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Gli ultimi flibustieri

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– Se sarà necessario ne comprerò due, mio caro. Alla pentola d’oro! Farò certamente affari d’oro, ti pare?

– Io non ne ho nessun dubbio, però penso, camerata, che tu corri troppo.

– Vorresti dire?

– Che il Darien è molto lontano e che prima di giungervi dovremo battagliare ferocemente cogli spagnuoli che il marchese di Montelimar getterà attraverso la nostra via.

– I guasconi muoiono colla barba bianca, mentre io l’ho solamente un po’ brizzolata. Me lo diceva sempre Panchita che la mia peluria resisteva tenacemente al clima americano.

Intanto le piroghe, capitanate da quella montata da Raveneau de Lussan e da Buttafuoco, e sulla quale si trovavano pure i due inseparabili amiconi, continuavano la loro marcia verso levante, derivando un po’ a settentrione. I filibustieri, lieti di aver lasciata finalmente l’isola dalla quale avevano temuto di non dover piú uscire vivi, maneggiavano i remi gagliardamente, canticchiando.

Di quando in quando un colpo d’arma da fuoco echeggiava ed un albatros od un rompitore d’ossa che avevano commessa l’imprudenza di mostrarsi troppo vicini a quegli infallibili bersaglieri, cadeva ed andava ad aumentare le scarsissime provviste della spedizione.

La notte sorprese i filibustieri in alto mare. Sicuri di non venire disturbati, avendo gli spagnuoli sospesa la navigazione in quei paraggi, si accomodarono alla meglio sotto e sopra i banchi e s’addormentarono placidamente, cullati dall’eterna ondata dell’oceano Pacifico, la quale, di quando in quando, con una certa regolarità, giungeva rumoreggiando cupamente senza essere però pericolosa.

L’indomani, dopo una notte tranquilla, le piroghe riprendevano la rotta verso la costa americana.

Già in lontananza cominciavano a profilarsi le azzurre vette della Grande Cordigliera che forma, colle montagne Rocciose, l’ossatura dei due continenti.

– Questa sera accamperemo a terra, se il diavolo non ci mette la coda, – aveva detto Raveneau de Lussan.

E cosí infatti avvenne. Il sole stava per tramontare quando le piroghe entrarono furiosamente nella baia di David, impadronendosi, senza far uso delle armi, d’un piccolo villaggio di pescatori indiani e meticci, i quali furono subito messi al sicuro per paura che fuggissero nell’interno ad avvertire le cinquantine spagnuole.

Non restava ai filibustieri che attendere il galeone e prenderlo d’assalto colla loro abituale bravura.

Tre giorni però trascorsero senza che il sospirato legno si mostrasse. Buttafuoco cominciava a temere d’essere stato ingannato, quando verso il tramonto del quarto fu segnalata una vela, che pareva puntasse decisamente verso la baia di David.

I filibustieri, prontamente avvertiti, si erano radunati sulla spiaggia, pronti ad imbarcarsi.

– Amici, – aveva detto loro Raveneau de Lussan. – Preparatevi a combattere l’ultima battaglia sull’oceano Pacifico, poiché dopo, noi non rivedremo mai piú, checché ci debba succedere, queste acque.

Alle otto di sera i filibustieri, pieni d’entusiasmo, prendevano posto nelle piroghe, avendo ormai avuta la certezza che una grossa nave, una fregata od un galeone, si dirigeva abbastanza velocemente verso la baia.

Le tenebre favorivano il colpo di mano. Già prima che il sole scomparisse, delle masse di fitti vapori si erano distese pel cielo intercettando completamente la scarsa luce degli astri.

L’oceano pareva che fosse diventato d’inchiostro.

Raveneau de Lussan, in piedi sulla prora della sua piroga, a fianco di Buttafuoco, cercava di discernere la nave immersa nelle tenebre.

– Sapremo egualmente trovarlo, – disse il bucaniere, che lo interrogava ansiosamente. – Sappiamo già qual è la sua rotta e non tarderemo ad incontrarlo.

– Era un galeone? – chiese Buttafuoco.

– Una grossa nave di certo, – rispose Raveneau.

– Lo prenderemo?

