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Gli ultimi flibustieri

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“Quando trovano un animale morto, vi si cacciano dentro, ed a poco a poco se lo divorano, non lasciando intatte che le ossa e la pelle.”

– Dunque quel bestione dal naso lungo non aveva piú carne dentro di sé?

– Nemmeno una briciola, – rispose De Gussac.

Don Barrejo si tirò i baffi e guardò l’ex-taverniere, il quale teneva d’occhio i quattro armadilli perché non prendessero la fuga.

– Che cosa finirai per farci mangiare, tu?

– Chi rifiuterebbe un tatú ben arrosolato nel suo grasso?

– E nutrito di carne putrida. Devono avere un sapore detestabile.

– Io ti proverò il contrario.

– Io credo che finiremo, con te, per mangiare anche dei serpenti, – disse don Barrejo.

– Oh!…Ne servivo sovente al cacico e non l’ho mai udito lamentarsi.

– Tonnerre!… Che stomaco doveva avere quell’indiano. Tirava giú i sonagli come i maccheroni.

– Senza testa però. Prendi i tatú, prima che snodino le loro piastre, e torniamo al campo.

“Mendoza può essere inquieto.”

Raccolsero i quattro tatú, i quali si tenevano ostinatamente sempre avvolti su se stessi come porci-spini, e ripresero la via del ritorno, osservando attentamente i segni che avevano fatti sul tronco degli alberi, sempre a destra, in modo da potersi guidare a sinistra. Trovarono il fuoco acceso ed il basco coll’archibugio puntato, come se si preparasse a far fuoco.

– Spari ai pappagalli? – chiese don Barrejo, sempre scherzando.

– Quello che è venuto a ringhiarmi quasi sul viso, mentre stavo raccattando dei rami secchi, era un certo pappagallaccio da spaventare anche un guascone.

– Dovevi ammazzarlo, scuoiarlo e metterlo sui carboni. Che bella sorpresa per della gente affamata!…

– Va’ tu a prenderlo per la coda.

– Sentiamo, – disse De Gussac, – che statura aveva?

– Quella d’un mastino.

– Ed il pelame?

– Fulvo.

– Ho capito: si trattava d’un leone americano, leone per modo di dire, perché non assomiglia affatto a quelli dell’Africa, non avendone né la statura, né la forza, né la criniera.

– Sono pericolosi? – chiese il terribile guascone, che si sentiva in vena di battagliare.

– Quantunque di piccola mole, assaltano talvolta perfino gli uomini, con un coraggio che non sempre possiede il giaguaro.

– È scappato?

– Vi ha uditi giungere e si è ricacciato nella foresta. – rispose Mendoza.

– Buon viaggio. – disse don Barrejo. – Se verrà a disturbare la nostra cena avrà il suo conto, corpo d’un cannone!…

“Ehi, grande cuciniere degl’indiani antropofagi, occupati un po’ di queste bestioline che non vogliono saperne di aprire le scaglie.”

– È subito fatto, – rispose l’ex-taverniere, gettando i quattro tatú in mezzo alle fiamme. – Si cucineranno benissimo dentro i loro gusci, senza perdere troppo grasso.

“Se starai un mese sotto di me diventerai anche tu un grande cuciniere.”

– Sí, di scimmie e di mangiatori di carogne, – rispose il terribile guascone. – Ci vuol poco ad imparare un simile mestiere.

– Intanto però fiuti il profumo squisito che tramandano quei divoratori di carogne.

– Sento bruciare solamente delle ossa.

– Aspetta un po’, impaziente.

De Gussac stava per rivoltare i tatú per mezzo d’un randello, quando Mendoza disse:

– C’è un altro individuo che reclama la sua parte.

– Chi? – domandò don Barrejo.

– L’animalaccio che poco fa mi ha visitato.

– Dov’è questo ospite da nessuno richiesto?

– Guardalo là, piantato su quel ramo. Il profumo degli armadilli lo ha fatto ritornare.

– E le nostre palle calmeranno la sua fame, – rispose il terribile guascone. – Signor ghiottone, se vuole farsi avanti, siamo pronti a fare la sua conoscenza, e senza tremare.

Il coguaro, uno splendido animale, ben piú grosso di quelli soliti, si teneva accovacciato su un ramo di noci, lasciando pendere la coda.

