rumore provenire dall’esterno.

– Che qualche turco abbia scoperto il nostro rifugio? si chiese, rabbrividendo. Estrasse una pistola, accese alla fiaccola la miccia e s’accostò cautamente all’apertura, tenendo l’arma nascosta dietro il dorso, onde non si scorgessero le scintille. Udì subito un sasso staccarsi e rotolare giù, attraverso le macerie, poi un lieve rumore che pareva prodotto dal franare d’un po’ di terra.

– Chi può essere? – si domandò per la seconda volta l’arabo. – Se è un turco non lo lascerò entrare: lo fredderò con una palla nel cranio.

Si stese dietro ai sassi, come un leone in agguato, pronto a scagliarsi sulla preda, tormentando col dito il grilletto della pistola.

Il rumore continuava e altri sassi si staccavano. Colui che cercava di raggiungere l’entrata doveva salire con grande precauzione. Voleva sorprendere i rifugiati, credendoli immersi nel sonno oppure invece d’un turco era un disgraziato cristiano che sapeva esservi colà una casamatta?

Quel sospetto era entrato nel cervello dell’arabo.

– Aspettiamo a far fuoco, – mormorò. – Potrei ammazzare un amico invece d’un nemico.

L’uomo saliva sempre. In breve giunse dinanzi all’apertura e cominciò a smuovere i sassi, sempre con precauzione.

Ad un tratto una testa apparve.

El-Kadur puntò rapidamente la pistola, dicendo:

– Chi sei? Parla o faccio fuoco!

– Fermati, El-Kadur: sono Perpignano.

CAPITOLO VIII. El-Kadur

Un momento dopo, il tenente di Capitan Tempesta, diroccata con un’ultima scossa la trincea di macigni, entrava nella casamatta, esponendosi alla luce della fiaccola.

Il disgraziato giovane era ridotto in uno stato miserando.

Aveva il capo fasciato con uno straccio lordo di sangue e di polvere, la cotta di maglia a brandelli, che gli cadeva da tutte le parti, gli stivaletti sbrindellati e per spada un troncone che non aveva che tre pollici di lama, macchiato di sangue anche quello fino all’impugnatura.

Il suo volto, in quelle dodici o quindici ore, era diventato così sparuto, come se avesse sofferto la fame per otto giorni.

– Voi, signore! – aveva esclamato l’arabo. – In quale stato vi rivedo!

– Ed il capitano? – chiese invece il tenente, con premura.

– Dorme tranquillo. Non svegliamolo, signor Perpignano. Ha molto bisogno di riposo. Guardatelo!

Il tenente stava per appressarsi alla duchessa, quando questa, destata dal rumore, aprì gli occhi.

– Voi, Perpignano! – esclamò, facendo un moto di gioia. – Come siete uscito vivo dalle mani dei turchi?

– Per un puro miracolo, Capitan Tempesta, – rispose il veneziano. – Se mi avessero però scoperto non mi avreste riveduto più di certo, poichè quanti fuggiaschi sono riusciti a scovare fra le macerie e nelle cantine delle case, altrettanti ne hanno macellati.

L’infame Mustafà non ha fatto grazia a nessuno.

– A nessuno! – esclamò la duchessa con indicibile angoscia. – Nemmeno ai capitani?

– Nemmeno a quelli, – rispose il tenente, frenando a stento un singhiozzo. – Il miserabile Vizir ha tagliato di sua mano l’orecchio destro al prode Bragadino e reciso un braccio, poi lo ha fatto scorticare vivo alla presenza dei giannizzeri.

La duchessa aveva mandato un grido d’orrore:

– Infami! Infami!

– Poi ha fatto decapitare Astorre Baglione, Martinengo, tagliare a pezzi il Tiepolo e Manoli Spilotto e gettare le loro povere carni in pasto ai cani.

– Mio Dio! esclamò la duchessa, coprendosi gli occhi come se cercasse di sfuggire a qualche spaventosa visione.

– E gli altri, signor tenente? – chiese El-Kadur.