– Non dubitare dei miei uomini. E poi ho dato ai capi delle piroghe un certo ordine, che costringerà gli altri a montare all’abbordaggio anche se non ne avessero voglia.

– Vorresti dire?

– Che quando noi saremo sotto il galeone, dovranno sfondare, a colpi di scure, i fianchi delle scialuppe, cosí a tutti noi non rimarrà altra alternativa che di salvarci sul legno nemico se non vorremo morire annegati.

“Si narra che anche Pietro l’Olonese una volta facesse altrettanto.”

– Un mezzo estremamente eroico.

– Che ci darà però la vittoria, – rispose Raveneau. – Conosco troppo bene questi disperati. Ah!… Eccolo.

– Dove?

– S’avanza proprio su di noi.

– Non vedo ancora nulla.

– Tu non hai l’occhio del marinaio. Fra pochi minuti però lo scorgerai anche tu.

Anche i suoi uomini dovevano essersi accorti dell’avvicinarsi del galeone, poiché, come avevano ricevuto l’ordine, si erano disposti su una lunga fila, che doveva subito rinserrarsi al primo colpo di fuoco.

Ben presto una grande ombra, che procedeva lentamente, essendo la brezza diminuita, comparve.

Era il galeone spagnuolo che puntava sulla baia di David.

Nessun rumore proveniva dal ponte; solamente l’acqua, tagliata dall’alto sperone, rumoreggiava rompendo il silenzio della notte.

Le otto piroghe avevano prontamente stretta la linea sul passaggio preciso del vascello. Un comando era stato dato da Raveneau e trasmesso a tutti gli equipaggi.

– Nessun colpo di fucile. Preparate i grappini d’arrembaggio.

Il galeone non era ormai che a duecento passi e procedeva tranquillo la sua via, non sospettando nemmeno lontanamente gli uomini che lo montavano l’agguato che li attendeva.

Era una splendida nave, altissima di bordo, col castello di prora vastissimo e munito probabilmente d’artiglierie.

Le otto piroghe, le quali manovravano silenziosamente, in un baleno si strinsero intorno al vascello ed i grappini d’arrembaggio furono subito lanciati attraverso i paterazzi e le griselle, senza che gli uomini di guardia, troppo sicuri di non incontrare alcun nemico cosí presso alla costa, se ne fossero accorti.

Un comando breve, secco, lanciato da Raveneau de Lussan, echeggiò: – Sfondate!…

Seguí un rimbombo cupo e sinistro. I capi delle scialuppe, secondo l’ordine che avevano ricevuto e come avevano promesso, fracassavano a gran colpi di scure i fasciami.

Sul vascello s’alzarono tosto delle grida.

– All’armi!… All’armi!…

– Fuoco in batteria!…

– Tutti in coperta!…

Era un po’ tardi per respingere l’arrembaggio. I filibustieri, vedendosi mancare sotto i piedi le scialuppe, si erano avventati contro il legno, col fucile in ispalla e la corta sciabola fra i denti.

Aggrappandosi agli sportelli delle cannoniere, alle bancazze, alle catene delle âncore, ai paterazzi, in un batter d’occhio i duecento e ottantacinque uomini, compresi i tre avventurieri, sono in salvo sul vascello nemico, mentre le scialuppe scompaiono sotto le acque del Pacifico.

Dei colpi di fuoco echeggiano subito. Gli uomini di guardia del galeone, accortisi, troppo tardi però, di essere stati arrembati, hanno valorosamente impegnata la lotta, pur ripiegandosi precipitosamente verso il castello di prora dove si trovavano due pezzi d’artiglieria.

Raveneau de Lussan comprende subito il pericolo e scaglia i suoi uomini all’assalto di quel posto, mentre Buttafuoco, alla testa d’una trentina di combattenti, spazza con delle scariche nutrite l’alto cassero della nave, del pari armato di grosse bocche da fuoco.

Nemmeno a dirlo che il guascone ed il basco sono in prima linea, pronti a provare il filo delle loro formidabili lame.

Intanto gli uomini delle batterie, credendo di trovarsi dinanzi qualche nave, scaricano d’un colpo i trentasei pezzi del galeone, senz’altro effetto che quello di produrre un rombo spaventevole che fa volare in pezzi tutte le vetrate dei sabordi di poppa.

