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I Corsari delle bermude

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9. LA «TAVERNA DELLE TRENTA CORNA DI BISONTE»

Come abbiamo detto, l’ultimo tratto di galleria era assai più ampio, sicché permetteva ai tre corsari di procedere rapidamente, un po’ curvi, non avendo più bisogno di strisciare. In pochi istanti giunsero sotto le casematte.

Sir William spense l’occhio di bue ed entrò risolutamente seguito tosto da Testa di Pietra e da Piccolo Flocco, i quali non avevano nessun desiderio di provare le delizie di un’esplosione, riservate al pappagallo d’oltre oceano ed agl’inglesi che russavano dentro la casamatta. Una semioscurità regnava là dentro rotta a malapena dalla luce morente d’una lanterna fumosa sospesa alla volta. Quindici o venti soldati, per la maggior parte assiani, dormivano profondamente.

Il Corsaro, procedendo attraverso il camerine, raggiunse una porta segnalata da un’altra lanterna, e si trovò fra due alte stecconate.

– A destra o a sinistra? – si chiese perplesso.

Poi scrollò le spalle aggiungendo:

– In qualche luogo andremo a finire: poi non indosso forse la divisa da ufficiale della marina inglese? Vorrei vedere chi oserebbe fermarmi! Testa di Pietra, Piccolo Flocco, lesti! Fra poco la mina scoppierà.

Si erano messi a correre fra le due stecconate, mentre cinquanta passi da loro i pezzi del bastione tuonavano, mescolando la loro voce formidabile a quella degli altri.

Una voce imperiosa fermò il loro slancio.

Sotto il palo. che reggeva una lanterna, un soldato era sbucato ed aveva puntato il fucile armato di baionetta, gridando:

– Chi passa? Alt!

Il Corsaro si era fermato, snudando rapidamente la spada

– Sono il tenente Torosson – gli disse. – Non mi conosci dunque? Vado dal generale Howe per importanti comunicazioni

– Passate signore. – rispose il soldato. – Chi sono gli altri due?

– Miei marinai.

– Il passo è libero.

Sir William passò rapidamente dinanzi alla sentinella, seguito da Testa di Pietra, che si era già preparato ad abbatterla con due terribili pugni, e da Piccolo Flocco.

La stecconata era terminata e le case di Boston cominciavano a comparire.

– Prendiamo la prima via che si trova dinanzi a noi – disse il Corsaro ai due marinai. – Siamo abbastanza lontani per non temere l’esplosione della mina.

– Dove finiremo?

– Lo vedremo più tardi.

– Orizzontiamoci, comandante, – disse il bretone.

– Conosci Boston?

– Ci sono stato due volte, ma vent’anni fa. Ora non so più come siano le sue vie, pure credo che una certa taverna esista ancora. Lavorava tanto, perciò il suo padrone non può essere fallito, né fuggito nell’America del Sud.

– Sapresti trovarla?

– Mah! Con questa oscurità non è cosa facile. Diamine, non ho una bussola piantata nel cervello.

In quel momento avvenne uno scoppio che li scaraventò tutti e tre a terra.

La mina era scoppiata con fracasso spaventevole, lanciando in aria le casematte ed una parte del bastione.

– Povero pappagallo! – esclamò Testa di Pietra che si era prontamente rialzato tastandosi le costole. – A quest’ora viaggia verso l’altro mondo, colla velocità di trenta o quaranta nodi all’ora. Deve soffiare sempre buon vento in quel brutto paese.

Urla spaventevoli echeggiavano. Alcuni soldati fuggivano come pazzi in tutte le direzioni gridando:

– Aiuto! aiuto

Dalle finestre delle case prospicienti il bastione erano caduti con gran fragore i vetri.

Il Corsaro e Piccolo Flocco non avevano riportato nessuna contusione, essendo, in virtù delle loro buone gambe, abbastanza lontani dal luogo dello scoppio.

– Capitano. – disse Testa di Pietra – pare che di pappagalli ne siano volati in buon numero, non so se in cielo o all’inferno.

