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Capitan Tempesta

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CAPITOLO X. L’orso della Polonia

L’indomani sera, dopo le dieci, Muley-el-Kadel, come aveva solennemente promesso, entrava nella casamatta, colle debite precauzioni, accompagnato non più da due schiavi negri, bensì da quattro, armati fino ai denti, e coperti da pesanti cotte di maglia, e portanti ognuno un voluminoso canestro.

El-Kadur che già attendeva dietro alla barricata di macigni, era stato pronto ad aprire il varco al piccolo drappello.

– Eccomi, signora, – disse il Leone di Damasco avanzandosi verso il lettuccio della duchessa. – Il giuramento fatto sul Corano io l’ho mantenuto e forse più di quello che speravate. Vi porto vestiti turchi, armi, notizie preziose e vi sono già sei cavalli, scelti fra i migliori del reggimento albanese.

– Non dubitavo, Muley-el-Kadel, che voi sareste stato leale e generoso, – rispose la giovane porgendogli la mano. – Il cuore d’una donna difficilmente si inganna.

Papà Stake, che stava vuotando col suo amico una bottiglia di vecchio vino di Cipro, recata la sera innanzi dagli schiavoni, credette opportuno di aggiungere per proprio conto:

– Non l’avrei mai creduto, eppure devo constatare che fra i turchi vi sono dei galantuomini. Ecco un prodigio assolutamente meraviglioso; sarebbe come se il vento di prora cambiasse improvvisamente soffiando di poppa!

– Muley-el-Kadel, – disse la duchessa, che non aveva prestato attenzione alle chiacchiere del vecchio mastro. – Non vi siete accorto che qualcuno vi abbia seguito?

Sul viso del turco apparì una improvvisa inquietudine.

– Perchè mi domandate ciò, signora? – chiese.

– Non avete incontrato nessuno sulla vostra via?

Il Leone di Damasco parve riflettere un momento, poi rispose:

– Ma sì… un capitano dei giannizzeri che mi pareva ubriaco.

– Era lui! – esclamò Perpignano.

– Chi, lui? – chiese il turco, guardandolo attentamente.

– L’orso delle foreste polacche, – disse la duchessa.

– Il capitano che io ho scavalcato con un colpo di scimitarra e che rinnegò la sua fede?

– Sì, – disse il veneziano.

– Quell’uomo avrebbe osato spiarmi? – chiese il Leone di Damasco, aggrottando la fronte.

– E forse cerca di perderci e di darci nelle mani di Mustafà, prima che possiamo lasciare Famagosta, – aggiunse il tenente.

Il turco ebbe un sorriso sprezzante.

– Muley-el-Kadel vale meglio d’un miserabile rinnegato, – disse. – Provi ad attraversarmi la via se l’osa.

Poi, cambiando tono e volgendosi verso la duchessa, disse:

– Voi volevate sapere dove i miei compatrioti hanno relegato il visconte Le Hussière, è vero?

– Sì, – disse la duchessa, alzandosi di colpo col viso animato da un vivo rossore.

– Io so dove si trova!

– Fuori di Cipro?

– No, nel castello d’Hussif, dove vi rimarrà fino alla conclusione della pace se la Repubblica di Venezia vorrà segnarla.

– Avete detto? – chiese la duchessa.

– Nel castello d’Hussif.

– Dove si trova?

– Nella baia di Suda.

– È guardato?

– Forse, ma non ve lo saprei dire.

– Come vi si potrebbe giungere?

– Per mare, signora.

– Potremo trovare qualche gagliotta?

– Ho pensato anche a questo, signora, – disse Muley-el-Kadel. – So a chi affidarvi.

– A dei turchi?

– Che sgombreranno subito, dietro mio ordine, la piccola nave, Purchè abbiate la precauzione di farvi credere mussulmani e non già cristiani. E poi a Suda troverete facilmente dei rinnegati, che non avranno nulla della fede nostra nel cuore, – aggiunse il Leone di Damasco con un sorriso – e che saranno ben felici di esservi utili.

Sappiamo quanto valgono coloro che abbracciano la nostra religione, che non possono sentire profondamente come noi.

Signora, potrete reggervi in sella?

– Lo spero, – rispose la duchessa, – La mia ferita non è così grave come sembrava dapprima.