La difesa però si organizza prontamente anche da parte degli spagnuoli. Dal boccaporto di prora gli uomini salgono a gruppi, semi-nudi, ma bene armati e decisi a non arrendersi senza lotta.

Anche dal boccaporto di poppa altri uomini compaiono, raggruppandosi rapidamente intorno ai due pezzi da caccia disposti sul cassero.

I filibustieri che si sentono ormai in casa propria, si piegarono con rapidità fulminea fra i tre alberi, aprendo un fuoco d’inferno attraverso i ponti.

È quel fuoco che ha sempre terrorizzato gli spagnuoli, poiché ogni palla, bene o male, colpisce un corpo e ad ogni scarica; i difensori del galeone cadono a gruppi, prima ancora d’aver avuto il tempo di mitragliare gli assalitori che già si avanzano correndo, colle sciabole in pugno.

– A te il cassero!… – urla Raveneau de Lussan, dominando colla sua voce squillante il fracasso della fucileria. – Sotto, Buttafuoco!… A me il castello!…

Due fiumane d’uomini si rovesciano attraverso alla tolda, mandando clamori spaventevoli. Nessuno potrà arrestarle poiché sono formate da uomini ormai abituati alle battaglie.

Una lotta terribile si impegna alle due estremità del vascello. Tutti gli uomini delle batterie e le guardie franche del galeone sono in coperta e gareggiano fra di loro per far pagare cara la vittoria all’audace nemico.

I fuoco dei quattro pezzi di prora e di poppa s’incrocia, gettando a terra non pochi uomini di Raveneau de Lussan e di Buttafuoco; ma gli altri, niente affatto atterriti, e premurosi di evitare un’altra scarica montano all’assalto coll’impeto che infonde il valore disperato.

Le scale sono superate in un battibaleno ed ecco i filibustieri sui due altissimi ponti.

La draghinassa del guascone e lo spadone del Mendoza lavorano terribilmente.

Fra il cozzare dei ferri, le urla dei combattenti, i lamenti dei feriti, i colpi di pistola o di archibugio, si ode tratto tratto la voce dei due fracassoni:

– Avanti la Biscaglia!…

– Sotto la Guascogna!…

 

Il valore nulla può contro l’impeto irrefrenabile dei filibustieri, abituati a non arrestarsi mai, una volta lanciati alla carica.

I due ponti sono conquistati dopo un breve ma furiosissimo combattimento, il grande stendardo di Spagna viene calato, gli uomini che hanno opposto una fiera resistenza, pur essendo stati sorpresi ed in minor numero, depongono le armi, per non farsi inutilmente trucidare.

Il comandante del galeone, un vecchio capitano, che ha la sua spada spezzata, s’avanza verso Raveneau de Lussan, dicendo:

– Abbiamo perduto: se credete, gettateci pure in mare.

– Signore – rispose dignitosamente il gentiluomo francese, – non tutti i giorni accade di vincere ed io ho ammirato il vostro coraggio.

“D’altronde i filibustieri non sono cosí feroci come forse avete udito raccontare.

“Ne volete una prova? Vi lascio le armi ed il vostro vascello del quale noi non sapremmo in questo momento che cosa fare.”

– Perché ci avete assaliti dunque? – chiese, stupito, il vecchio comandante.

– Voi avete una señorita a bordo, è vero?

– Chi ve lo ha detto?

– Lo sapevamo: ve l’ha affidata il marchese di Montelimar.

– Siete dei demoni voi? Avrebbero ragione i nostri frati a credervi figli dell’inferno?

– Mio padre era un buon gentiluomo francese della Geronda, e credo che non avesse alcuna parentela con messer Belzebú, – rispose, ridendo. – Forse era mio nonno il parente.

– Insomma che cosa volete?

– Ve l’ho già detto: la consegna immediata della señorita affidatavi dal marchese di Montelimar.

– E se mi rifiutassi?

– Per Bacco!… Siamo padroni della nave e delle armi e non avremmo certamente bisogno del vostro permesso per salutare la contessina di Ventimiglia, la figlia del famoso Corsaro Rosso.