Nei quartieri vicini squillavano le trombe per chiamare a raccolta i soldati dispersi per la città, ed avviarli sul luogo del disastro.

Già dei furgoni carichi d’inglesi e di assiani correvano all’impazzata, per portare i primi soccorsi.

– Gettiamoci in una viuzza oscura – disse il Corsaro. – se ci scorgono ci manderanno al bastione e non ho nessun desiderio di rivederlo. Fila, Testa di Pietra.

Il bretone prese la corsa attraverso terrapieni ingombri d’artiglierie e di carri e, raggiunte le prime case, si gettò dentro un viottolo, che nessuna lanterna illuminava e che pareva deserto.

– Ci fosse almeno una taverna aperta! – disse.

– Oh, ne troveremo! – rispose il Corsaro. – Gl’inglesi sono troppo buoni bevitori per farle chiudere, specialmente in queste notti.

Finestre si aprivano e teste si disegnavano vagamente alla luce delle lanterne. Domande e risposte s’incrociavano fra gl’inquilini.

– Che cosa è saltato?

– Un forte di sicuro.

– È saltata la torre di Oxford insieme col castello.

– Ma no, lo scoppio è avvenuto in direzione opposta.

– Poveri figliuoli!

Dopo che il Corsaro aveva riacceso l’occhio di bue, si erano rimessi in marcia, tenendo la mano sinistra appoggiata sul calcio d’una delle loro pistole.

Il bombardamento continuava malgrado il disastro. Le palle americane giungevano facilmente in città dall’altura, sfondavano tetti e spaccavano muraglie. Di quando in quando altre esplosioni si succedevano, seguite da urli di spavento e da un fragoroso crollare di rottami. Erano le grosse granate dei mortai della corvetta che facevano quelle prodezze.

– Suona la musica a bordo della Tuonante — dice Testa di Pietra. – Se si chiama Tuonante deve ben tuonare, per il borgo di Batz!… Bum! Questi sono i cannoni da caccia di poppa. Saprei distinguere la loro voce fra mille altri pezzi.

Percorsero, quattro o cinque viottoli fiancheggiati da case basse ed oscure che parevano disabitate; poi si fermarono dinanzi ad una lampada sospesa, sopra una porta.

– Albergo delle trenta corna di bisonte! — lesse Piccolo Flocco sull’insegna, e domandò: – Che si possa mangiare bisonte qui, mastro Testa di Pietra?

– Che io sappia, i bisonti non portano che due corna, quindi là dentro ve ne dovrebbero essere almeno quindici sempre a disposizione degli avventori.

– Chiudete il becco! – disse il Corsaro, mettendo le mani su un anello di ferro che voleva essere una maniglia e spalancando la porta dell’albergo delle Trenta corna di bisonte.

Un’ondata di fumo puzzolente li investì. Avevano fumato molto là dentro, quella sera, malgrado il bombardamento.

L’albergo non era altro che una tavernaccia d’infimo ordine, che consisteva in uno stanzone assai basso dalle pareti ben affumicate, con una mezza dozzina di tavolini sgangherati e di scanni in non migliore stato, e illuminata da un’unica candela di sego che dava più fumo che luce. Dietro il banco, un omaccione coi capelli e la barba rossa e due occhi grossi come quelli dei buoi, dall’aria stupida, fumava la pipa reggendosi la testa con una mano. Scorgendo il Corsaro si alzò dicendo:

– Buona sera, gentleman: che cosa posso servire a Vostro Onore?

– Portaci una bottiglia di gin o di brandy, purché sia buono, rispose sir William sedendosi al tavolino che era più vicino alla candela.

– Ne ho ancora qualcuna, gentleman. Se foste giunto fra qualche giorno, con mio grande dispiacere avrei dovuto rimandarvi, perché non entra più nulla nella piazza, Quest’assedio è la mia rovina.

– Raddoppia i prezzi delle bottiglie che ancora possiedi, mastro Taverna – disse Testa di Pietra. – Ecco un bel consiglio.