– Vi consiglierei di partire questa notte stessa. I giannizzeri od il polacco rinnegato potrebbero scoprire il vostro rifugio e tutta la popolarità che godo fra l’esercito mussulmano non basterebbe a salvarvi.

– E come potremo noi attraversare le linee mussulmane che accampano ancora intorno a Famagosta? – chiese Perpignano.

– Vi accompagnerò io oltre le retroguardie turche, – rispose Muley-el-Kadel – e nessuno oserà fermarci. Basterà il mio nome per aprirvi il varco.

– Partiamo senza indugio, padrona – disse El-Kadur, curvandosi verso la duchessa. – Quel maledetto polacco mi fa paura.

– Aiutami, – rispose la gentildonna.

L’arabo ebbe un sussulto ed una breve esitazione, poi prese delicatamente fra le robuste braccia la giovane e la sollevò colla medesima facilità come se si fosse trattato d’un fanciullo.

– Saprò reggermi in sella, – disse la duchessa a Muley-el-Kadel, con un adorabile sorriso. – Forse che non sono Capitan Tempesta?

Il turco non rispose: la guardava con una specie di adorazione, fissandola negli occhi.

– Dove sono i cavalli? – riprese la duchessa.

– Alla base della torre, signora, guardati da un mio schiavo. Indossate i costumi turchi che vi ho fatti portare. Vestita così vi riconoscerebbero facilmente.

Aprì uno dei quattro panieri portati dagli schiavi e levò un costume albanese, ricchissimo, con bottoni d’oro, giubba corta con larghi alamari e doppie maniche pendenti di seta verde, sottanina bianca, vasta, a gran pieghe inamidate.

– Per voi, signora, – disse. – Capitan Tempesta diverrà un superbo capitano albanese, che farebbe girare le teste a tutte le donne dell’harem di Mustafà.

– Grazie, Muley-el-Kadel rispose la duchessa, mentre l’arabo le slacciava la cotta di maglia semispezzata dal frammento della palla di pietra.

Gli schiavi intanto avevano tolti dai panieri altre vesti di egiziani e di arabi pei due marinai e pel signor Perpignano, delle pistole ricchissime coi calci ad intarsi di madreperla e le canne rabescate e lunghissime e dei kandjar e degli jatagan d’acciaio finissimo che dovevano tagliare come rasoi.

– Per Bacco! – esclamò l’incorreggibile lupo di mare, che si era scelto un costume di mammalucco egiziano. – Io farò una superba figura e diverrò di colpo uno sceik beduino. Peccato che non abbia una tribù da comandare, ed un migliaio di cammelli…

– E centomila montoni disse Perpignano che stava indossando un vestito d’arnauto, elegantissimo e ricchissimo.

– No, signore, una cassa piena di zecchini come la posseggono quei fortunati predoni, nascosta nell’angolo più oscuro della loro tenda. Valgono meglio dei montoni, quei vecchi cofani.

– Diventate incontentabile, papà Stake, – disse la duchessa che finiva di abbigliarsi.

– Che cosa volete, signora, nel vedermi coperto da così bel vestito ricamato in oro, io che non ho portato in vita mia altro che il ruvido cappotto del marinaio, mi sento pungere dall’ambizione. Un po’ tardi a dire il vero, ma non sono ancora morto.

– Nelle fonde del tuo cavallo non troverai già un cofano, marinaio, però dei zecchini ve ne saranno, – disse Muley-el-Kadel, sorridendo.

– Allora, signore, invece di Leone di Damasco vi chiamerò, col vostro permesso, il Leone d’oro.

– Come vuoi, marinaio. Orsù, sbrighiamoci. A mezzanotte cambieranno le guardie alla saracinesca del bastione Erizzo e non amerei dare spiegazioni ai loro comandanti.

– Signora, siete pronta?

– Sì, Muley-el-Kadel, – rispose la duchessa.

– Approfittiamo.

Si misero le armi nelle cinture e preceduti dagli schiavi lasciarono il ridotto.

El-Kadur e Perpignano sorreggevano la duchessa, che era ancora un po’ debole per la ferita ricevuta.