“E poi non contate troppo sulla generosità dei filibustieri, perché potreste ingannarvi.

“Orsú, signore, la señorita!…”

Ravenau de Lussan aveva pronunciato le ultime parole, con un tono cosí minaccioso, che il capitano del galeone non credette piú oltre d’insistere.

Ad un suo cenno uno dei suoi ufficiali scese nel quadro e poco dopo tornò, dando il braccio ad una bellissima fanciulla, alta, slanciata, dalla capigliatura corvina, gli occhi intensamente neri e grandi e le carni abbronzate con certe sfumature che parevano riflessi d’oro.

Si avanzò attraverso le file degli spagnuoli, non dimostrando nessuna sgradevole impressione pel sangue che correva ancora attraverso le tavole, e mosse diritta verso Buttafuoco, dicendogli semplicemente:

– Vi aspettavo.

– Non cosí presto forse, – rispose il bucaniere, baciandole galantemente la mano.

– Voi corsari gareggiate coi fulmini e colle tempeste. E Mendoza?

– Presente, señorita! – urlò il basco.

– E ci sono anch’io, contessa, corpo di centomila cannoni!… – gridò don Barrejo. – Non si conoscono piú dunque i vecchi amici?

– Ah!… Il famoso guascone!… – esclamò la figlia del Corsaro Rosso, mostrando i suoi splendidi dentini, scintillanti come perle.

– Sempre pronto a morire per tutti coloro che portano il nome dei Ventimiglia, señorita.

– Alle vele, amici, – gridò in quel momento Raveneau de Lussan. – Quattro uomini al timone e cento nelle batterie a guardia dei prigionieri.

“Chi tenta resistere sia gettato senz’altro in mare.”

Pochi minuti dopo il galeone si rimetteva alla vela, avanzandosi lentamente verso la baia di David.

Capitolo XI. SUL CONTINENTE

L’aver raggiunto il continente e l’aver sorpreso il galeone erano due fatti che avrebbero dovuto incoraggiare subito i filibustieri a rimettersi risolutamente in marcia.

Invece ebbero ancora un ultima esitazione e, prima d’inoltrarsi, mandarono settanta dei loro compagni ad esplorare i dintorni ed a raccogliere informazioni sulla via da tenersi, poiché la ignoravano assolutamente.

Mentre i rimasti si trinceravano fortemente nel villaggio, armandolo di tutti i cannoni che portava il galeone, il drappello di esploratori si mise senz’altro in marcia, risoluto a fare dei prigionieri perché potessero fornire delle indicazioni.

Camminarono costoro finché ebbero forza, attraversando montagne e foreste, ma avendo per caso udito che un corpo di seimila spagnuoli si preparava ad opporsi alla loro avanzata, stimarono opportuno non impegnarsi, ed avendo già raccolte sufficienti informazioni, s’incamminarono nuovamente verso la costa.

Avevano lasciati però indietro diciotto compagni, ai quali avevano dato l’incarico di raccogliere delle provviste.

Invece di scoprire campi coltivati o villaggi da saccheggiare, s’imbatterono in due spagnuoli a cavallo e senz’altro li fecero prigionieri.

Per bocca di quei malcapitati seppero che a breve distanza si trovava la piccola città di Chiloteca, ove oltre un gran numero di negri, di mulatti e d’indiani, abitavano pure quattrocento spagnuoli.

La piú elementare prudenza avrebbe dovuto consigliare a quel manipolo di disperati di battere prontamente in ritirata e di raggiungere i compagni.

L’idea di mettere le mani su una città probabilmente ricca, fu piú forte della prudenza. Alle porte nessuno vegliava poiché nessuno aveva mai della prudenza e, incredibile a dirsi, quei diciotto decisero senz’altro sorprendere gli abitanti.

Era giorno di mercato e tutta la gente si era raccolta sulla piazza non avendo udito parlare fino allora di filibustieri. I diciotto uomini dunque irrompono a corsa disperata attraverso le vie delle città, urlando ferocemente per farsi credere in maggior numero e sparando colpi di fucile a casaccio, per terrorizzare prontamente la popolazione.