All’invito del guascone sbadigliò, mostrando una dentatura superba e non si mosse.

– Che sia sordo? – disse De Gussac.

– Da un orecchio di certo, – rispose don Barrejo. – Si potrebbe fargli provare un colpo dei nostri archibugi.

Come se si fosse accorto della minaccia, il coguaro spiccò in quel momento un gran salto e scomparve nel folto della foresta.

– È un pauroso, – disse don Barrejo. – Lasciamolo andare ed occupiamoci della cena.

“Se tornerà a disturbarci gli faremo capire che noi siamo persone che se ne ridono di tutte le bestie feroci del mondo.”

Spaccarono colle draghinasse le scaglie dei quattro tatú e si misero a lavorare di denti, senza piú occuparsi del coguaro.

Avevano appena terminato, quando udirono un fruscío di fronde, e come un passo accelerato. Pareva che qualcuno scendesse da sierra a corsa disperata.

– Badate!… – aveva gridato don Barrejo.

Tutti tre erano balzati in piedi, cogli archibugi armati, temendo una sorpresa da parte degli spagnuoli.

Il fruscío continuava. Un uomo sfondava le fronde per aprirsi il passaggio attraverso a quei foltissimi vegetali.

Ad un tratto un cespuglio si piegò in due, ed un indiano, di statura alta, cogli zigomi assai prominenti e la capigliatura foltissima, comparve, fissando sui tre avventurieri i suoi occhi nerissimi, che tradivano un estrema angoscia.

– Compare, – gli disse don Barrejo, – se siete un amico non avete nulla da temere da parte nostra. Favorite quindi avanzarvi.

L’indiano, vedendo gli archibugi abbassarsi, fece alcuni passi innanzi, poi mise un ginocchio a terra tendendo le sue braccia graziosamente tatuate e cariche di monili d’oro.

– Amigo, – disse.

– Allora, avanzati ancora. Da dove vieni? T’inseguiva qualcuno?

– Volete un consiglio? – disse l’indiano. – Fuggite senza perdere un istante, od i Tasarios vi piomberanno addosso, vi faranno prigionieri e vi mangeranno.

L’indiano, che era un bel giovane di forse trent’anni, si esprimeva benissimo in lingua spagnuola, lingua già ormai quasi adottata da molte tribú.

– Chi sono questi Tasarios? – chiese Mendoza.

– Dei mangiatori di carne umana. Sono sfuggito loro per un puro caso, però vi posso dire che m’inseguono.

– Non ci mancava altro, – disse don Barrejo. – Ecco un altro brutto affare, da nessuno richiesto, che ci piomba addosso.

“Tu, a quale tribú appartieni?”

– A quella del Gran Cacico del Darien, – rispose l’indiano.

I tre avventurieri avevano mandato un grido di sorpresa ed insieme di gioia.

– Vieni, amico, – disse don Barrejo. – Ci spiegheremo meglio piú tardi.

“Tu conosci queste foreste?”

– Come le mie, perché le ho percorse per parecchi anni.

– Non vi sarebbe un asilo in questi dintorni?

L’indiano rifletté un momento poi, facendo un gesto energico, rispose:

– Io vi condurrò in un luogo ove i Tasarios non potranno raggiungerci.

“Sono già in marcia: io li sento.”

I tre avventurieri non ne vollero sapere di piú pel momento e si misero dietro all’indiano, il quale scendeva la sierra con passo celere, senza mai esitare, quantunque la grande foresta vergine continuasse ancora.

Una mezz’ora dopo, i fuggiaschi giungevano all’entrata di un profondo cañon, ossia d’una stretta valle, anche quella coperta da una prodigiosa quantità di vegetali.

– Scendiamo all’inferno? – si chiese don Barrejo.

– Silenzio, – disse l’indiano. – È pericoloso parlare.

– Temi l’assalto di qualche bestia feroce?

L’uomo rosso scosse il capo e si mise un dito sulle labbra come per invitarlo a non aprire piú la bocca.

Quel cañon sembrava una tenebrosa ed interminabile galleria, poiché le immense piante che crescevano sui suoi margini, intrecciavano in alto strettamente i loro rami e le loro foglie.

Un silenzio impressionante regnava fra quell’oscurità.

L’uomo rosso continuava la sua marcia, fermandosi solo, di quando in quando, ad ascoltare.

