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Gli ultimi flibustieri

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Nessun ostacolo arresta quei terribili uomini, che sono ben decisi rivedere il Golfo del Messico o cadere tutti nell’ardua impresa.

E la contessina di Ventimiglia, che ha nelle sue vene sangue indiano, è sempre là pronta a dare il buon esempio ed il suo slancio e la sua resistenza formano l’ammirazione di quei ruvidi avventurieri, i quali hanno sempre conservato nel loro cuore un vero culto pei discendenti dei tre grandi corsari: il Nero, il Rosso, il Verde.

Dopo tre giorni di fatiche inenarrabili, la colonna, verso il cader del giorno, giunta sulla vetta d’una certa montagna, scorge con grande stupore, agglomerati nella sottoposta valle, una moltitudine di animali.

Dapprima li presero per buoi al pascolo e già si rallegravano di potersi finalmente ristorare, quando furono avvertiti dai loro esploratori che quelle bestie erano cavalli già insellati e colle loro staffe, e che il loro numero ascendeva almeno a mille e cinquecento!

E non era tutto. Gli stessi esploratori avevano scoperto, nel ripiegarsi verso la montagna, tre ordini di trincee alzate a breve distanza le une dalle altre che chiudevano completamente la gola, per dove avrebbero dovuto scendere il giorno seguente, non essendovi altri passaggi in vista. Infatti tutto intorno il paese era coperto da foreste impraticabili, da rupi scoscese, da precipizi profondissimi e da paludi che probabilmente nascondevano delle sabbie mobili.

In tante angustie, i filibustieri, dopo essersi radunati a consiglio, decidono di tentare un colpo disperato, ossia di sorprendere gli spagnuoli alle spalle; ma per far ciò era d’uopo lasciare indietro tutto il loro convoglio, non volendo esporsi a perdere le loro ultime ricchezze, per le quali sole si sentivano tratti a salvare le loro vite.

E stavano già preparandosi animosamente alla disperata impresa, quando da un negro fuggiasco, catturato dai loro esploratori, apprendono che hanno alle spalle un corpo di trecento spagnuoli, i quali da giorni e giorni li seguivano, in attesa del momento opportuno di privarli dei loro bagagli.

Altri uomini, di fronte a tanti ostacoli, si sarebbero certamente perduti d’animo, ma i filibustieri possedevano una fibra a prova di qualunque fuoco.

Con alberi innalzano delle trincee e fortificano, come meglio possono, il loro campo, incaricando di guardarlo e di difenderlo ottanta dei loro compagni, i quali dovevano pure vegliare sulla contessa di Ventimiglia.

Per ingannare poi meglio gli spagnuoli sui loro disegni, Raveneau de Lussan e Buttafuoco ordinano alla retroguardia di mantenere sempre accesi i fuochi, di far rullare incessantemente i loro tamburi, istrumenti carissimi ai filibustieri, e che portavano con loro anche durante le piú pericolose spedizioni, di far gridare alto alle sentinelle ogni volta che le cambiavano e di fare, di quando in quando, delle scariche di moschetteria.

Prese queste precauzioni, il corpo principale, composto di poco piú che duecento uomini, nel cuor della notte lascia il campo, risoluto ad aprirsi il passaggio della valle e a piombare su Segovia-Nuova.

Quegli uomini instancabili, rotti a tutte le fatiche ed a tutti i disagi, scendono la montagna per uno dei fianchi e cominciano a trarsi sulla parte opposta con incredibili fatiche, sfondando boschi, superando rocce spaventose, attraversando burroni profondissimi solcati da torrenti impetuosi, le cui acque sono gelate.

Allo spuntare del giorno i duecento uomini si trovano finalmente riuniti sulla vetta d’una montagna alla cui falda stavano i trinceramenti spagnuoli preparati con tale arte da rendere impossibile ogni attacco di fronte.

Una densa nebbia fu loro propizia, in quanto che poterono scendere inosservati, però quella nebbia nel medesimo tempo toglieva loro la vista dei trinceramenti.

Fu grande ventura per loro di udire a pochi passi una pattuglia nemica, che marciava pesantemente sul terreno ineguale.