Quell’irruzione improvvisa, la vista di quegli uomini bruni, barbuti e stracciati ed i colpi di fuoco che si succedono, mettono lo scompiglio dappertutto.

Negri, mulatti, indiani, spagnuoli, fuggono all’impazzata, gettando all’aria i banchi di mercato.

I filibustieri ne approfittano subito. S’impadroniscono di parecchi cavalli carichi di provviste e, per assicurarsi la ritirata, prendono i primi cittadini che capitano loro fra le mani e se la svignano fra un grandinare di palle. (nota: storico)

Gli spagnuoli, accortisi d’aver da fare con un pugno di uomini, erano ridiscesi nelle vie per dare battaglia e per liberare il loro governatore che per caso era stato fatto prigioniero, ma la riscossa giungeva ormai troppo tardi.

I filibustieri lanciano i cavalli ventre a terra e raggiungono i loro compagni che si ripiegavano già verso la costa.

La cattura del governatore di Chiloteca fu pei filibustieri preziosissima, poiché con minacce di morte riuscirono ad avere altre informazioni sulla via che dovevano tenere, ed anche a sapere dove gli spagnuoli si preparavano ad attenderli, in grossi corpi.

Avendo pure appreso che a Caldeira si trovava ancorata la grande galea di Panama per spiare le loro mosse e che nel porto di Ralejo si trovava un’altra nave armata di trenta cannoni, i filibustieri, che temevano di dover essere sorpresi anche alle spalle, decisero subito di abbandonare per sempre le coste del Pacifico.

Cacciati in acqua i cannoni del galeone, resa la libertà all’equipaggio per non ingombrarsi di prigionieri, cinque giorni dopo volgevano risolutamente le spalle a quel mare, ansiosi di rivedere l’altro.

Il paese che dovevano attraversare era quella porzione dell’America che abbraccia la provincia di Guatemala, avente a settentrione la costa d’Honduras ed a levante il capo Gracias de Dios, paese ben popolato, con città numerose e fortemente guarnite.

La loro partenza per l’interno era stata subito avvertita da numerose spie che gli spagnuoli tenevano lungo le coste, quindi quei disperati dovevano aspettarsi ben presto dei furiosi combattimenti.

Raveneau de Lussan e Buttafuoco divisero i loro uomini in quattro compagnie, affidando alla piú forte la sorveglianza della contessa di Ventimiglia, e si misero in marcia attraverso le grandi foreste dell’interno, formate da alberi antichi quanto il mondo.

Il primo giorno tutto va bene e perfino il guascone non trova di che lamentarsi, quantunque non avesse avuto occasione di esercitare i suoi muscoli e la sua draghinassa.

Al secondo cominciano le difficoltà. Gli abitanti hanno rotto le strade e trasportati lontano, al sicuro, tutti i loro viveri.

I villaggi indiani, che avrebbero potuto servire d’asilo ai filibustieri, sono tutti in fiamme. Il deserto si fa intorno a loro, poiché anche i campi, per ordine dei governanti, vengono inesorabilmente distrutti onde affamare quell’orda di disperati e costringerla a tornare donde è venuta.

Colonne di fumo si abbattono di quando in quando sui disgraziati, minacciando di soffocarli, ed in mezzo alle selve sibilano le micidiali frecce degli indiani senza poter sapere da quale parte provengano.

Don Barrejo cominciava a trovare che le cose non andavano piú troppo bene, e che le frontiere del Darien non erano cosí facili a raggiungersi come aveva sperato dapprima.

– Compare, – disse a Mendoza, il quale marciava all’avanguardia con una ventina di cavalieri. – Io vorrei sapere come finirà questa faccenda. Si direbbe che gli spagnuoli nascono come i funghi, dinanzi a noi.

– Credevi di fare dunque una passeggiata trionfale? – rispose Mendoza. – Certo che si stava meglio alla taverna d’El Moro, colla bella castigliana.

– Tu mi burli.

– Niente affatto, don Barrejo.

– Io non ho ancora nominata la mia taverna e nemmeno mia moglie, tonnerre!…

– Allora tira avanti finché saremo giunti alle frontiere del Darien.

– Che non saranno vicine, m’immagino.