– Tutti sterminati. Mustafà non ha risparmiato che le donne ed i bambini che manderà schiavi a Costantinopoli.

– Tutto è finito dunque per il Leone di San Marco? gemette la duchessa.

– La bandiera della Repubblica dell’Adriatico ha cessato per sempre di sventolare su Cipro.

– E nessuno più tenterà di vendicare una sì terribile disfatta?

– Le navi della Repubblica, Capitan Tempesta, daranno un giorno a queste tigri asiatiche quello che si meritano. Le galere di Venezia bagneranno l’Arcipelago di sangue turco, non temete. La Serenissima laverà l’onta e Selim II sconterà le inaudite crudeltà commesse dal suo gran vizir.

– Ma Famagosta è un cimitero.

– Un orrendo cimitero, Capitan Tempesta, – rispose il veneziano, con voce profondamente commossa. – Le vie sono piene di cadaveri e sulle mura sfasciate fanno orribile mostra le teste di coloro che l’abitarono e la difesero strenuamente.

– E voi, come siete sfuggito alle scimitarre del turco?

– Ve lo dissi già, per un vero miracolo. Quando ormai tutto era perduto ed i giannizzeri superavano i bastioni che nessuno più poteva difendere, ho seguito nella fuga i pochi superstiti che avevano fatto fronte agli assalitori sulla rotonda di San Marco.

– Fuggivo anch’io all’impazzata, senza sapere ove avrei potuto trovare un rifugio, ritenendomi perduto, quando una voce umana sorse fra le macerie d’una casa quasi completamente sfasciata.

– Qui, giovane! – m’avevano gridato. – Attraverso una inferriata, quasi sepolta da ammassi di macigni, vidi due uomini che mi facevano dei segnali disperati.

Vi era là la salvezza. Smossero le sbarre e mi trassero, o meglio mi portarono in una specie di cantina oscurissima, non potendo io, per le ferite e l’estrema stanchezza, reggermi quasi più in piedi.

– Chi erano quegli uomini generosi? chiese la duchessa.

– Due marinai della flotta veneziana che erano qui giunti coi rinforzi capitanati da Martinengo: un mastro ed un gabbiere.

– Dove sono ora?

– Sempre nascosti in quella tenebrosa cantina, avendo chiusa l’inferriata con dei massi affinchè i turchi non riescano a scoprire l’entrata.

– E come sapevate che io mi trovavo qui? – chiese la duchessa.

– Glielo avevo detto io, – disse El-Kadur.

– Sì ed io, anche in mezzo al furore della lotta, non mi ero dimenticato il numero di questa casamatta rispose Perpignano.

– Perchè non sono venuti anche i due marinai?

– Non l’hanno osato, capitano, e poi temevano di trovare questo rifugio già invaso dai giannizzeri di Mustafà.

– È lontana quella cantina?

 

– Appena trecento passi.

– Quegli uomini possono esserci di grande aiuto, signor Perpignano.

– Lo credo anch’io, duchessa rispose il veneziano, dandole forse per la prima volta il suo vero titolo di nobile donna.

La giovane rimase per qualche istante silenziosa, come se riflettesse profondamente, poi, volgendosi verso l’arabo che era sempre immobile presso di lui, gli chiese bruscamente:

– Sei sempre deciso?

– Sì, padrona rispose il figlio del deserto. – Solo quell’uomo potrà salvarci.

– E se ti ingannassi?

– Il Leone di Damasco non giungerebbe fino qui, signora, El-Kadur ha una pistola ed un jatagan nella sua fascia e saprà servirsene meglio d’un giannizzero di Mustafà.

La duchessa si era voltata verso il veneziano che la guardava con stupore, non potendo ancora comprendere in che cosa vi entrasse il turco, che era stato scavalcato dinanzi alle mura di Famagosta.

– Credete, signor Perpignano, che una fuga sia possibile senza che i turchi se ne avvedano? gli chiese.

– No, signora, – rispose il tenente. – La città è piena di giannizzeri non ancora sazi di sangue cristiano e intorno alla città vi sono non meno di cinquantamila asiatici, che vegliano onde nessuno possa allontanarsi.