– Infatti avete ragione.

– Ma non cominciare da noi. I consigli si pagano sempre, specialmente quelli che danno gli avvocati.

– Ah! siete avvocato?

– Sì, del catrame, – rispose il bretone, scoppiando in una risata. Il taverniere lo guardò stupidamente, poi scosse la sua grossa testa fulva e scese in cantina.

– Si può fumare, comandante? – chiese il bretone.

– Fa’ quello che vuoi – rispose il Corsaro, che era diventato improvvisamente di cattivo umore.

Testa di Pietra trasse da una delle sue dodici tasche la preziosa reliquia di famiglia, la caricò con cura minuziosa e l’accese alla fiamma della candela.

– Pare impossibile – disse, dopo essersi avvolto in una nuvola di fumo – tutte le volte che adopero questa pipa mi pare di trovarmi in Bretagna.

– Nel castello dei tuoi avi – disse Piccolo Flocco con aria grave.

– Sappi, per tua regola, ragazzaccio, che i miei avi dormivano sempre sul mare e non avevano quindi bisogno di castelli – rispose il bretone.

– Su qualche barca sconquassata.

– Briccone! Mio nonno andava a pescare il merluzzo fino sulle coste dell’Islanda, ed il suo skooner era considerato il miglior veliero di tutte le coste bretoni. Se fosse stata una carcassa, mio nonno sarebbe morto sul mare, mentre ha chiuso gli occhi sul suo letto.

– Foderato di piume d’edredon.

– Sicuro! Portava sempre dall’Islanda quelle preziose penne che tengono tanto caldo.

Il ritorno del taverniere, armato d’una bottiglia discretamente polverosa e di tre tazze, interruppe quella disputa che avrebbe potuto andare molto per le lunghe, ma alla quale il Corsaro pareva non avesse prestato nemmeno orecchio.

– Vecchia, mastro Taverna? – chiese il bretone.

– Cinquant’anni.

– Corpo di centomila corna di bisonte! In quale distilleria della Inghilterra l’hai veduta nascere, se non hai nemmeno quarant’anni?

– Bisognerebbe domandarlo a mio padre – rispose serio serio il taverniere.

– Fallo venire.

– È morto vent’anni fa, dopo aver bevuto, in seguito ad una scommessa, tre bottiglie di whisky.

– Beveva per incoraggiare gli avventori – disse Piccolo Flocco.

– E vi ha lasciata la pelle.

– E la cantina a voi, mastro Taverna, – disse il bretone. – assaggiamo dunque questo famoso… che cos’è?

 

– Gin

– Che ha cinquant’anni di prigionia. Comandante, se è vero che è così vecchio, vi metterà di buon umore.

Il Corsaro non rispose. Colla testa appoggiata al braccio sinistro, gli sguardi fissi dinanzi a sé, il volto pallido, non si occupava di quanto accadeva intorno a sé. Certo doveva pensare in quel momento a Mary di Wentwort.

– Soffia tempesta! – sussurrò il bretone in un orecchio del giovane gabbiere.

Il taverniere sturò la bottiglia, empì una tazza, e subito si vide cadere, insieme col liquido, una cosa nerastra che mastro Testa di Pietra si affrettò a prendere.

– Corpo d’una barca sventrata! – urlò. – Cosa faceva tuo padre? Il conservatore di scorpioni sotto spirito?

Il taverniere era rimasto stupefatto e guardava con due occhi smarriti un superbo scorpione, magnificamente conservato, che il bretone teneva stretto fra le sue dita.

– Che cosa ci fa qui dentro questa bestiaccia? – chiese Testa di Pietra -, guardandolo di traverso. – Volevi forse avvelenarci perché siamo inglesi? Ti faremo tradurre dinanzi al Consiglio di guerra e fucilare come traditore.

– Perdonate, – rispose il taverniere balbettando e tremando. Questa è la bottiglia dove metteva in infusione gli scorpioni.

– E volevi darci ad intendere che era stata tappata cinquant’anni fa in non so quale distilleria gallese?