Giovò pure a loro udire le voci degli spagnuoli che recitavano le loro preghiere del mattino, sicché conobbero facilmente a che distanza e da quale parte si trovavano i loro nemici.

Gli spagnuoli erano cinquecento, comandati da un vecchio ed esperimentato ufficiale vallone, quindi avrebbero potuto disputare lungamente la vittoria a quel pugno d’uomini.

Vedendo precipitare dall’alto i loro avversari che aspettavano invece al passo della gola, presi da meraviglia e da spavento fuggono disordinatamente, credendo di aver di fronte un grosso corpo.

Quelli che si trovano nei trinceramenti, per loro diventati ormai inutili, per un’ora resistono ferocemente, poi a loro volta si precipitano al basso, sperando di salvarsi in Segovia-Nuova ma cadono sugli ostacoli che avevano preparati pei filibustieri.

Sui fianchi della montagna s’impegna una lotta spaventosa, la quale non tarda a tramutarsi in un macello, poiché gli spagnuoli, sdegnando di difendere la vita contro uomini che credevano piú infernali che umani, si lasciavano trucidare senza opporre resistenza, sicché ben pochi si salvarono in mezzo alle folte boscaglie.

Fra i morti fu trovato il vecchio ufficiale vallone che comandava la spedizione, espertissimo nelle cose di guerra, il quale, mentre il governatore di Costarica, d’accordo col marchese di Montelimar, voleva dargli ottomila uomini, che si trovavano radunati in Segovia-Nuova, non ne aveva presi con sé che mille e cinquecento, reputandoli piú che bastanti per arrestare quel pugno di avventurieri e di sterminarli in fondo alla valle.

Diceva nelle lettere trovategli indosso, che se i filibustieri erano uomini, non avrebbero potuto superare quelle rocce in meno di otto giorni; che se poi erano demoni, ogni misura che si prendesse contro di loro sarebbe stata vana.

Cosí col fatto gli spagnuoli poterono convincersi sempre piú che non erano uomini i filibustieri, bensí spiriti maligni vomitati dall’inferno per tormentare l’umanità.

Incredibile a dirsi! In quella lotta durata varie ore i filibustieri non avevano perduto che un solo uomo e non avevano avuto che due feriti! E questa è storia.

Mentre gli spagnuoli dei trinceramenti si lasciavano distruggere quasi senza combattere, i trecento che erano stati incaricati dal governatore di Tusignala di perseguitare la retroguardia dei filibustieri, si spingevano invece audacemente sotto il campo tentando una sorpresa.

Accortisi che la maggior parte dei loro avversari avevano abbandonata la vetta della montagna, si fecero arditamente innanzi, ma all’ultimo momento, invece di agire, vollero ragionare, mentre avrebbero potuto facilmente aver ragione degli ottanta uomini che difendevano il campo.

Mandarono quindi uno dei loro camerati a dire ai filibustieri che l’attacco dato del corpo di duecento uomini era andato a vuoto, che tutto il paese era in armi e che perciò si arrendessero.

Pei filibustieri è un altro momento terribile. Hanno udito rombare i moschetti giú nella valle, ma le grida di vittoria dei loro camerati non erano giunte ai loro orecchi, trovandosi troppo lontani dai punti di attacco.

Essi si domandano angosciosamente se i loro camerati sono davvero tutti caduti o se sono riusciti invece ad aprirsi un passaggio.

Raveneau de Lussan e Buttafuoco avevano presa la precauzione, prima di lasciare il campo, di avvertire gli ottanta uomini di prendere le loro misure per salvarsi al piú presto nel caso che fossero stati attaccati.

La retroguardia, credendosi ormai abbandonata alle sue sole forze, non esita. Respinge la resa e risponde fieramente al messo spagnuolo che insiste:

– Se i vostri compagni hanno distrutto i due terzi dei nostri, il terzo che rimane ha bastante coraggio per tenere testa a tutti voi.

Mentre si dispongono a scendere nella valle, scorgono finalmente i segnali di vittoria dei loro camerati, sventolati sulle trincee grondanti di sangue.