I tre avventurieri però si erano accorti che lanciava continuamente de gli sguardi inquieti a destra ed a sinistra, come se temesse un improvviso attacco o da parte dei Tasarios o di animali pericolosi.

– Silenzio, silenzio, – ripeteva, – e soprattutto non fate rumore, se vi preme salvare la vita.

– Dove vede tutti questi pericoli quest’animale di pelle-rossa? – borbottava don Barrejo. – Non vi è nemmeno un mosquito, ed a udir lui si direbbe che qui si sono radunate tutte le belve che abitano l’America centrale.

Invece Mendoza e De Gussac, che conoscevano meglio gl’indiani, lo seguivano senza mormorare, cercando di fare meno rumore che era possibile.

Pensavano che se l’uomo delle foreste agiva cosí, doveva avere i suoi motivi.

Un’altra ora trascorse, poi l’indiano si fermò sotto un foltissimo simaruba, pianta di dimensioni enormi, e dei cui fiori sono ghiottissime le testuggini terrestri.

Infatti basta scavare la terra presso le radici per trovarne quasi sempre.

– Dammi la tua navaja per un momento solo, – disse a don Barrejo.

– Chi hai da sbudellare? – chiese il guascone.

– Nessuno, per ora. Mi occorre per fabbricarmi un flauto.

– Vuoi offrirci un concerto?

L’indiano lo guardò con un certo stupore, poi scuotendo la folta e lunga capigliatura intrecciata con delle sottilissime liane, disse:

– I Tasarios vengono.

– Ce lo hai già detto una mezza dozzina di volte e non abbiamo ancora veduto volare una sola freccia.

– Io li sento.

– Tonnerre!… Nemmeno io sono sordo, eppure non odo che stormire le fronde.

– Salite su questa pianta, uomini bianchi, – disse l’indiano, con accento imperioso. – Intorno a voi vi è la morte.

– Hai capito, Mendoza? – chiese don Barrejo.

– Ed allora obbediamo. Quest’uomo rosso saprà il perché vuole mandarci in alto.

 

– Io però non ho capito finora assolutamente niente. Orsú, proviamo se i muscoli sono sempre in ottimo stato.

Mentre i tre avventurieri si aggrappavano ai festoni di liane pendenti dagli enormi rami, l’indiano, con un colpo di navaja, aveva reciso un bambú di mediocre grossezza, poi a sua volta aveva dato la scalata al simaruba, dimostrando un certo terrore.

– To’!… – disse l’eterno chiacchierone. – Mi hai una faccia punto tranquilla e ti prepari a fabbricarti una trombetta!… Come sono curiosi questi indiani!…

– Varrà meglio delle tue canne da fuoco, – rispose il selvaggio, il quale continuava il suo lavoro. – Fra poco lo vedrai.

– Aspettiamo dunque, – disse il terribile guascone.

Quando il piccolo istrumento musicale fu terminato, l’indiano lo imboccò e trasse alcune note.

Un momento dopo, in mezzo ai cespugli, sotto le foglie secche, fra le enormi radici degli alberi, si udirono suonare come dei sonagliuzzi.

– Lampi!… – esclamò don Barrejo. – Questi sono serpenti a sonagli.

– E la valle ne è piena, – disse l’indiano. – Queste terribili bestie arresteranno la corsa dei Tasarios.

“Non si tratta che di trarli dal loro letargo e di metterli in marcia.”

– Bell’affare se noi scendevamo attraverso questo cañon, è vero De Gussac?

– Ringrazia quest’uomo a cui noi tutti dovremo la vita, – rispose l’ex-taverniere di Segovia.

– Dinanzi a lui mi levo tanto di cappello.

– Ed io perfino la casacca, – aggiunse Mendoza.

– Ecco un saluto che quest’indiano apprezzerà probabilmente piú del mio.

– Per tutti i tuoni del mar di Biscaglia!… Hai preso la lingua di tua moglie prima di lasciare Panama? Chiacchieri sempre, come dieci scimmie rosse.

– Me l’avrà prestata senza che io lo sappia, – rispose il terribile guascone, ridendo.

– Ah!… Ridi!… Vorrei vederti là in mezzo che boccaccie faresti. Eccoli che giungono e s’avanzano a battaglioni.