– Ho sbagliato, non avevo un lume.

– Avaro! dovevi accendere una candela.

– Non se ne trovano quasi più a Boston, e bisogna economizzare quelle poche che ancora rimangono.

– E perché fai raccolta di scorpioni? Per avvelenare i soldati inglesi? Si vede bene che sei un americano, forse amico di quella canaglia di Washington o di quell’altra pellaccia che si chiama Arnold.

– No, no, mister. Li metto in infusione per sanare più rapidamente le ferite.

– Per il borgo di Batz! Hai mai udito raccontare che un taverniere facesse anche il farmacista?

– Mai – rispose seriamente il giovane gabbiere.

– E nemmeno voi, comandante?

Il Corsaro si limitò a sorridere e a crollare la testa.

– Riporta nella cantina i tuoi scorpioni – disse Testa di Pietra – e portaci un’altra bottiglia. Non dimenticare che se vi trovo qualche serpente in infusione, ti faccio fucilare.

Il taverniere scappò via colla bottiglia, dicendo:

– Scendo col lume, questa volta.

– Crepi l’avarizia! – gli gridò dietro Piccolo Flocco.

Un istante dopo risaliva con un’altra bottiglia di aspetto più venerando, perché aveva un bel contorno di ragnatele polverose.

– Cent’anni? – chiese il bretone.

– No, sessanta – rispose il taverniere.

– L’ha tappata tuo nonno?

– Mia madre.

– Allora dev’essere eccellente: cambia le tazze e vuota.

– Non l’hai ancora finita, vecchio brontolone? – chiese il Corsaro.

– Comandante, – rispose Testa di Pietra – chiacchiero come una dozzina di pappagalli per distrarvi. Siete di pessimo umore stanotte, mentre dovreste esser contento ora che siamo entrati nella piazza. Qui non c’è burrasca.

– Puoi avere ragione – rispose il Corsaro con un pallido sorriso.

Prese la tazza che gli stava dinanzi poi la vuotò d’un fiato.

– Proprio messo in prigione sessant’anni fa? – chiese Testa di Pietra; ma sir William rispose con una scrollata di spalle.

– All’assalto anche noi, Piccolo Flocco.

– Sempre, mastro, – rispose il giovane gabbiere.

E tracannarono, senza nemmeno gustarlo, il fortissimo liquore.

– Che te ne pare, figliuolo mio? – chiese il bretone.

– Non so.

– La mia pipa è più forte.

– Sfido io! vi hanno fumato tre o quattro uomini per un paio di secoli almeno!

– Non so se siano veramente due secoli, – rispose Testa di Pietra – ma molti anni sono passati attraverso questa pipa. Il turco che l’ha fabbricata doveva essere un vero artista ed anche…

Una mossa brusca del Corsaro gli troncò la frase Sir William si era alzato ed aveva fissato il taverniere, il quale si era fermato presso il tavolino, come se aspettasse un giudizio sulla bottiglia.

– Da quanti anni di trovi in Boston? – gli chiese.

– Ci sono nato, Vostro Onore.

Dunque, ti trovavi qui quando gli americani assediarono la piazza.

– Sì, mio gentleman.

– Allora conoscerai tutti i comandanti dell’armata.

– Certo, signore.

– Anche il marchese d’Halifax?

– Ho avuto l’altissimo onore di portargli le mie ultime bottiglie di Bordeaux e di Champagne.

– Ah! Dove abita?

– Nel castello d’Oxford. Mi stupisco come Vostro Onore lo ignori – disse il taverniere.

– Ci troviamo qui solamente da ieri, e non conosciamo affatto la città.

– Abita nel castello d’Oxford? – esclamò Testa di Pietra. – So dove si trova, e vi saprei condurre ad occhi bendati, comandante. È il punto meglio fortificato della piazza: è vero, mastro Taverna?

L’oste fece col capo un cenno affermativo.

– Siediti – disse il Corsaro.