Mentre il messo spagnuolo ritorna al campo per riferire al suo comandante la risposta avuta, formano rapidamente una carovana, rinchiudendo nel mezzo la contessa e scendono a precipizio nella valle, sparando furiosamente per impressionare i trecento spagnuoli che avrebbero dovuto distruggerli.

A mezzogiorno i due piccoli corpi si riunivano, accampandosi nelle fortissime trincee che avrebbero dovuto arrestarli e che ormai diventavano imprendibili anche per gli spagnuoli.

Capitolo XII. IN CERCA DI IMBOSCATE

L’entusiasmo dei filibustieri per aver riportata quella grande ed insperata vittoria, non aveva durato molto, poiché se erano riusciti ad impadronirsi dei trinceramenti e forzare la bocca della valle, non potevano dire di essersi aperti il passo.

Le lettere trovate sul vecchio ufficiale vallone, le quali affermavano che entro Segovia-Nuova si trovavano seimila uomini al comando del marchese di Montelimar, avevano raffreddato molto gli animi.

Una nuova battaglia avrebbe potuto terminare in un terribile disastro, poiché erano esseri umani non diversi dagli spagnuoli e che nessun talismano proteggeva dalle palle.

Raveneau de Lussan e Buttafuoco, i quali si erano spinti fino alle ultime trincee, si erano resi subito conto della gravità della situazione.

La città stava dinanzi a loro, a poche miglia di distanza, incassata dentro una specie di conca e chiudeva tutti i passaggi.

Per di piú sui fianchi delle montagne gli spagnuoli avevano eretto delle forti trincee armate di cannoni, pronti a schiacciare il nemico se avesse osato scendere nella valle.

– Mio caro, – disse Raveneau a Buttafuoco, – ecco una magnifica vittoria guadagnata quasi senza perdite e che non ci ha fruttato che una massa di cadaveri e di corazze. Che cosa fate ora? Tornare indietro? Nessuno dei miei uomini accetterebbe una simile proposta, quand’anche fossero sicuri di lasciar qui la loro pelle e le loro ricchezze.

– Se in Segovia-Nuova non ci fosse il marchese di Montelimar, ti direi senz’altro di muovere all’assalto della città, approfittando dello sgomento che deve aver invaso ormai tutte le truppe per la nostra strepitosa vittoria.

 

Una voce in quel momento si fece udire dietro i due capi delle bande.

– È il marchese che v’inquieta?

Buttafuoco e Raveneau si erano voltati e si erano trovati dinanzi al guascone ed al basco, i quali stavano osservando a breve distanza delle magnifiche corazze cesellate che i filibustieri avevano levate ai morti.

– Che cosa volete dire, don Barrejo? – chiese Raveneau, un po’ sorpreso da quella domanda.

– Che voi, mio caro signore, vi dimenticate troppo spesso di aver fra le vostre file qualche guascone e qualche basco, – rispose l’ex taverniere.

– Vi prego di spiegarvi meglio.

– Io dico che quando un uomo dà dei fastidi si va a trovarlo e si mette a posto.

“Giacché è il marchese di Montelimar che vi dà delle preoccupazioni, perché non dite a noi: Signori miei, andate a prenderlo e portatemelo qui? Con un ostaggio di tale specie la via ci sarebbe subito aperta e sarebbe anche finita la storia di questo pericoloso concorrente alla conquista del tesoro del Gran Cacico del Darien.”

– Voi siete pazzo!…

– Niente affatto, signor Raveneau. Che diamine!… I cervelli dei guasconi nascono ben muniti di chiavarde tutto intorno.

– Insomma, che cosa volete fare? – chiese il gentiluomo, un po’ impazientito.

– Chiedetelo ora al mio camerata. A te la parola, Mendoza.

Il basco lasciò cadere la corazza che teneva in mano e, guardando i due capi, disse con una calma stupenda:

– Che cosa vogliamo fare? Per Bacco!… Andarvi a prendere il marchese e portarvelo qui.

– E farvi appiccare, – disse Buttafuoco.

– Bah!… Non si appicca cosí facilmente i baschi ed i guasconi.

“Io e don Barrejo, in un lampo, abbiamo fatto il nostro piano.

“Giacché il marchese ci ha portata via, quasi sotto il naso, la contessa di Ventimiglia, desideriamo provare il piacere di rapire ora lui, tanto piú che quell’uomo vi è necessario perché è l’anima della difesa.