– Mah!… Chi lo sa? Nemmeno Raveneau de Lussan potrebbe dirtelo, tuttavia sono sicuro che finiremo per giungervi e forse prima del marchese di Montelimar.

– A proposito, che cosa è avvenuto di quel caro gentiluomo?

– Si dice che abbia lasciato Panama, per correre anche lui verso il Darien. Non so però come rimarrà quando apprenderà che la señorita è ritornata fra le nostre mani.

– Io al suo posto tornerei subito a Panama e lascerei in pace il tesoro del Grande Cacico e anche la pentola dove è stato cucinato l’Olonese.

– Io ti dico invece che ci darà da fare non poco e che, prima di giungere al Darien, ne vedremo delle belle.

– Finora però non ho veduto che delle strade rotte e molto fumo, che mi fa tossire orribilmente, – rispose il guascone.

– Verrà anche il piombo, compare, e forse ti lamenterai allora per la sua abbondanza.

– Storie!… Tutti scappano dinanzi a noi, come se gli spagnuoli fossero diventati, da un momento all’altro, dei conigli.

“Vedrai che giungeremo al Darien pieni di fame e senza aver data nemmeno una piattonata.”

Per otto giorni infatti il guascone ebbe ragione, poiché gli spagnuoli, sia che non si sentissero ancora in forze bastanti per affrontare quei terribili filibustieri, temuti come esseri indiavolati, sia che aspettassero qualche buona occasione, non si fecero vivi, sicché la colonna poté inoltrarsi abbastanza tranquillamente, quantunque sempre esposta al pericolo di cadere fra le fiamme, poiché piantagioni, villaggi e perfino boschi, non cessavano di ardere davanti a loro.

Il nono giorno si erano impegnati in una foltissima foresta, incassata fra due alte montagne, quando delle scariche micidialissime partirono da tutte le parti, decimando di colpo l’avanguardia.

Trecento spagnuoli, come seppero di poi, armati di buonissimi archibugi, stesi ventre a terra sotto le macchie, avevano tesa loro un imboscata nei dintorni di Tusignala.

I filibustieri, che ignorano quali forze hanno dinanzi, restano titubanti a slanciarsi sotto quella cupa foresta che continua a risuonare di schioppettate mortali.

Finalmente comprendono che una sosta piú lunga può perderli, e desiderosi anche di far conoscere a quei nuovi nemici il loro straordinario valore, si scagliano innanzi.

Una delle quattro compagnie di Raveneau, guidata da Buttafuoco, occorre per appoggiarli vigorosamente.

La battaglia non dura che pochi minuti, poiché gli spagnuoli sapevano già la terribile fama che godevano quegli uomini formidabili.

Vistisi scoperti, si salvarono piú che in fretta sui pendii delle montagne, da dove continuarono però a tribolare le quattro compagnie, che si avanzano rapidamente per uscire da quella strettoia che per poco non era riuscita loro fatale.

Solo alla notte quello scambio di archibugiate cessò. Si era alzata una foltissima nebbia assai fredda, la quale si era abbattuta sulla foresta come un lenzuolo funebre, avvolgendo i grandi alberi.

I filibustieri, che avevano subíte non poche perdite, si accampano alla rinfusa, guardandosi bene dall’accendere i fuochi per non attirare l’attenzione dei nemici, forse sempre vigilanti.

 

Il guascone e Mendoza, si sono accovacciati sotto un cespuglio i cui rami stillano continuamente grosse gocce che danno, specialmente al primo, una grande noia.

Si sono rovinati i denti intorno ad un pezzo di tasajo, carne seccata al sole, senza riuscire a calmarsi i morsi della fame.

– Compare, – disse il basco, che stava consumando la sua ultima carica di tabacco. – Sei d’umore nero questa sera. Eppure abbiamo combattuto e ne abbiamo anche preso del piombo.

“Scommetto che pensi sempre alla tua taverna ed alla bella castigliana. Là dentro almeno il piombo non faceva scoppiare le botti come le teste dei nostri camerati.”

– Se t’ho detto centomila volte, che sono nato per fare l’avventuriero e non il taverniere, – rispose don Barrejo. – Sono di pessimo umore perché anche oggi la mia draghinassa è rimasta assolutamente inoperosa.