I velenosissimi crotali, galvanizzati improvvisamente dalle note strane che l’indiano cavava dal suo flauto primitivo, si erano come irregimentati nel fondo del cañon, mettendosi in marcia.

– Solamente a vederli fanno sudare freddo, – disse don Barrejo.

L’indiano staccò un momento il flauto dalle labbra e disse agli avventurieri:

– Non vi occupate di me, per ora. Devo condurre la truppa, e dalla loro marcia dipende la vostra salvezza.

– Dove vai? – chiese Mendoza.

– Incontro ai Tasarios.

– Vengono? – chiese don Barrejo, ironicamente.

– Ci sono vicini.

– Allora buona passeggiata fra i serpenti.

S’ingannava. L’indiano, quantunque dovesse essere un incantatore di rettili, non aveva alcun desiderio di offrire le sue gambe ai loro morsi.

Si spinse lungo un ramo, poi balzò verso un ammasso di passiflore sospese ad una palma e si allontanò, cominciando una vera marcia aerea. Di quando in quando il suo flauto echeggiava, mettendo un certo malessere nei tre avventurieri, poi taceva per qualche minuto per farsi udire piú lontano.

I crotali, attratti, affascinati da quelle note, continuavano a calare nel fondo del cañon, occupandolo interamente.

Perfino dalle spaccature dei vecchi alberi ne uscivano a dozzine, lasciandosi cadere addosso ai compagni.

I tre avventurieri assistevano, in preda ad un violento terrore, a quella formidabile emigrazione. Come mai si erano radunati in quella valle tenebrosa tanti rettili? Forse nemmeno l’indiano avrebbe potuto dirlo.

I battaglioni intanto continuavano sempre la loro marcia, risalendo la valle, con uno strano ed impressionantissimo rumore di sonagli. Pareva che fossero stati presi da una vera furia di correre, poiché si saltavano gli uni addosso agli altri per andare piú innanzi e non perdere nessuna delle note dell’indiano.

D’improvviso la musica cessò.

I crotali, non piú aizzati, si alzarono ondeggiando le loro teste e scuotendo impazientemente le loro code sonore, poi si lasciarono cadere nel fondo del cañon.

– Tuttociò è spaventoso, – disse don Barrejo. – Preferirei combattere contro cento spagnuoli.

“E perché l’indiano tace ora?”

– Egli deve aver già veduto i Tasarios, – rispose Mendoza.

– Veduti o uditi, poiché è un paio d’ore che continua a soffiarmi negli orecchi che li sentiva.

“Un paio d’orecchi li posseggo anch’io, diavolo!…”

– Ed ora che cosa succederà?

– Una cosa semplicissima. I crotali arresteranno di colpo la marcia degli antropofagi.

– Uhm!… – fece don Barrejo. – Purché quei furfanti non mangino anche i serpenti velenosi senza crepare!…

Capitolo XXI. L’ATTACCO DEGLI ANTROPOFAGI

L’udito finissimo del selvaggio, abituato a raccogliere i piú lontani rumori della foresta, purtroppo non aveva sbagliato.

I mangiatori di carne umana calavano a torme lungo il cañon, battendo furiosamente le une contro le altre le loro mazze di legno sonoro.

Pareva che ci tenessero molto a riavere il loro prigioniero, destinato a figurare in qualche gran banchetto, forse con un contorno di banani.

La loro furia doveva però rompersi contro la moltitudine di crotali, i quali tappezzavano tutto il fondo della valle, in attesa di mordere.

Il guerriero del gran Cacico del Darien, dopo d’averli condotti innanzi per due o trecento passi, balzando di ramo in ramo, era ritornato verso gli avventurieri, i quali si trovavano tutt’altro che tranquilli.

Quel fragore di mazze, accompagnato, di quando in quando, da grida feroci, aveva prodotto una profonda impressione sull’animo di tutti.

Perfino don Barrejo aveva perduto il suo eterno buon umore.

– Siete persuaso ora che mi davano la caccia? – chiese l’indiano al guascone. – Udite!…Udite!…

– Sembrano bestie feroci e non uomini, – rispose don Barrejo. – Da dove sono sbucate quelle canaglie?

– Vi sono delle tribú sull’alta sierra e tutte divorano i prigionieri di guerra.