“Quanti giorni ci accordate?”

– Siete pazzi, – ripeté Raveneau de Lussan, il quale non poteva fare a meno d’ammirare il coraggio di quei due terribili spadaccini.

– Diteci quanti giorni ci accordate, – disse don Barrejo. – Noi non vi chiederemo né un uomo, né un fucile di piú, quantunque qui ve ne siano in abbondanza.

“Basteranno a noi due costumi spagnuoli e due corazze con relativi elmetti, è vero, camerata?”

– Ben detto, don Barrejo.

– Noi non lasceremo questi trinceramenti finché non avremo qualche probabilità di espugnare, con un colpo di mano, Segovia-Nuova, – disse Raveneau de Lussan.

– Allora possiamo prenderci alcuni giorni di permesso per andarci a divertire in città. È un bel po’ che non visitiamo una taverna, è vero, don Barrejo?

– Tanto che mi pare di non aver mai fatto il taverniere, – rispose il guascone.

Raveneau de Lussan interrogò cogli sguardi Buttafuoco.

– Lasciali fare, – rispose il bucaniere. – So di che cosa sono capaci questi due uomini.

– E se gli spagnuoli ce li appiccano? Mi dispiacerebbe perdere due combattenti cosí valorosi.

– Quelli li morranno sul loro letto, te lo dico io, perché sapranno sempre trarsi d’impiccio.

– Se tu dici questo, sia fatta la loro volontà, e poi sapremo sempre vendicarli.

Mentre discorrevano, il basco ed il guascone avevano spogliati due ufficiali e ne avevano indossate le vesti le quali si adattavano abbastanza bene alle loro corporature.

– Con quelle due corazze cesellate noi faremo una splendida figura a Segovia, – diceva il guascone. – Era tempo di indossare un vestito un po’ piú decente. Il mio cadeva a brandelli ed anche il tuo, mio caro Mendoza, non si trovava in migliori condizioni.

“Aveva perfino uno strappo che mostrava certe rotondità che avrebbero dovuto rimanere sempre al coperto.”

– Scommetto che tu, don Barrejo, farai qualche nuova conquista a Segovia.

– Non sarà però questa volta una castigliana. Hai finito?

– Si.

– Cerca un paio di pistole.

– Ne ho messo da parte quattro.

– Allora possiamo andare.

I due avventurieri, coi loro costumi d’ufficiali, a tinte smaglianti, le corazze e gli elmetti cesellati, facevano realmente una splendida figura, malgrado le loro lunghe barbe incolte che da settimane e settimane non avevano conosciuto né il rasoio, né le forbici.

– Signor Raveneau, – disse il guascone, – spero di rivedervi presto e di farvi fare la conoscenza del marchese di Montelimar. È un bell’uomo che merita di essere veduto, ve l’assicuro.

“Se vi deciderete ad attaccare la città, prima che noi l’abbiamo catturato, fate visitare tutte le taverne e vedrete che in qualcuna ci troverete.”

– Non commettete delle pazzie, – disse Buttafuoco.

– Non ne abbiamo nessun voglia.

I due avventurieri strinsero le mani ai due capi delle bande e lasciarono i trinceramenti, fra lo stupore dei filibustieri, i quali ignoravano ancora ogni cosa.

Dopo essere passati sopra diversi cumuli cadaveri, il guascone e Mendoza si gettarono dentro un bosco, il quale si estendeva lungo la falda di un’aspra montagna.

Giú, in fondo alla conca, si vedevano ancora degli spagnuoli, sfuggiti miracolosamente al massacro, scappare a piccoli gruppi, mentre le campane delle due chiese della città squillavano a distesa per chiamare gli abitanti alle armi.

La notizia della disfatta doveva ormai essere giunta agli orecchi del governatore, che certo, per quanto gli sembrasse inverosimile, aveva subito prese le disposizioni necessarie per respingere un attacco.

Per far capire ai filibustieri, i quali non avevano nessun desiderio di lasciare la posizione conquistata, che disponeva ancora di forze imponenti e che possedeva dei pezzi di cannone collocati sulle trincee fiancheggianti le montagne, aveva fatto fare alcune scariche, le quali si erano ripercosse, con un rimbombo infernale, dentro la conca.