Alla base del torrione li aspettava un altro schiavo negro, il quale teneva, raccolti per le briglie, dieci magnifici stalloni arabi, dal pelame candidissimo e le criniere lunghissime, bardati alla turca, ossia con staffe molto corte e larghe, ricche gualdrappe rosse ricamate in argento e selle leggère, ma comode.

Muley-el-Kadel s’accostò al più bello e aiutò la duchessa a salire in sella, dicendo:

– Correrà come il vento e nessuno potrà raggiungervi, signora. Di questo ne rispondo io. Nelle fonde troverete delle buone pistole e delle borse contenenti degli zecchini in buon numero.

– E come potrò io sdebitarmi con voi?

– Non pensate a questo, signora, – rispose il turco. – Mio padre è il più ricco pascià dell’Asia Minore e sarà ben lieto che io mi sia mostrato generoso verso colei o colui a cui devo la vita. La mia morte sarebbe stata forse anche la sua e nessuna ricchezza avrebbe potuto pagare l’una e l’altra.

In sella! Non abbiamo tempo da perdere aggiunse poi, rivolgendosi verso i due marinai, all’arabo e al tenente.

Tutti si affrettarono a obbedire al comando, compreso papà Stake il quale credette però opportuno dire:

– Inforchiamo questo pennone vivo e teniamoci saldi. Questi demoni di cavalli ci faranno rollare maledettamente come quando soffia lo sciroccale nel Quarnaro.

Stringi il parrocchetto, Simone, o andrai a piantare il capo in coperta.

– Via comandò Muley-el-Kadel.

Il negro che tratteneva i corsieri si ritrasse da una parte, ed i dieci cavalli partirono a galoppo serrato.

I quattro schiavi che avevano portate le vesti aprivano la marcia ed i due marinai la chiudevano. Perpignano ed il Leone di Damasco cavalcavano ai fianchi della duchessa, pronti a sorreggerla quantunque non sembrasse averne bisogno.

In pochi istanti attraversarono la parte meridionale della città che era quasi sgombra di turchi e giunsero dinanzi alla saracinesca del bastione Erizzo, che era guardato da un drappello di giannizzeri.

Un capitano si fece innanzi, gridando subito:

– Alt, o comando il fuoco!

Perpignano e la duchessa, udendo quella voce avevano trasalito, mentre El-Kadur con una mossa fulminea aveva sfoderato l’jatagan mandando un sordo ruggito.

 

– Laczinki! avevano esclamato nel medesimo tempo tutti e tre.

Muley-el-Kadel fece cenno alla duchessa ed ai suoi compagni di fermarsi, poi con una speronata fece fare al suo cavallo un salto immenso che lo portò dinanzi al polacco, il quale stava fermo in mezzo al ponte levatoio colla scimitarra sguainata.

Tre passi più indietro stavano, immobili come statue, dodici giannizzeri, colle micce degli archibugi già accese.

– Chi sei tu che osi chiudere a me il passo? chiese Muley, levandosi la scimitarra.

– Il comandante del bastione, almeno per questa notte rispose il polacco col suo solito accento un po’ beffardo.

– Sai chi sono io?

– Per Bacco! – esclamò l’avventuriero, massacrando la lingua turca. – Mi basterebbe la lunga cicatrice che mi adorna la gola per riconoscervi anche senza vedervi, signor Muley-el-Kadel figlio del pascià di Damasco.

– Che cosa vuoi dire?

– Vi sareste già scordato dell’orso delle foreste polacche che per poco non vi conciò per bene le ossa?

– Ah! Il rinnegato! – disse il Leone di Damasco con un certo disprezzo, che fece increspare il naso all’avventuriero.

– Ma forse ora più mussulmano e più credente di voi, – rispose insolentemente Laczinki.

– Che cosa vuoi ora che sai chi sono io?

– Per la distruzione della Croce! Impedirvi il passaggio fino all’alba, signor Muley-el-Kadel. Ho la consegna di non lasciar uscire nessuno da Famagosta e non sarà certo pei vostri begli occhi che mi esporrò al pericolo di fare l’ultima danza con un palo attraverso il corpo.

– Fa largo al Leone di Damasco! – gridò Muley con voce minacciosa. – L’ordine che hai ricevuto non riguarda il figlio del pascià di Damasco, cognato di Selim, il Gran Sultano.