– Tu che hai le gambe cosí lunghe dovevi slanciarti dinanzi a tutti a far correre gli spagnuoli.

– Faceva troppo caldo sotto gli alberi ed io non sono mai stato troppo amico del piombo. I guasconi non amano che l’acciaio e bene temprato.

“E poi queste imboscate a me non vanno troppo a sangue.”

– Eppure dovrai abituarti. Ora che gli spagnuoli hanno cominciato, non ci lasceranno piú tranquilli finché non saremo giunti al Darien, – disse Mendoza. – Domani avremo, probabilmente, un’altra edizione.

– Ci dessero una carica a colpi di spada ne sarei lietissimo, ma come ti ho detto, non ho mai sentito alcuna affezione pel piombo.

“Acciaio, sempre acciaio pei guasconi. Ma non sai tu che noi siamo capaci di caricare un reggimento nemico anche quando siamo in due soli?”

– Che uomo terribile!…

– Non sono un basco, io!…

– Ohé, don Barrejo, metteresti in dubbio il mio coraggio? Bada che potrei metterti alla prova.

– Quale prova? – chiese il guascone.

– Di vedere due uomini caricare un reggimento a colpi di spada, – disse Mendoza.

– Ti ripeto che se fossero due guasconi non avrebbero paura.

– Mettiamoci invece un basco.

– Ehi, compare, hai delle idee bellicose?

– Vorrei vederti alla prova, don Barrejo, – rispose il basco. – E l’occasione sarebbe propizia.

– Per menare le mani?

– E salvare probabilmente la spedizione.

– Che cosa mi narri tu?

– Vuoi scommettere, don Barrejo, che nemmeno a mille passi di qui vi sono gli spagnuoli pronti a fucilarci appena noi leveremo il campo?

– Dopo la batosta presa quest’oggi?

– Da loro o da noi?

– Un po’ per ciascuno, – rispose il guascone, ridendo. – Ne abbiamo date e ne abbiamo anche prese e non poche.

“Dieci vittorie come questa e non rimarrebbe che la contessa di Ventimiglia a continuare la sua marcia verso il Darien.”

– Vuoi dunque provare la tua draghinassa?

– Un guascone non si rifiuta mai.

– Sono laggiú, imboscati.

– Chi?

– Gli spagnuoli.

– Tu sogni, compare. Tutti questi uomini non si sono accorti di nulla.

– Non v’è un basco fra tutta questa gente.

– E vorresti dire con questo?

– Chi i baschi hanno il fiuto finissimo dei bracchi. L’hai inteso mai dire?

– Corpo d’un tuono!… – Esclamò don Barrejo. – Ecco una particolarità che i guasconi non hanno mai posseduta e che vi invidieranno sempre.

“Li senti proprio questi spagnuoli?”

– Te lo dico sul serio. Se facciamo una passeggiata di mille o mille e cinquecento passi ci daremo dentro.

“Vuoi che andiamo un po’ ad assicurarcene, compare?”

– Quando si tratta di menare le mani, un guascone non si rifiuta mai; te l’ho detto già almeno cento volte. E se non ci fossero?

– Avremo fatta una deliziosa passeggiata al fresco, – rispose Mendoza, un po’ ironicamente.

Don Barrejo si tolse dalle labbra la pipa, la vuotò sulla palma della mano, troppo incallita per provare i morsi del fuoco, raccolse il suo archibugio e disse:

– Andiamo: infine si tratta della salvezza di tutti.

Mendoza scambiò qualche parola cogli uomini di guardia che vegliavano intorno al campo improvvisato, per evitare il pericolo di farsi prendere a fucilate, e si mise in cammino con don Barrejo alle spalle, occupato a far scorrere dentro e fuori la guaina la sua terribile draghinassa. La notte non solamente era oscura ma anche fredda e nebbiosa, poiché i filibustieri avevano già raggiunti i primi contrafforti della Cordigliera.

Una pioggia sottile trapelava attraverso le alte e foltissime piante, sussurrando monotonamente sulle gigantesche foglie, larghe come ombrelli.