Don Barrejo e Mendoza, per nulla inquietati da tutto quel fracasso, continuavano tranquillamente la loro via, calando a poco a poco nella valle, volendo possibilmente entrare in città insieme agli ultimi gruppi di fuggiaschi.

– Bah!… Non ce la prendiamo tanto calda, – disse don Barrejo, il quale dubitava di poter giungere prima dell’alzata dei ponti, essendo la china intricatissima e cosparsa anche di rocce enormi. – Colle corazze che indossiamo ci scorgeranno da lungi e si guarderanno bene di far fuoco su di noi.

– Hai preparato il tuo piano? – chiese Mendoza.

– Sí: ricordati solamente che noi siamo mandati dal governatore di Tusignala.

“Se il colpo mi riesce, il marchese cadrà nella rete; però tu rimani piú che puoi nell’ombra.

“Il marchese di Montelimar potrebbe riconoscerti anche nella pelle d’uno spagnuolo, quantunque io dubiti assai che dopo sei anni si ricordi ancora di te. Cambia voce innanzi tutto.”

– Parlerò col naso.

– Benissimo, Mendoza. Mi accorgo che anche i baschi sono dei gran furbi.

– Se lo sono sempre stati!…

– Infatti mi pare di averlo udito dire, – rispose il guascone, con comica serietà.

– Ecco che ora non conosci piú i fratelli che stanno dall’altra parte del mare di Biscaglia.

“Ah!… Questi guasconi sono insoffribili!…”

Don Barrejo si limitò a sorridere ed affrettò il passo, mentre gli ultimi drappelli di fuggiaschi si precipitavano schiamazzando nella città ed i ponti venivano precipitosamente alzati.

– Mettiamoci a correre anche noi, – disse Mendoza. – Fingiamo di essere inseguiti dei filibustieri.

– Stavo per proportelo, – rispose don Barrejo, prendendo subito lo slancio colle sue magre e lunghissime gambe.

Erano già scesi nella valle ed avevano raggiunta la strada che conduceva a Segovia-Nuova. Scorgendoli, gli spagnuoli che stavano radunati sui bastioni, spararono qualche colpo d’archibugio, ma poi avvedutisi del loro errore si affrettarono a riabbassare il ponte per accogliere anche quei due ultimi fuggiaschi non potendo crederli che tali.

Don Barrejo e Mendoza, non udendo piú fischiare le palle, precipitarono la corsa e giunsero ansanti, trafelati, al ponte, dove li aspettavano alcuni ufficiali della guarnigione ed un vecchio maggiore.

Lo stupore di quella brava gente fu immenso, non avendo mai veduto fra le loro file quei due ufficiali.

– Da dove venite voi, caballeros? – chiese loro il maggiore, mentre il ponte veniva sollecitamente rialzato. – Voi non siete agli ordini del marchese di Montelimar.

– No, signore, – rispose prontamente il guascone. – Noi siamo alle dipendenze del governatore di Tusignala.

– È lui che vi manda?

– Sí, caballero.

– Giungete in un bel momento.

– Dite pessimo, poiché abbiamo assistito alla sconfitta dei nostri compatriotti mentre valicavano l’ultima cresta della montagna.

“Siamo sfuggiti anche noi per miracolo alle palle di quei terribili masnadieri.”

– Portate degli ordini da parte del governatore?

– Ed urgentissimi, pel signor marchese di Montelimar.

Il vecchio maggiore si volse verso uno degli ufficiali che gli stavano presso e disse:

– Signor Ramirez, conducete subito questi valorosi caballeros da Sua Eccellenza.

“Decisamente,” pensò don Barrejo, “i guasconi ed i baschi sono piú furbi degli spagnuoli.”

I due avventurieri si erano messi dietro all’ufficiale, cercando di darsi un aspetto molto serio.

Tutta la città era sottosopra.

La popolazione, impressionata dalla terribile sconfitta subita dalle truppe che occupavano le trincee, si preparava a fuggire, caricando su muli e cavalli quanto aveva di meglio.