Il taverniere obbedì, ma tenendo lo sgabello ad un paio di metri dalla tavola.

– Hai mai veduto, nel castello, una fanciulla bionda?

– Le ho portato due bottiglie di vino del Reno, mio gentIeman. Erano le ultime che tenevo nella cantina; due bottiglie che devono aver fatto molto onore all’Albergo delle trenta corna di bisonte.

– Bum! – esclamò Testa di Pietra. – Vi erano certamente dentro scorpioni!

– Ah, no, signore, – rispose il taverniere. – Non potrebbero conservarsi!

– Per caso non ne avresti ancora una bottiglia?

– Credo di si.

– Portala subito: ma ti avverto che se vi trovo uno scorpione, parola di marinaio, dò fuoco alla tua baracca. Comandante, permettete che il vostro vecchio lupo di mare ve l’offra. Uomini che sono sfuggiti miracolosamente alla morte hanno ben diritto di bere più d’un bicchierotto e di quello prelibato.

– Fa’ come vuoi – rispose il Corsaro sorridendo. – Sei il più pazzo dei miei marinai.

– Quando affermate ciò, ci credo, – rispose il bretone con gravità – e appena terminata la campagna, andrò a rinchiudermi in un manicomio.

10. IL CASTELLO D’OXFORD

Il taverniere si era precipitato nella tenebrosa cantina, e poco dopo ritornava mostrando una terza bottiglia coperta d’incrostazioni.

– Vino del Reno! – esclamò. – È l’ultima!

– Quando si dice aver fortuna! – disse Testa di Pietra. – Proprio, l’ultima doveva finire dentro le nostre pance. Che ne dici, Piccolo Flocco?

– Sono stupefatto – rispose il giovane gabbiere.

– Stura e cambia tazza – comandò il lupo di mare.

Mastro Taverna (dobbiamo chiamarlo così) fu lesto a obbedire, ed uno spruzzo andò in aria gorgogliando giocondamente.

– Capperi! Spuma! – esclamò il mastro

L’assaggiò avidamente e subito batté sulla tavola un pugno così formidabile, che per poco non fece saltare in aria la bottiglia di gin che non era ancora vuota.

– Ehi, diventi pazzo davvero? – chiese il Corsaro.

– Corpo di centomila saette! Aspetta un momento, Piccolo Flocco; assaggia.

– È pieno di scorpioni anche questo? – chiese il gabbiere.

– Assaggia, ti dico.

Il gabbiere bevve e poi scoppio in una clamorosa risata.

– Questo è il vino che da noi si vende a quattro soldi al litro, prodotto dalle belle mele della Normandia.

– Capitano, date il vostro giudizio

– È sidro, bretone – rispose sir William.

– Corpo… della tua capigliatura da leone africano! – gridò Testa di Pietra, piantando i suoi occhi minacciosi in quelli grossi del Taverniere.

– Mio signore, che cosa ho fatto? che cosa è accaduto? – chiese il disgraziato.

– Da chi hai comperato questo vino?

– Non lo so… lo comprò mio padre.

– L’hanno truffato indegnamente. Il tuo famoso vino del Reno non è altro che succo di mele francesi, che in Bretagna si vende a due soldi la bottiglia. Altro che due dollari!…

– Possibile?

– Te lo dico io.

– Ed ora?

– Tuo padre era un asino, grosso come la rupe del leone delle Bermude – disse Testa di Pietra.

– Era sempre ubriaco – rispose candidamente il taverniere, con un lungo sospiro.

– Eh, tuo padre non era nato per essere un buon taverniere!

– Un buon bevitore sì, però – disse Piccolo Flocco.

– Ne ha dato l’esempio, figliuol mio. Orsù, il vino del Reno non lo assaggerò mai: beviamo questo sidro, che dopo non è cattivo e fingiamo di essere a Batz. Ma bada, mastro Taverna, che non ti pago questa bottiglia più di cinque soldi, ed è pagata bene. Se tuo padre è stato truffato non vogliamo esserlo noi.

– La regola, miei gentlemen.