– Ecco una bella occasione per te, De Gussac. Giacché colla tua arte culinaria hai salvato una volta la pelle, cerca di mettere in salvo ora quella dei tuoi camerati. Va’ ad insegnare anche a loro come si cucinano i cadaveri in salsa bianca o verde.

L’ex-taverniere di Segovia fece una smorfia.

– Non si può avere due volte la medesima fortuna e preferisco rimanere qui, fra voi, dietro ai serpenti a sonaglio, – disse poi. – Mi sento piú sicuro.

– Pensi alla tua pancia, briccone!…

– Silenzio, – disse l’indiano.

Il frastuono orrendo che poco prima faceva rintronare la gola, era improvvisamente cessato. Le mazze non suonavano piú l’attacco e tutte le bocche erano diventate mute.

– Sono alle prese coi crotali, – disse Mendoza, il quale, allungato su un ramo, cercava distinguere qualche cosa fra quella piú che semi-oscurità.

– Speriamo che quei maledetti rettili mordano bene, – disse don Barrejo.

L’indiano fece loro cenno di tacere, imboccò il flauto e si mise a suonare precipitosamente, battendo il tempo con le gambe e coi braccialetti.

Udendo quella musica i crotali, che pareva si fossero nuovamente assopiti, alzarono le teste e si spinsero innanzi, fischiando rabbiosamente.

Quanti erano? Delle centinaia e centinaia di certo, poiché formavano una vera colonna, una colonna spaventosa, perché satura del piú terribile veleno.

– Mi fanno venire freddo, – disse don Barrejo. – Su, all’attacco, mostriciattoli, e spazzate via tutto.

I Tasarios, dopo un breve silenzio, si erano rimessi a urlare ed a battere le mazze.

La battaglia doveva essere cominciata, fra i terribili rettili dal morso che non ha rimedio ed i mangiatori di carne umana.

Di quando in quando si udivano fischiare delle frecce attraverso gli alberi.

Dei colpi sordi echeggiavano, riempiendo il cañon di strani fragori: erano le mazze sonore che picchiavano contro le pietre per fare indietreggiare i serpenti a sonagli.

I tre avventurieri e l’indiano, rannicchiati sul simaruba frondoso che li rendeva invisibili, ascoltavano con ansietà crescente.

Resi furiosi da quell’attacco, tutte le falangi dei rettili si spingevano innanzi, impazienti di mordere.

I piú robusti passavano sopra i piú deboli e correvano coraggiosamente in aiuto dei compagni massacrati dalle mazze dei cannibali.

La battaglia non durò che pochi minuti: e la vittoria, come l’indiano aveva previsto, rimase ai serpenti, le cui colonne non si erano aperte dinanzi a nessun sforzo.

Si udirono le urla dei Tasarios allontanarsi verso l’alto cañon, però una voce, che pareva il muggito d’un toro, aveva gridato in una lingua che solo l’indiano aveva compresa: – Ti mangeranno egualmente.

– Le tue carni devono avere un sapore speciale, – disse don Barrejo, quando gli fu tradotta la minaccia. – Non valeva la pena di muovere una intera tribú per prendere un solo arrosto.

“Che mantengano la promessa?”

– I Tasarios non ci daranno tregua, – rispose l’indiano, il quale appariva preoccupato.

– Cerchiamo di raggiungere al piú presto il Maddalena e di scenderlo fino alle grandi cascate.

– È quella la nostra via, – disse Mendoza. – Abbiamo laggiú molti compagni che ci aspettano per guidare la nipote del Gran Cacico del Darien che le tribú aspettano.

“Hai udito parlare tu di quella fanciulla, nata da un uomo bianco e da una figlia del capo?”

L’indiano aveva guardato, con vivissimo stupore, i tre avventurieri, facendo dei gesti di sorpresa.

– Sareste voi, – chiese, – gli uomini che dovevano venire dalla parte ove il sole tramonta e scortare la nipote del Gran Cacico?

– Si, siamo noi, – rispose Mendoza.

– Gli spagnuoli ci hanno separati dai nostri compagni, ma noi ritroveremo sulle rive del Maddalena, presso le cascate, la fanciulla a cui spetta l’eredità del defunto capo.

– Pare che sia grossa, è vero? – chiese don Barrejo.

– Vi sono tre caverne piene d’oro.

– Con un po’ di quelle pepite aprirò un vero albergo, corpo di un cannone.