In tutte le case si udivano strilli di ragazzi, grida di donne ed uomini che imprecavano contro la canaglia che i venti dell’oceano Pacifico avevano spinto attraverso l’istmo.

– Questo sarebbe un bel momento se Raveneau e Buttafuoco lanciassero i loro uomini, ancora inebriati dalla vittoria, su questa città, – mormorò il guascone. – Nemmeno il marchese di Montelimar saprebbe trattenere questa popolazione pazza di terrore.

Dopo aver percorso parecchie luride viuzze ingombre di animali carichi fino a piegare a terra, i due avventurieri giunsero su una specie di spianata, difesa da un ridotto armato da qualche pezzo di cannone.

Il marchese di Montelimar era là, accompagnato da alcuni dei suoi ufficiali. Era sempre un bell’uomo, quantunque fosse molto invecchiato, ed aveva conservato il suo aspetto marziale di vero condottiero.

Pareva furibondo, poiché in quel momento camminava nervosamente per la spianata, imprecando poco cristianamente.

Vendendo Mendoza e don Barrejo, si era fermato bruscamente, posando con un gesto tragico la sinistra sull’impugnatura della spada, e chiedendo brutalmente:

– Chi siete voi?

– Messi del governatore di Tusignala, – rispose il guascone, dopo d’aver fatto un profondo inchino.

Il marchese aveva avuto un soprassalto.

– Voi venite da Tusignala? – chiese con stupore e meno rudemente.

– Si, Eccellenza.

– Soli?

– La nostra scorta è stata massacrata dai ladroni dell’oceano Pacifico, durante il combattimento impegnato dalle vostre truppe.

– E siete riusciti a salvarvi?

– Ci siamo aperti il passo fra quei banditi, combattendo come diavoli scatenati, Eccellenza, – rispose il guascone.

– Chi conduceva quei disperati? Sapreste dirmelo?

– Abbiamo udito pronunciare un nome durante la breve lotta sostenuta dai nostri uomini.

– Ditemelo.

– Raveneau, se non m’inganno.

– Il capo dei corsari dell’oceano Pacifico che si era stabilito a Taroga? – disse il marchese. – Ma l’ero immaginato.

“Aveva molti uomini con sé?”

Non saprei dirvi il numero, Eccellenza, ma molti di certo, poiché di sotto ogni cespuglio sorgeva un drappello di quei banditi.

Il marchese fece cenno ai suoi ufficiali di ritirarsi, poi chiese al guascone, poiché Mendoza pareva che fosse diventato improvvisamente muto, con una visibile emozione:

– Avete veduta una fanciulla fra i filibustieri?

– Una indiana o per lo meno una meticcia, volete dire? – rispose don Barrejo, dopo aver pensato qualche istante.

– Si, giovane e bellissima.

– Precisamente, Eccellenza: combatteva fra le file dei filibustieri, con grande animazione.

Il marchese si morse le mani fino a farle sanguinare.

– Lo sospettavo, – disse poi.

Fece otto o dieci passi colle braccia dietro il dorso e la testa china, poi tornando verso il guascone, il quale si studiava di nascondergli piú che gli era possibile il basco, chiese bruscamente:

 

– Orsú, che cosa vuole da me il governatore di Tusignala? Invece di mandarmi un paio d’uomini, avrebbe dovuto inviarmi quel corpo di cavalleria che aspetto da due settimane.

– Eccellenza, ci ha mandati invece per chiedere a voi dei pronti aiuti.

– Chi lo minaccia?

– Tutte le tribú indiane sono in rivolta e distruggono le piantagioni da zucchero e le fattorie e non risparmiamo i proprietari, quando riescono ad acciuffarne uno.

Il marchese si alzò le spalle.

– S’inquieta per poco il governatore di Tusignala? – disse poi, un po’ ironicamente.

“Mi mandi i suoi indiani ed io gli manderò quei demoni che mi stanno di fronte e che nessuna forza umana vale ad arrestare.

“Avete veduto come combattono quei filibustieri?”

– Meravigliosamente, Eccellenza. Sono dei soldati che fanno paura.

– Eh, lo so. – disse il marchese. – Eppure non devono essere in molti.