– Foste voi anche Maometto, vi ripeto che senza una carta firmata da Mustafà, voi non passerete.

Poi rivolgendosi verso i giannizzeri immobili, comandò con voce tuonante:

– Stringete la fila e preparatevi a far fuoco.

Un lampo d’ira balenò negli sguardi di Muley-el-Kadel.

– Farete fuoco sul Leone di Damasco? – gridò tendendo il pugno verso i giannizzeri.

Quindi volgendosi a sua volta verso i suoi compagni, comandò con voce non meno tuonante di quella del capitano:

– Sguainate le scimitarre e carichiamo a fondo. Rispondo io di tutto.

Poi con una nuova speronata fece fare al cavallo un salto improvviso, spingendolo addosso al polacco così impetuosamente da farlo cadere al suolo, prima che avesse avuto il tempo di tirarsi da parte.

– Birbante! – urlò il capitano, che era capitombolato nel vicino fossato, – Fuoco, giannizzeri!

– Addosso! – gridò Muley-el-Kadel.

I dieci cavalieri si slanciarono sul ponte, colle scimitarre alzate, ma non ebbero occasione di servirsene, poichè i giannizzeri invece di far fuoco si erano ritirati precipitosamente lungo i parapetti presentando le armi e gridando ad una voce:

– Lunga vita al Leone di Damasco.

Il drappello attraversò la pustierla come un uragano e si slanciò nella campagna, mentre papà Stake, che si teneva strettamente aggrappato alla lunga criniera del suo cavallo, mormorava con visibile soddisfazione:

– Questo turco, pare impossibile, sembra veramente un bravo ragazzo. Non credevo che se ne potesse trovare uno fra quelle canaglie!

Muley-el-Kadel era sempre alla testa del gruppo e segnava la via. In lontananza si scorgevano i fuochi del campo turco, disseminati su una estensione immensa e si udiva di quando in quando qualche squillo di tromba.

Dinanzi invece non si vedevano altro che tenebre.

Il turco manovrò in modo da tenersi lontano dagli accampamenti, onde non venire nuovamente fermato e perdere inutilmente dell’altro tempo, poi si diresse risolutamente verso levante dove si distingueva vagamente, sul fosco orizzonte, un piccolo punto luminoso che si poteva confondere con una stella.

– Il faro di Suda? – chiese Perpignano.

– Sì, – rispose Muley-el-Kadel.

– Quando giungeremo sulla riva del mare?

– Con questi cavalli non ci metteremo più di un’ora e mezza.

È necessario che voi v’imbarchiate prima dell’alba, onde evitare noie e spiegazioni da parte delle autorità turche.

– Potremo trovare subito una nave? – chiese la duchessa.

– Ho pensato a tutto, signora, – rispose Muley-el-Kadel – Fino da ieri mattina ho mandato a Suda due miei uomini a noleggiare per voi una gagliotta. Quando giungeremo, tutto sarà pronto e non avrete che da far spiegare le vele.

– Quante attenzioni per noi!

– Pago il mio debito di riconoscenza verso di voi, signora, e nessuno sarà più lieto di me d’aver salvata la più bella e la più valorosa donna che io abbia finora conosciuta.

Stette un momento in silenzio, poi guardando la duchessa che gli cavalcava a fianco, aggiunse con una certa tristezza:

– Sarei stato ben felice di potervi accompagnare ed aiutarvi nella vostra impresa… ma fra noi e voi sta il Profeta ed io sono nato turco, mentre voi siete cristiana.

– Avete fatto già troppo per me, Muley-el-Kadel e non mi scorderò giammai della generosità del Leone di Damasco.

– Come nemmeno io di voi, – rispose il turco, quasi con un soffio di voce.

– Al vostro ritorno avrete delle noie da parte di Mustafà? – chiese la duchessa, che si trovava imbarazzata a continuare quel discorso.

– Mustafà non oserebbe alzare un dito sul figlio del pascià di Damasco. Non temete per me, signora.

Spronò nuovamente il cavallo, costringendolo ad accelerare la marcia. I cristiani e gli schiavi fecero altrettanto, precipitando la corsa attraverso quelle campagne desolate dalla terribile guerra, che da mesi tutto devastava, tramutando i preziosi vigneti del dolcissimo vino in lande sterpose.