– Tu sei un uomo onesto, – disse il lupo di mare – ed amo gli onesti; per ciò torneremo a far visita, alla tua taverna.

– Mi terrò molto onorato.

– Hai una stanza da affittarci? – chiese in quel momento il Corsaro.

– Sì, mio gentleman.

– Con un paio di letti

– Due, sì.

– Al sicuro dalle bombe americane? – chiese Testa di Pietra.

– Finora non ne sono cadute sul mio albergo.

Sir William si era alzato ed aveva gettato sulla tavola una sterlina fiammante, dicendo:

– Non occorre che ci dia il resto. Terrai la stanza per noi.

L’oste ebbe un moto di stupore e di gioia.

– Piacciono le sterline a mastro Taverna, eh? – disse il bretone ironicamente. – Risparmia i tuoi inchini e i tuoi ringraziamenti. Ci rivedremo più presto di quello che credi, ma ricordati di guardare prima dentro le tue bottiglie, perché non vi si trovino scorpioni.

Sir William era già sulla porta.

Le tenebre fuggivano rapidissime, ed una luce rosea si diffondeva per il cielo. Il bombardamento continuava vivissimo, e si potevano distinguere, fra tanti scoppi, i colpi formidabili dei quattro grossi mortai della corvetta.

– Guidami al castello – disse il Corsaro a Testa di Pietra.

– Sempre ai vostri ordini, mio comandante.

Si posero in cammino senza curarsi delle schegge di bombe che di quando in quando rotolavano giù dai tetti.

Dieci minuti dopo sbucavano in un’ampia via ingombra di soldati e di carriaggi carichi di munizioni che venivano portate alle batterie dei bastioni.

Nessuno aveva fatto loro caso, poiché in quei giorni gli ufficiali di marina ed i marinai pullulavano in Boston, potendo ancora accedervi dalla parte della baia, se non dalla parte di terra.

Testa di Pietra si orientò rapidamente, riaccese la sua pipa e si rimise in cammino, guardando in aria.

– Che cosa cerchi nel cielo? – gli chiese Piccolo Flocco che gli camminava a fianco.

– La torre del castello.

– Ah, c’è una torre?

– In pessimo stato; tanto che gl’Inglesi non hanno osato di collocare dietro i suoi merli nemmeno un pezzo di medio calibro; infatti in quella direzione non odo nessun colpo.

Percorsero parecchie altre vie e finalmente si trovarono presso i bastioni settentrionali, dove s’alzava una costruzione piuttosto informe, che aveva un po’ del castello e un po’ della fortezza, e che si appoggiava da un lato ad una torre pentagonale alta una ventina di metri e tutta traforata da ferritoie e da cannoniere.

– Ecco il castello d’Oxford! – disse Testa di Pietra fermandosi. – Dobbiamo attaccarlo subito, mio comandante.?

Il Corsaro si era messo ad osservare il castello passeggiando sotto la torre, come se avesse intuito che Mary di Wentwort si trovasse imprigionata lassù.

– Testa dì Pietra, – disse ad un tratto – dovresti portare un soldato del castello a bere…

– Da mastro Taverna? Subito fatto, mio comandante, – rispose il bretone. – La gente di terra e quella di mare fraternizzano facilmente, soprattutto quando è la gente di mare che paga.

– Prendimene dunque uno, e portalo pure da mastro Taverna.

– A fare colazione?

– Anche due pranzi se vuoi: prendi quattro sterline.

– Scusate, mio comandante, ma sono ben provvisto.

– Metti in tasca e chiudi il becco.

– Se questo è l’ordine, obbedisco – rispose il bretone allungando una mano. – Prendere un soldato! Gran che per un marinaio, che è sempre pronto a montare all’abbordaggio! Si lanciano i grappini, si piglia al volo, e si porta via come un pezzo di paterazzo. Lasciate fare a me, sir William. Tu, Piccolo Flocco, gira di bordo, e viene a raggiungermi più tardi con un’altra bordata di sopravvento.