– Io ho veduto quattro grosse compagnie a combattere, Eccellenza, ed ognuna doveva contare molti uomini, – disse il guascone.

Il marchese non rispose. Si era rimesso a camminare, colla fronte offuscata, borbottando delle parole e pestando, di quando in quando, i piedi.

Per la seconda volta si fermò dinanzi ai due avventurieri e disse loro:

– Pel momento non posso prendere alcuna decisone. Questa sera vi aspetto a casa mia, dove potrete pernottare a mangiare liberamente.

“Andate, miei bravi.”

Il guascone ed il basco, felici di non aver destato il minimo sospetto, fecero un profondo inchino e girarono sui talloni, ridiscendendo verso la città.

Gli abitanti, passato il primo momento di terrore, cominciavano a calmarsi, essendovi in città abbastanza truppe per dar molto da fare anche agli invincibili filibustieri.

Su tutti i volti però don Barrejo e Mendoza leggevano chiaramente l’angoscia profonda che si era impadronita di tutti.

– Compare, – disse il guascone, – fingiamo di essere desolati anche noi e andiamo a consolarci con qualche bottiglia. Sai che sono sette giorni e cinque ore che nel mio corpo non entra una goccia di vino?

– Perfino le ore hai contato!… – esclamò Mendoza, scoppiando in una risata, che doveva produrre un certo effetto sulle persone spaurite che ingombravano la viuzza.

– Mio caro, da quando sono diventato proprietario ho imparato a fare i conti per non andare a casa del diavolo senza una piastra.

– Chi ti ha insegnato?

– Mia moglie.

– Quella castigliana vale un Perú.

– Sto meglio qui, per ora. Ne avevo fin sopra gli occhi di quell’infame mestiere, che non consisteva che nel portare boccali di vino.

– Ed anche nel vuotarli, però.

– Dei bei buchi ne ho fatti nella mia cantina malgrado le proteste di mia moglie, la quale temeva che la mandassi in rovina. Oh!… Toh!… Che curiosa combinazione!… Sogno io?

Don Barrejo si era fermato in mezzo alla via, con la testa in aria e gli occhi fissi su una vecchia insegna di legno la quale rappresentava un toro.

– Mendoza, leggi!… – disse, con viva commozione.

– Taverna d’El Moro.

– Tonnerre!… Chi è questo mascalzone di oste che ha rubato il nome alla mia taverna? Voglio tagliargli gli orecchi.

– Se gli spagnuoli sono sempre stati furibondi pei tori!… Che cosa ci trovi di strano se trovi anche qui un’insegna simile alla tua?

– È vero, sono una bestia qualche volta, – disse il guascone. – Sarà meglio che andiamo a tirare il collo alle bottiglie del taverniere.

“Ci guasteremo meno il sangue.”

Con una pedata spalancò la porta ed entrò in una stanzaccia bassa, dalle mura tutte annerite ed i tavolini piú o meno sgangherati.

Un tanfo d’olio bruciato, di mezcal fermentato e di caña circolava là dentro, togliendo quasi il respiro.

Udendo quel fracasso, il proprietario della tavernaccia si era precipitato fuori dal banco, sagrando. Non aveva torto, poiché il calcio del guascone aveva mandato in frantumi un vetro.

Era un uomo sulla quarantina, con un naso arcuato come il becco di un pappagallo, due baffi folti, magro e alto quanto don Barrejo, ma tutto nervi e muscoli.

– Canarios!… – urlò furioso. – La mia caverna non è un canile per entrare in questo modo, corpo dei centomila fulmini di Giove!… Non tollero prepotenze qui dentro, nemmeno da parte di ufficiali.

Don Barrejo era rimasto lí a guardarlo, come trasognato, poi si diede un gran pugno sull’elmetto, gridando:

– De Gussac!…

– Barrejo!…

– Tonnerre!…

– Corpo di tutti i fulmini di Giove!…Che cosa fai tu qui, che ti ho veduto taverniere a Panama tre anni or sono? —

– Ah!… Canaglia!… Mi hai rubato l’insegna gloriosa d’El Moro.

Il taverniere era scoppiato in una risata ed aveva stese le mani al guascone.