Verso la una del mattino il drappello, che non si era arrestato un solo momento, giungeva presso un miserabile villaggio, formato da tre o quattro dozzine di catapecchie annidate alla rinfusa in fondo ad un piccolo seno entro cui irrompevano, con muggiti prolungati, le onde del Mediterraneo.

All’estremità d’un minuscolo promontorio s’innalzava un piccolo faro sulla cui cima brillava una grossa lanterna a luce fissa.

Due negri che parevano attendessero i cavalieri dinanzi le prime case del villaggio, erano sbucati da una tettoia quasi tutta sfondata dicendo:

– Alt!

– Sono il padrone, – aveva risposto subito Muley-el-Kadel, rattenendo di colpo il cavallo con una poderosa strappata che lo fece piegare fino quasi a terra. – È pronta la gagliotta?

– Sì, padrone rispose uno dei due negri.

– Chi la monta?

– Dodici rinnegati greci.

– Sanno che coloro che dovranno imbarcarsi sono cristiani?

– L’ho detto a tutti.

– E hanno acconsentito?

– Con piacere, padrone e si sono impegnati di obbedire ai cristiani.

– Guidateci.

I due negri attraversarono il villaggio che era oscuro e deserto, e condussero i cavalieri verso la lanterna dinanzi alla quale ondeggiava, scricchiolando, una nave di un centinaio di tonnellate, lunga e sottile, con due alberi muniti d’immense vele latine e cassero molto alto.

Una scialuppa montata da sei uomini, attendeva semiarenata sulla spiaggia.

– Il padrone, – disse uno dei due negri ai marinai, indicando Muley-el-Kadel che era già balzato a terra e che aiutava la duchessa a scendere dalla sella.

I sei uomini salutarono cortesemente, facendo un profondo inchino e togliendosi i fèz.

– Conduceteci a bordo, – disse Muley-el-Kadel. – Io sono l’uomo che ha noleggiata la nave.

CAPITOLO XI. A bordo della gagliotta

Quel veliero che il generoso turco metteva a disposizione della duchessa di Eboli, onde potesse giungere al castello d’Hussif ove trovavasi prigioniero il visconte francese, era una bella gagliotta mercantile, navi usate in quell’epoca dai naviganti dell’Arcipelago greco, presa probabilmente dai turchi i quali esercitavano una vera pirateria nei mari del levante.

Come abbiamo detto, non stazzava più d’un centinaio di tonnellate, nondimeno era una vera nave da corsa a giudicare dallo sviluppo straordinario delle sue vele e dalle sue forme svelte e portava un armamento considerevole per essere di così piccola mole, avendo due colubrine in coperta, e altre quattro dietro i sabordi di babordo e di tribordo. Già tutti i velieri che percorrevano allora il Mediterraneo, diventato il meno sicuro di tutti, dopo l’accrescersi della potenza turca, nemica spietata della cristianità e d’ogni commercio, erano più o meno armati onde poter resistere ai corsari mussulmani che salpano senza tregua dai porti dell’Asia Minore, dell’Egitto, della Tripolitania, di Tunisi, dell’Algeria e del Marocco.

Papà Stake, appena messo i piedi sulla tolda e dato uno sguardo all’alberatura ed ai rinnegati greci che formavano l’equipaggio, si era mostrato soddisfatto della sua ispezione.

– Scafo a prova di colubrine, velatura magnifica, marinai dell’Arcipelago nei cui cuori non deve essere ancora entrata la luce di quel brigante di Maometto, armamento perfetto: possiamo riderci anche delle galere di quel buffone di Alì Pascià. Ti sembra, Simone?

– Buona veliera, – si accontentò di rispondere il giovane marinaio. – Sì, faremo correre Alì, se vorrà acciuffarci.

Muley-el-Kadel si era avanzato verso l’equipaggio che si era schierato dinanzi all’albero maestro.

– Chi comanda qui?

– Io, signore, – rispose un marinaio dalla lunga barba nera e dall’aspetto energico. – Il padrone ha affidato a me la direzione.

– Cederai il comando a quest’uomo, – rispose il turco, indicando papà Stake. – E avrai cinquanta zecchini di regalo.