– Lasciami parlare, compare, – disse Mendoza. – Desidero chiarire, innanzi tutto, un punto oscuro.

“Il Cacico, prima di morire, aveva mandato un uomo bianco nei lontani paesi d’oltremare per condurre qui sua nipote?”

– Sí, – Rispose l’indiano.

– È tornato?

– Ed è stato anche mangiato, – rispose il selvaggio. – Quell’uomo, che si era accaparrata la fiducia del Cacico, pretendeva d’impadronirsi dei tesori, minacciando, in caso di rifiuto, una invasione di spagnuoli. Diventato insopportabile, l’abbiamo preso e messo alla graticola per ordine del tuscan.

– Chi è questo signore? – chiese don Barrejo.

– Il mago o stregone della tribú, – rispose Mendoza.

– Corbezzoli!… Un pezzo grosso!…

– E poi che cosa è successo? – chiese il basco.

– Il tuscan, vedendo che l’uomo bianco voleva impadronirsi dei tesori, come vi dissi, lo fece prendere e mettere alla graticola.

– Benissimo!… – esclamò don Barrejo. – È la pena giusta dei traditori.

– E poi? – riprese Mendoza.

– Delle voci vaghe erano giunte fino alle nostre tribú, ed annunciavano l’arrivo di una grossa banda d’uomini bianchi che si ritenevano nostri amici.

“Il tuscan che aveva invece tutto da temere da parte degli spagnuoli, lanciò dei corrieri in tutte le direzioni, affinché li avvicinassero e si accertassero se la nipote del Gran Cacico si trovava veramente fra di loro.”

– Seppero almeno qualche cosa? – chiese il basco.

– Che una truppa, dopo d’aver lungamente battagliato cogli spagnuoli intorno a Segovia-Nuova, s’avanzava verso il Maddalena.

– È lontano il fiume?

– Appena una giornata di marcia, – rispose l’indiano.

– E tu hai veduto quegli uomini?

– No, perché i Tasarios, mentre esploravo la sierra, mi hanno catturato. Devo alla buona robustezza delle mie gambe se sono riuscito a sfuggire alla morte.

– Ehi, Mendoza, ne sappiamo abbastanza ora, – disse don Barrejo. – Non si potrebbe andarsene, prima che i crotali si risveglino?

– L’indiano saprà riaddormentarli, se vorrà, – rispose Mendoza.

– Ora che sono tutti dinanzi a noi, non abbiamo piú nulla da temere, poiché formano come una barriera insuperabile fra noi ed i mangiatori di carne umana.

– Fermeremo anche il marchese di Montelimar?

– Toh!… – esclamò don Barrejo. – Mi ero dimenticato di quel terribile uomo. Dove sarà rimasto costui?

– Noi siamo degli stupidi, – disse De Gussac. – Stiamo qui a chiacchierare, mentre forse a quest’ora spagnuoli ed antropofagi si preparano, di comune accordo, a darci la caccia.

 

“Le due razze vanno spesso assai d’accordo.”

– Ed è proprio vero, – disse Mendoza. – I discendenti dei conquistadores li hanno talmente terrorizzati, che basta che vedano un elmetto spagnuolo per dichiararsi schiavi.

“Non valeva la pena, in fondo, che i filibustieri intraprendessero tante meravigliose imprese per vendicare degli esseri ormai abbrutiti.”

L’indiano si era alzato, tenendo in mano il flauto.

– Il tempo vola, – disse, – ed i Tasarios potrebbero girare piú sopra il cañon.

– Io avevo già dimenticato che le mie magre membra correvano il pericolo di finire sulla graticola, – disse don Barrejo. – La vita dell’avventuriero diventa troppo dura al giorno d’oggi.

– E si rimpiange sempre la cantina d’El Moro e la bella taverniera, – disse Mendoza.

– Può darsi, ma don Barrejo, da buon guascone, non lo confesserà mai.

L’indiano aveva fatto un moto d’impazienza.

– Venite, uomini bianchi, – disse, col suo solito accento imperioso. – La morte può essere piú vicina di quello che credete.

– Hai ragione, compare, – rispose don Barrejo. – Noi siamo una massa di chiacchieroni.

“Ed i serpenti a sonagli?”

– Non si sveglieranno finché non lo vorrò io, e siccome per ora non lo desidero, li lascerò dormire.