– Va, El-Kadur, – disse la duchessa. – La nostra ultima speranza sta nelle mani del Leone di Damasco.

L’arabo spense la miccia della pistola, si assicurò che il jatagan scorresse facilmente nella guaina di pelle adorna di laminette d’argento, rialzò con un moto nervoso il cappuccio infioccato e s’avvolse nel suo largo mantello di lana, dicendo:

– Obbedisco, padrona.

S’avviò verso l’apertura, tenendo la testa china, quasi interamente nascosta sotto il cappuccio, poi si volse bruscamente e fissando sulla duchessa uno sguardo ardente, le disse con una profonda tristezza:

– Se io non tornerò più mai e la mia testa rimarrà nelle mani dei turchi, ti auguro, signora, di ritrovare presto il visconte Le Hussière e con lui riacquistare la felicità perduta.

L’ultima parola gli si era spenta in un sordo singhiozzo.

La duchessa d’Eboli si era alzata a sedere, tendendo la destra all’arabo.

Il selvaggio figlio del deserto tornò verso il lettuccio improvvisato, piegò un ginocchio a terra e depose sulla bianca mano un lungo bacio che fece alla giovane l’effetto d’un ferro rovente applicato sulla sua pelle.

– Va’, mio buon El-Kadur, – diss’ella con un sospiro.

L’arabo si era alzato di colpo cogli occhi fiammeggianti.

– O il Leone di Damasco ti salverà, padrona, o lo ucciderò, – disse con voce energica.

Levò rapidamente i massi e strisciò attraverso l’apertura, come una belva che esce dalla tana, mentre la duchessa mormorava:

– Povero El-Kadur! Quanta fedeltà e quanti tormenti nel tuo cuore!

L’arabo, appena fuori, si era lasciato scivolare giù dall’enorme massa di macerie che copriva tutta la base della torre e si era diretto là dove vedeva brillare dei falò giganteschi che indicavano il campo turco, improvvisato nel centro della città.

Non sapeva dove avesse preso alloggio il Leone di Damasco, ma trattandosi del figlio d’un pascià e d’uno dei più valorosi e più popolari guerrieri delle orde mussulmane, era sicuro di poterlo sapere subito.

Le vie di Famagosta erano immerse nell’oscurità, ritenendosi ormai i turchi pienamente sicuri da ogni sorpresa, dopo che avevano sterminata non solo l’eroica guarnigione, bensì anche gli abitanti atti ad impugnare le armi e lo scudo.

I suoi occhi però distinguevano senza fatica cumuli di cadaveri ancora insepolti, che torme di cani affamati dilaniavano ferocemente, per rimettersi dai lunghissimi digiuni sofferti in tanti mesi d’assedio.

El-Kadur, dopo essere sfuggito tre o quattro volte agli assalti di quelle bestie che sembravano idrofobe, prendendo i più feroci a colpi di jatagan, giunse ben presto sulla vasta piazza fronteggiante la vecchia chiesa di San Marco che riproduceva più modestamente però ed in minori proporzioni, quella famosa di Venezia.

Un centinaio di giannizzeri, armati fino ai denti, bivaccavano intorno ai fuochi, fumando e chiacchierando, mentre delle sentinelle vegliavano agli angoli della piazza e dinanzi ad alcune abitazioni sfuggite miracolosamente al fuoco infernale delle artiglierie mussulmane.

Un albanese che stava seduto sui gradini della chiesa, scorgendo l’arabo, gli puntò contro un moschettone la cui miccia bruciava, chiedendogli:

– Chi sei e dove vai?

– Vedi bene che io sono un arabo e non un cristiano, – rispose lo schiavo. – Sono un soldato di Hossein pascià.

– Che cosa vieni a fare qui?

– Ho da comunicare un ordine urgente al Leone di Damasco. Sai dirmi dove si trova alloggiato?

– Chi ti manda?

– Il mio pascià.

– Non so se Muley-el-Kadel sarà ancora sveglio.

– Sono appena le nove.