– Sono ai vostri ordini, signore. Il padrone mi ha ordinato di obbedire a colui che si chiama il Leone di Damasco.

– Sono io.

Il greco fece un profondo inchino.

– Queste persone son cristiane continuò, – il turco. – Tu dovrai obbedire a loro come se parlassero e comandassero per mia bocca. Io assumo tutte le responsabilità di ciò che può accadere, trattandosi d’una spedizione che potrà essere pericolosa.

– Sta bene, signore.

– Ti avverto inoltre che tu risponderai colla testa della tua fedeltà e che se tentassi di nuocere in qualche modo a queste persone, saprei io farti ritrovare e punire.

– Ero un cristiano prima.

– Appunto per questo ti ho fatto scegliere, non avendo io, come turco, nessuna fiducia nella vostra conversione, ma non intendo perciò farvene rimprovero. Ti chiami?

– Nikola Stradioto.

– Lo terrò a mente, – disse Muley-el-Kadel.

– Corpo d’una balena! – mormorò papà Stake che aveva assistito al colloquio. – Se io fossi Mustafà nominerei subito questo turco grande ammiraglio della flotta mussulmana. Comanda come un capitano e parla come un libro stampato. Per essere un turco è meraviglioso! Questo non ha la testa di legno.

Muley-el-Kadel si era voltato verso la duchessa e presala per una mano l’aveva condotta verso prora, dicendole con un mesto sorriso:

– La mia missione è finita, signora, e la nostra partita è chiusa. Io ritorno il nemico dei cristiani e voi quello dei turchi…

– Non dite questo, Muley-el-Kadel, – disse la giovane interrompendolo – perchè se voi non vi siete scordato di aver avuto da me la vita salva, io, non scorderò giammai la vostra generosità.

– Un altro uomo al mio posto avrebbe fatto altrettanto.

– No: Mustafà non si sarebbe dimenticato di essere innanzi a tutto mussulmano.

– Il vizir è una tigre, mentre io sono il Leone di Damasco, – rispose il turco con orgoglio.

Poi, cambiando bruscamente tono, riprese:

– Io non so, signora, come finirà la vostra avventura, nè so come voi, donna, per quanto forte e fiera, potrete liberare il signor Le Hussière.

– Temo che voi andiate incontro a dei gravi pericoli, ora che tutta l’isola è nelle mani dei miei compatrioti, i quali terranno gli occhi aperti su ogni straniero, per tema che sia un cristiano.

Lascio a voi il mio schiavo Ben-Tael, un uomo fedele e valoroso non meno di El-Kadur. Se vi trovaste un giorno in pericolo, mandatemelo e tutto quello ch’io potrò fare per la vostra salvezza, lo giuro sul Corano, signora, che io lo tenterò.

– Poco fa mi avete detto, Muley, che tornavate nemico dei cristiani.

– Non indagate il mio pensiero, signora, – rispose il giovane, mentre un rapido rossore gli imporporava la fronte – Capitan Tempesta non lascerà così presto il mio cuore…

– O la duchessa d’Eboli? – chiese la giovane con una certa malizia.

Il figlio del pascià non osò rispondere. Stette parecchi istanti come immerso in un profondo e forse tormentoso pensiero, poi, tendendo bruscamente la mano alla duchessa, le disse:

 

– Addio, signora, ma non per sempre. Spero un giorno, prima che lasciate l’isola per tornare nella vostra patria, d’incontrarvi.

Abbassò il capo, strinse dapprima la piccola mano della gentildonna, poi la baciò forse troppo a lungo, mormorando:

– Allah lo vuole.

Poi, senza volgersi, scese rapidamente la scala di corda e balzò nella scialuppa che l’aspettava sotto il tribordo della gagliotta.

La duchessa non si era mossa, tuttavia sembrava pensierosa. Quando finalmente si volse, la scialuppa era già giunta a terra.

Fece qualche passo per dirigersi verso poppa, dove papà Stake e Nikola Stradioto aspettavano i suoi ordini, e si trovò dinanzi l’arabo il quale la fissava con due occhi pieni d’infinita tristezza.

– Che cosa vuoi, El-Kadur? – gli chiese.

– Dobbiamo salpare le àncore? – chiese l’arabo con una voce che tremava.