Si aggrapparono alle liane e si lasciarono scendere fino a terra.

I serpenti sonnecchiavano gli uni addosso agli altri, senza muoversi e senza sibilare. Cessato l’attacco, si riposavano tranquillamente, in attesa d’un altro risveglio, piú terribile forse del primo.

L’indiano, appena a terra, appoggiò un orecchio al suolo e si mise ad ascoltare con grande attenzione.

– Odi sempre, tu? – chiese don Barrejo, ironico.

– Sempre, – rispose l’indiano.

– Tonnerre!… Tu devi avere gli orecchi del Padre Eterno!… Non credi che si siano allontanati i mangiatori di carne umana?

– Sospetto che abbiano presa un’altra via per tenderci un agguato all’uscita del cañon.

– Le loro frecce sono avvelenate? – chiese Mendoza.

– No.

– Allora possiamo battagliare. L’archibugio ha ammazzato il dardo.

Pur discorrendo, scendevano a precipizio il cañon, il quale diventava di momento in momento piú ripido.

Alberi ve n’erano dovunque ed intralciavano talvolta la marcia, nondimeno i tre avventurieri e l’indiano continuavano la loro rapida ritirata, spinti dalla paura di doversi trovare, da un istante all’altro, dinanzi ai mangiatori di carne umana.

Il cañon a poco a poco si allargava e lungo i suoi fianchi si udivano scrosciare numerosi torrenti che una vegetazione intensa, gigantesca, rendeva assolutamente invisibili.

La luce cominciava a penetrare, poiché i grandi alberi che crescevano sulle due coste, non potevano piú incrociare i loro rami e le loro foglie.

Quella corsa, condotta con crescente rapidità dall’indiano, durava da un paio d’ore, quando i quattro uomini si fermarono di comune accordo.

In mezzo alle grandi foreste che si stendevano a destra ed a sinistra del cañon, avevano udito squillare una trombetta.

– Gli spagnuoli? – aveva chiesto don Barrejo, guardando l’indiano.

– No, – disse questi, scuotendo il capo e facendosi oscuro in viso, – questa tromba io l’ho udita suonare presso i mangiatori di carne umana.

– La caccia diventa interessante.

– Ed anche estremamente pericolosa, mi pare, – aggiunse De Gussac.

– Sono dunque passati i tempi nei quali gl’indiani fuggivano sempre e si lasciavano prendere due imperi, quello del Perú e quello del Messico, da pochi avventurieri?

– Purtroppo sono diventati battaglieri anche essi, – disse Mendoza.

– Eh!… Avrebbero potuto aspettare qualche secolo ancora!

In quell’istante l’indiano si fermò nuovamente e andò ad appoggiare un orecchio prima contro la costa sinistra, poi contro quella di destra del cañon.

– Ecco un uomo prodigioso, che ode e sente sempre, – riprese l’incorreggibile chiacchierone. – Ora verrà a raccontarci che ci sono già addosso.

L’indiano era tornato verso di loro e non aveva detto che una parola:

– Fuggite!…

– Allora, gambe! – disse don Barrejo.

Si slanciarono a corsa disperata lungo il fondo del cañon, cosparso di macigni trasportati dalle acque e di cespugli, cercando di distanziare, piú che era possibile, i pericolosi mangiatori di carne umana.

Non avevano però ancora percorsi cinque o seicento metri, quando una freccia passò, sibilando sinistramente, sopra le loro teste.

– Eccoli!… – gridò De Gussac.

Don Barrejo si volse e puntò l’archibugio verso un enorme ammasso di passiflore. Cercò un po’ cogli sguardi, poi premette il grilletto.

La detonazione fu seguita da un grido. Un selvaggio che teneva ancora l’arco in mano venne a rotolare fino in fondo al cañon, fracassandosi il capo contro le pietre.

– Via!… Via!… – disse don Barrejo, cercando di ricaricare l’arma. – Se non usciamo da questa maledetta valle, noi corriamo il pericolo di finire davvero sulla graticola.

“È lontano lo sbocco?”

L’indiano, a cui era rivolta la domanda, fece un cenno negativo.

– Noi siamo degli stupidi, – disse il basco. – Giacché i selvaggi scendono lungo la costa di ponente, noi montiamo quella di levante e prendiamo posizione.