– È ancora sofferente, tuttavia vieni. Alloggia in una di queste case.

Spense la miccia del suo archibugio, si gettò l’arma a bandoliera e si diresse verso una casetta di meschina apparenza, le cui pareti erano state bucate in varii luoghi dalle bombe mussulmane e dinanzi alla quale vegliavano due schiavi negri di forme erculee e due enormi cani arabi.

– Svegliate il vostro padrone, se si è già coricato, – disse l’albanese ai due negri. – Vi è qui un messo di Hossein pascià che deve parlargli.

– Il padrone è ancora sveglio rispose uno dei due schiavi, dopo aver osservato sospettosamente l’arabo.

– Va’ dunque ad avvertirlo, – disse l’albanese. – Hossein è un pascià che non ischerza e che gode l’amicizia del gran vizir.

Lo schiavo entrò nella casa, mentre l’altro si poneva dinanzi alla porta coi due cani, e poco dopo ne usciva dicendo all’arabo:

– Seguimi: il padrone t’aspetta.

El-Kadur strinse sotto l’ampio mantello la guardia dello jatagan ed entrò risolutamente, deciso a tutto, anche ad assassinare il figlio del potente pascià di Damasco, in caso di pericolo.

Il turco lo aspettava in una stanzetta a pianterreno, ammobiliata meschinamente ed illuminata da una semplice torcia infissa in un fiasco di terracotta. Era ancora un po’ pallido per la ferita non ancora completamente cicatrizzata, ma sempre bellissimo, con quegli occhioni neri e profondi, degni di illuminare il volto di una urì del paradiso maomettano ed i baffettini elegantemente arricciati.

Quantunque ancora invalido, indossava una splendida cotta di acciaio, attraversata sotto i fianchi da una larga sciarpa di seta azzurra sorreggente la scimitarra ed un ricchissimo jatagan, coll’impugnatura d’oro adorna di turchesi.

– Chi sei tu? – chiese all’arabo, dopo d’aver fatto cenno al suo schiavo di lasciarli soli.

– Il mio nome non ti direbbe nulla, – rispose l’arabo. – Mi chiamo El-Kadur.

– Mi sembra d’averti veduto ancora.

– È probabile.

– È Hossein pascià che ti manda?

– No: ho mentito.

Muley-el-Kadel aveva fatto due passi indietro, mettendo rapidamente una mano sull’impugnatura della scimitarra, senza però sguainarla.

El-Kadur lo rassicurò con un gesto, dicendo subito:

– Non credere che io sia qui venuto per attentare alla tua vita.

– Allora perchè hai mentito?

– Perchè diversamente non mi avresti ricevuto.

– Quale motivo ti ha costretto a servirti del nome di Hossein pascià? Chi ti ha mandato?

– Una donna a cui devi la vita, – rispose El-Kadur con voce grave.

– Una donna! – esclamò il turco, facendo un gesto di stupore.

– Anzi, una gentildonna cristiana, appartenente alla più alta nobiltà italiana.

– Ed alla quale io debbo la vita!

– Sì, Muley-el-Kadel.

– Tu sei pazzo. Io non ho mai conosciuto alcuna gentildonna italiana, come nessuna femmina mi ha mai salvata la vita. Il Leone di Damasco può salvare sè stesso senza bisogno d’alcun aiuto.

– T’inganni, Muley-el-Kadel, – disse l’arabo, con voce calma. – Senza la generosità di quella donna tu non avresti assistito alla presa di Famagosta. La tua ferita non è ancora cicatrizzata.

– Ma di chi intendi parlare tu? Di quel giovane capitano che mi ha scavalcato?

– Sì, di Capitan Tempesta.

– Spiegati meglio.

– Quella era la gentildonna italiana che ti ha risparmiata la vita, mentre avrebbe potuto togliertela avendone il diritto.

– Che cosa dici tu! – esclamò il turco, arrossendo e poi impallidendo. – Quel capitano che si batteva come un dio della guerra era una donna! No! È impossibile! Non avrebbe potuto vincere ed atterrare il Leone di Damasco.