– Sì, partiremo subito.

– Meglio così.

– Che cosa vuoi dire?

– Che i turchi sono più pericolosi dei cristiani e che dobbiamo tenerci lontani da loro, signora. E soprattutto sono pericolosi… i leoni turchi.

– Forse hai ragione, – rispose la duchessa, scuotendo però la testa con un moto di stizza.

Si diresse verso l’albero maestro e disse a papà Stake che stava conversando col comandante greco:

– Salpate le àncore e spiegate le vele. È meglio che prima dell’alba noi siamo lontani da qui.

– Pronti alla manovra! – comandò il vecchio mastro della Repubblica Veneta, con una magnifica voce di capitano. – Lesti, squali dell’Arcipelago!

I marinai sciolsero le immense vele latine che erano state imbrogliate lungo gli alberi, allargarono le scotte, poi fecero agire l’argano, spingendo a tutta forza le aspe per strappare dal fondo le àncore.

Quella manovra fu eseguita in pochi minuti. La gagliotta, i cui fiocchi cominciavano a gonfiarsi, girò lentamente su se stessa, poi si piegò leggermente sul babordo e filò diritta verso l’uscita della rada, rasentando delle alte scogliere tagliate a picco.

Stava per passare dinanzi alla lanterna, situata su un’alta rupe che cadeva a piombo sul mare, quando la duchessa, alzando gli occhi, scorse, fermo ed immobile sull’orlo del ciglione, un uomo a cavallo. La luce della lampada si rifletteva sulla sua cotta di acciaio che gli racchiudeva il petto e sul cimiero coperto in parte dal turbante, facendo scintillare il metallo.

– Muley-el-Kadel! – mormorò trasalendo.

Il Leone di Damasco, come avesse indovinato che la gentildonna si fosse già accorta della sua presenza, le fece colla mano destra un gesto di addio.

Quasi nel medesimo istante si udì papà Stake gridare:

– Che cosa fai, arabo?

– Uccido il turco rispose una voce che la duchessa riconobbe subito.

La giovane si era voltata di scatto.

– El-Kadur; – esclamò. – Quale pazzia stai per commettere?

– Lo uccido onde voi, padrona, non gli dobbiate più alcuna riconoscenza.

L’arabo teneva in mano una lunga pistola e l’aveva puntata verso il Leone di Damasco, che rimaneva sempre immobile sul margine della rupe, ritto fieramente sul suo cavallo.

L’abisso stava sotto di lui e se una palla lo avesse raggiunto, nessuno lo avrebbe salvato.

– Spegni la miccia della tua pistola! – gridò la duchessa.

L’arabo esitò. Una terribile espressione d’odio e di ferocia alterava il suo viso.

– Lasciate che lo uccida, padrona, – disse. – È un nemico della Croce.

– Giù quell’arma: obbedisci!

El-Kadur piegò la testa, poi con un moto rapido scagliò in mare l’arma, dicendo:

– Obbedisco, padrona.

Poi si allontanò a lenti passi verso prora, sedendosi su un mucchio di cordami e si nascose il viso fra le ampie pieghe del suo mantello bianco.

– È impazzito quel selvaggio, signora, – disse papà Stake, volgendosi verso la duchessa. – Uccidere quel brav’uomo! Si è dimenticato di già, quel pezzo di pan bigio, che senza quel turco noi tireremmo a quest’ora l’ultimo fiato sulla punta d’un palo? Quanta poca riconoscenza c’è in quei briganti dell’Arabia!

– Non badateci, mastro, – rispose la duchessa. – El-Kadur è sempre stato un po’ bizzarro. Mettetevi al timone ed aprite gli occhi. Vi potrebbe essere fuori del porto qualche galera di Alì pascià.

– Con questa nave non dobbiamo preoccuparci di quelle pesantissime veliere, signora: ne rispondo io.

Ohe! Allargate ancora le scotte! Su, squali dell’Arcipelago! Desidero passare una buona nottata.

La duchessa si era voltata nuovamente verso la lanterna già lontana due o trecento passi e scorse ancora, alla luce del fanale, la figura immobile di Muley-el-Kadel, giganteggiante nell’ombra.

– Peccato che sia un turco e che sia giunto dopo Le Hussière, – mormorò.