– Speravo che mi portasse fortuna, – disse poi.

– Vedo un gran vuoto qui.

– Che cosa vuoi, amico i soldati da tre mesi non ricevono la paga e non spendono piú, e trovo piú conveniente vuotare io la mia cantina.

Don Barrejo si era voltato verso Mendoza, il quale aveva assistito a quell’incontro un po’ prodigioso, con un certo interesse, e gli disse con voce commossa:

– Vedi, amico, che cosa ha serbato la triste sorte ai grandi guasconi che vengono a cercare fortuna in America? Ecco un piccolo nobile della nobile terra che ha nutrito da migliaia d’anni i guasconi, ridotto anche lui a portare boccali di mezcal e dar da bere perfino a dei luridi indiani. Credo che non vi siano in tutta l’America centrale che due guasconi e si sono ridotti a fare i tavernieri!…

– Orrore!… – disse il basco. – Per degli spadaccini non è certo un bel mestiere.

– La Guascona è finita!… – esclamò don Barrejo, il quale aveva gli occhi umidi. – La terra dei prodi muore.

– Vivaddio, un po’ di coraggio, camerata. – disse il taverniere. – La Guascona non muore mai, anche se i suoi figli vendono vino ed appendono le loro draghinasse arrugginite alle pareti fumose o sotto il camino. La mano rimane sempre lesta per dare delle stoccate.

– Hai ragione, amico. – disse don Barrejo, rimettendosi prontamente dalla sua commozione. – Noi rimarremo sempre i piú terribili spadaccini della Francia.

“Ehi, Mendoza, allunga la tua zampa al mio compatriotta e tu, De Gussac, fa’ altrettanto.”

“Stringerai quella d’uno dei piú formidabili filibustieri che siano vissuti sotto la cappa del cielo americano.”

– Filibustiero, hai detto?…

– Pst!…Silenzio per ora. Farai meglio a portarci da bere, se ti è rimasta ancora qualche bottiglia nella cantina.

– Per gli amici ne ho sempre, – rispose il taverniere, scomparendo nella stanza vicina.

– Dove l’hai conosciuto? – chiese Mendoza a don Barrejo.

– A Panama, dove credo che vendesse delle banane. Che cosa vuoi? L’America non è fatta pei guasconi.

– Di che cosa hai tu da lagnarti, briccone? Hai una moglie adorabile e una cantina splendidamente fornita, che ti rende piastre su piastre. Che cosa vorresti di piú?

– Che nessun figlio della grande terra degli spadaccini vendesse vino, – rispose don Barrejo, con accento tragico.

– Però sei sempre pronto a berlo.

– Tonnerre!… L’uomo di spada, che non vive che per l’avventura, beve sempre come una spugna.

– Allora lascia andare per un momento la tua grande Guascogna, che non è mai stata piú grossa d’una provincia spagnuola ed occupiamoci del marchese.

“Non siamo già venuti qui per discutere sui tuoi compatriotti.”

– Spesso divento un bestione, compare, – disse don Barrejo. – Mi ero già dimenticato che noi siamo entrati in Segovia-Nuova per portare via il marchese di Montelimar!…

“Eppure quell’uomo ci occorre, e, come abbiamo fatto cadere il Pfiffero, faremo cadere anche lui.”

– Disgraziatamente il marchese non è un uomo che vada a bere nelle taverne, e non sarà qui che noi lo cattureremo.

– Lascia fare a me – rispose don Barrejo. – Intanto i piedi li abbiamo messi nella sua casa e questo è già molto.

Tonnerre!… Ospiti del marchese di Montelimar!… Quell’uomo dannato, in fondo è un grande gentiluomo che sa apprezzare i valorosi.”

In quel momento giunse De Gussac, portando un paniere pieno di bottiglie che avevano un aspetto abbastanza venerando.

– Le mie ultime, – disse con un sorriso un po’ mesto. – Spero però che siano le migliori.

“Vuotatele liberamente, perché le serbavo per gli amici e degli amici qui non ne sono mai venuti. La Francia è troppo lontana ed anche i bucanieri del golfo del Messico, che sono quasi tutti nostri compatriotti, hanno il buon senso di non mostrarsi da queste parti.