Quel rumore prodotto dall’acqua sulla grande foresta favoriva l’ardito progetto dei due avventurieri di sorprendere gli spagnuoli all’agguato. La loro marcia almeno non poteva essere facilmente rilevata e udita.

Ad un tratto però il guascone, che s’avanzava carponi, udí delle voci umane che sussurravano al di là della muraglia di verzura.

– Tonnerre!… – esclamò, guardando Mendoza, il quale si era arrestato. – È proprio vero che voi baschi avete un fiuto straordinario.

“Gli spagnuoli stanno dinanzi a noi e ci aspettano al varco.”

– Te l’avevo detto io, – rispose il filibustiere. – Vuoi che attacchiamo?

– Alto là, camerata! Non facciamo delle sciocchezze. I guasconi si battono splendidamente perché, ti piaccia o no, dividono cogli italiani, il vanto di essere i piú formidabili spadaccini dell’Europa, però non ci tengono affatto a farsi fucilare come merli.

“Ci sono, va benissimo. Provochiamoli ed avremo sventato un altro agguato forse peggiore dell’altro.

“Gettati a terra e lascia a fare a me.”

Il guascone strappa una foglia, la rotola rapidamente in forma di cornetto e trae, non si sa come, una serie di note acutissime.

Un colpo d’archibugio tosto rimbomba a poca distanza dal suonatore, poi due, quattro, quindi si succedono delle scariche furiose.

Don Barrejo e Mendoza si allungano piú che possono fra le alte erbe che li nascondono completamente e odono passare, sopra le loro teste, un vero uragano di proiettili.

I filibustieri del campo balzano in piedi ed a loro volta rispondono e si scagliano avanti colla loro usuale pazza temerità, senza badare alla tempesta che li investe.

Gli spagnuoli avvedutisi che l’agguato, forse da lungo tempo preparato, era sventato, e non desiderando affatto venire ad un corpo a corpo con quei terribili uomini che consideravano, come abbiamo detto, figli di Belzebú, non tardarono a disperdersi ed a mettersi in salvo sui fianchi dei burroni.

– Alto, amici!… – grida Don Barrejo, che si vede giungere addosso, lanciati a passo di corsa, i filibustieri. – Non abbiamo pelle spagnuola noi indosso, e perciò vi prego di rispettarci.

Buttafuoco, che è alla testa della prima compagnia, se li vede dinanzi tutti e due.

– I miei fracassoni! – esclamò. – Me lo immaginavo che avrebbero tentata qualche diavoleria.

– Che vi ha però salvati da un’imboscata, – rispose Mendoza. – Senza di noi sareste caduti come pernici dentro la rete della morte.

– Sapete che cos’è, signor Buttafuoco? – domandò il guascone.

– Me lo spiegherai un altro giorno. Avanti, amici, dobbiamo uscire da questa seconda strettoia prima che l’alba ci sorprenda fra queste foreste.

I filibustieri, incoraggiati da Raveneau de Lussan, si spingono innanzi nel piú profondo silenzio, per non segnalare con qualche inopportuno colpo di fuoco la loro marcia.

Gli spagnuoli, imboscati sui fianchi della valle, continuano le loro scariche le quali si disperdono, senza produrre danni, attraverso la boscaglia.

Finalmente il passo pericoloso è superato ed i filibustieri riescono a raggiungere la base della sierra.

Non hanno guide, non hanno carte; sanno solo che al di là di quelle montagne, entro una profonda valle, simile ad una conca, si trova una città: Segovia-Nuova.

Sicuri di riuscire sempre nelle loro imprese, quantunque siano sfiniti dalla fame e delle fatiche, attaccano risolutamente la Cordigliera, risoluti a piombare sulla città e sicuri d’impadronirsene con un colpo di mano.

Eccoli scalare rupi di altezze incredibili, fiancheggiare burroni spaventevoli, arrampicarsi sopra ciglioni tremendi, scendere attraverso a precipizi e sfondare boscaglie forse mai calpestate da piedi europei, penetrati nell’ossa al mattino da un acutissimo freddo, rompere fino alle dieci del mattino una nebbia cosí fitta da non potersi scorgere nulla alla distanza di dieci passi e sfidare venti freddissimi che rovesciano su di loro, di quando in quando, nembi di pioggia.