In quel momento la gagliotta, che cominciava ad aumentare la corsa di passo in passo che s’appressava all’uscita della rada, girò dietro le ultime scogliere ed il Leone di Damasco non fu più visibile.

Al di fuori frescava una forte brezza che veniva da levante, la quale corrugava la superficie del Mediterraneo sollevando qua e là qualche ondata, che s’infrangeva cupamente contro i fianchi della gagliotta.

Papà Stake e Simone si erano collocati accanto alla ribolla e guidavano la leggera nave, mentre Perpignano esaminava, da conoscitore profondo, le colubrine del cassero.

La duchessa, appoggiata alla murata di babordo, in un abbandono strano, guardava sempre verso la lanterna, la cui luce brillava spiccatamente fra le fitte tenebre.

La gagliotta si comportava da buona veliera, e rimontava leggera le ondate, aumentando di velocità, man mano che si allontanava da terra. Allontanatasi d’un paio di miglia onde non correre il pericolo di dare dentro a qualche scogliera, essendovene molte intorno all’isola di Cipro, piegò verso tramontana onde raggiungere il castello d’Hussif.

– Signore, – disse Nikola Stradioto, accostandosi rispettosamente alla duchessa. – È da voi solo che devo prendere gli ordini.

– Sì rispose la gentildonna.

– Volete approdare al castello di giorno o di notte?

– Quando vi potremo giungere?

– Il vento è buono e fra dieci ore noi getteremo le àncore nella rada d’Hussif.

– Sapete che si trovino colà dei prigionieri cristiani?

– Così si dice.

– E che fra costoro vi sia anche un gentiluomo francese?

– Può darsi, signore.

– Chiamatemi pure signora, essendo io una donna.

Il greco non fece alcun gesto di sorpresa. Evidentemente era stato avvertito o da papà Stake o dagli schiavi di Muley-el-Kadel che avevano noleggiato la nave.

– Come volete, signora, – disse.

– Conoscete quel castello?

– Sì, essendo stato colà tre settimane come prigioniero.

– Chi comanda ad Hussif?

– La nipote di Alì pascià.

– Dell’ammiraglio turco! – esclamò la duchessa.

– Sì, signora.

– Che donna è?

– Bellissima e molto energica: anzi, si dice che sia anche molto crudele verso i prigionieri cristiani. Mi ha affamato per sei giorni continui, per una mala risposta che le detti e mi fece somministrare una tale bastonatura che ne porto ancora le tracce quantunque siano trascorsi già sette mesi.

– Povero Le Hussière! – mormorò la duchessa, che non potè frenare un brivido di angoscia. – Come avrà potuto sottomettersi lui così fiero e così intollerante d’ogni giogo?

Stette qualche istante pensierosa, poi riprese:

– Potremo noi entrare nel castello, fingendoci mussulmani mandati in missione da Muley-el-Kadel?

– Giuochereste una carta pericolosissima, signora, – rispose il greco, scuotendo la testa – tuttavia non credo che si possa escogitare qualche altro motivo per mettere i piedi in quella rocca.

– Vi potremo giungere senza fare cattivi incontri?

– Ecco il difficile, signora, – disse il greco. – È probabile che nella rada vi sia qualche nave del pascià e che il suo comandante ci arresti per sapere chi siamo, da dove giungiamo e molte altre cose ancora.

– È lontano il castello dal mare?

– Qualche miglio, signora.

– Se vi sarà la nave che voi temete, l’assaliremo e la espugneremo, – rispose la duchessa, con accento risoluto. – Siamo decisi a tutto e credo che anche voi non rifiuterete di vendicarvi dei maltrattamenti fattivi subire dai turchi, se vi si offrisse l’occasione.

– Potete contare su di noi, – rispose il greco, – Il rinnegato è peggio dello schiavo, disprezzato e mal veduto dai turchi, e oggetto di scherno pei cristiani e, per mio conto, preferirei la morte piuttosto che continuare questa vita infame, pur di non cadere invendicato.

Da quando, per salvarmi dal palo o dai crudeli trattamenti, io ho rinnegato la Croce, più nessuno mi ha mai stretto la mano, eppure questa mano ha ucciso più di venti mussulmani a Negroponte ed a Candia.