“Se si raggruppano ci massacreranno a colpi di pietra.”

– È quello che volevo proporvi, – rispose l’indiano. – Sono sicuro che i mangiatori di carne umana non tengono che una costa del cañon.

– Montiamo dunque, – disse De Gussac. – Ci vedremo meglio.

Si aprirono frettolosamente il passo attraverso quell’ammasso di piante che copriva il fianco interno della valle, e dopo pochi minuti raggiungevano la grande foresta.

Erano appena saliti, quando una tempesta di pietre scese lungo il cañon con un fracasso indiavolato.

Quasi nel medesimo tempo delle freccie furono lanciate sopra la valletta, in direzione dei fuggiaschi, senza però riuscire a raggiungerli, essendo ormai fuori di portata dagli archi.

Venti o trenta indiani erano subito comparsi sull’opposta parete del cañon, mandando urla spaventevoli.

Erano tutti di alta statura, quantunque molto magri, avevano le teste coperte di piume variopinte, e le braccia e le gambe adorne di braccialetti d’oro, probabilmente purissimo.

Dei tatuaggi strani, che dal petto salivano fino alla faccia, a diverse tinte, davano loro un aspetto poco gradevole.

Mentre alcuni erano armati di archi, altri sbatacchiavano furiosamente le loro mazze di legno sonoro, cantando nel loro barbaro linguaggio:

– Vi mangeremo! Vi mangeremo!

– Hai capito, Mendoza, che cosa dicono quelle scimmie rosse? – chiese don Barrejo al basco, dopo che l’indiano del Darien gli ebbe tradotte quelle parole poco rassicuranti.

– Non sono sordo, – rispose il filibustiere. – Pare che ci tengano ora ad avere delle bistecche di carne bianca.

“Forse non ne hanno mai assaggiate.”

– Non restiamo inoperosi, amici. Giacché quei selvaggi si presentano bene ai nostri colpi, tentiamo di spaventarli con una scarica meravigliosa.

“Io sono sicuro del mio colpo.”

– Ed anche noi, – risposero il basco e De Gussac.

– Se non ci facciamo temere, li avremo alle costole fino al Maddalena.

In quel momento una raffica violenta passò sulla grande foresta, senza che nessun indizio l’avesse annunciata, torcendo i grossi rami e ululando sinistramente in mezzo al fogliame.

– Che cosa c’è dunque ora? – chiese l’eterno chiacchierone.

– Il tempio cambia, – rispose l’indiano. – Avremo un tornado.

– Affrettiamoci, camerati. Il momento è buono.

Gl’indiani continuavano a vociferare sull’opposta costa del cañon, senza però decidersi a scendere. Probabilmente dovevano aver già fatta la conoscenza colle canne da fuoco degli uomini bianchi e si tenevano in guardia.

I tre avventurieri si appoggiarono al tronco d’un pinou, per avere la mira piú sicura e spararono, uno dietro l’altro, tre colpi, i quali rumoreggiarono a lungo dentro la valle, come se fosse caduta qualche valanga di sassi.

Tre indiani erano caduti, scivolando lungo il pendío. Gli altri, spaventati, si erano affrettati a rinselvarsi.

– Speriamo che ci lascino un po’ di tregua, – disse don Barrejo. – Credo che pel momento ne abbiano abbastanza.

– E noi approfittiamone per scendere verso il Maddalena, – disse Mendoza. – Odo già frangersi la sua rapida corrente.

Attesero un momento per vedere, se gl’indiani si mostravano, di fare un’altra scarica, poi si slanciarono sotto le foreste scendendo verso la pianura bagnata dal fiume gigante.

Per far comprendere però ai mangiatori di carne umana che avevano ancora delle munizioni, di quando in quando si volgevano per sparare qualche colpo in direzione del cañon.

Mentre affrettavano la discesa per raggiungere il fiume, l’uragano s’avanzava con una rapidità impressionante.

Il cielo, che qualche ora prima era ancora limpido, si era coperto di tali masse di vapori da intercettare quasi completamente la luce.

Mille strani fragori si scatenavano in alto. Ora pareva che centinaia e centinaia di carri pieni di lamine di ferro e tirati da cavalli focosi, corressero sfrenatamente; ora invece sembrava che si sparassero dei cannoni, e le detonazioni erano seguíte dalle urla del vento.