– Ho capito – rispose il giovane gabbiere.

– Sii pronto a ordinare una buona colazione da quell’imbecille che ha gli occhi di bue.

– Capito, comandante.

– Come, comandante?

– Per tutti i merli della Bretagna! comandi come un ammiraglio.

– Fa lo stesso. Andiamo alla pesca. L’amo sarà dolcissimo.

 

– Con bottiglie ed una colazione sulla punta – disse Piccolo Flocco

– Che assaggerai anche tu, briccone.

– Certo.

Testa di Pietra ricaricò la sua veneranda pipa sprofondò le mani nelle tasche, e andò a passeggiare dinanzi al ponte levatoio del castello, mentre sir William e Piccolo Flocco si aggiravano nei dintorni della torre.

Proprio in quel momento un caporale del 5° Reggimento Assiano attraversava il ponte, portando un piccolo sacco di tela.

Testa di Pietra, che fingeva di guardare in alto, lo urtò in così malo modo, da spingerlo contro il parapetto.

– Herr gott! – esclamò il tedesco.

– Dite? – chiese Testa di Pietra, lanciandogli in faccia una boccata di fumo.

– Siete ubriaco?

– La marina ubriaca? Eh, mio caro, un marinaio vuota la stiva d’un bastimento pieno di gin, e poi sale ancora fino ai contrapappafichi.

L’assiano lo guardò con una certo stupore.

– Volete provarmi? – chiese il bretone. – Sarò io che farò le spese della bevuta.

– Herr gott! volete pagare?

– La marina è sempre stata più ricca dei soldati di terra.

– Tu, camerata, pagare da pere a me?

– Sì, camerata.

– Ma tu non essere tedesco.

– Sono un prossimo parente dei Tedeschi, quindi posso permettermi il lusso d’offrirti da bere. Non è vero, mio buon fratello?

– Ja, ja: puon fratello. Dove condurmi?

– Come? non conosci mastro Taverna, quello che ha per insegna trenta corna?

– Trenta corna?…

– Di bisonte.

– Ah, ja, ja.. Corna!

– Vieni, camerata.

Testa di Pietra gli gettò in viso un’altra boccata di fumo che non fece affatto arricciare il naso al tedesco; lo prese sotto il braccio dicendo:

– Cadano pure le bombe di quei birbanti americani; li sfido a fracassare le nostre bottiglie! È vero, camerata?

– Ja, Ja!

– Benissimo: che cos’hai in quel sacco?

– Cantele di sego.

– Da portare a qualche ridotto?

Il tedesco lo guardò con stupore.

– Alle batterie? – aggiunse Testa di Pietra.

– No, alle cucine.

– Per far luce?

– No; nella minestra. Cacciarle dentro, si sciolgono ed il brodo diventare meravigliosamente custoso.

– Gustoso, vuol dire, diavolo! Minestra al brodo di candele di sego… Dev’essere squisita.

– Mai assaggiata, fratello?

– Mai – rispose seriamente il bretone. – A bordo delle nostre navi, quando la carne manca, gettiamo nelle pentole merluzzo e topi; e che brodo fanno, fratello…! ti chiami?

– Hulrik.

– Benissimo, camerata.

– Tu voler provare mie cantele, fratello? Io regalare a te mezza dozzina.

– Ma che! Abbiamo tanti topi a bordo per rinforzare il nostro brodaccio!

– Marinai sempre allegri. Puoni fratelli.

– Padre, – disse il bretone. – Sono vecchio tanto da poter essere tuo padre. A giudicare a colpo d’occhio, non puoi avere più di ventiquattro anni.

– Venticinque.

– Ne ho quasi cinquanta, quindi posso chiamarti figliuolo.

– Ja, ja. Io tuo pon figliolo.

– Ti piacciono i salsicciotti affumicati?

– Ponissimi con la pirra.

– Niente pirra – disse Testa di Pietra. – Berremo buon vino scorpionato.

– Scorpionato? Cosa essere?

– Una specialità di mastro Taverna.

– Penissimo.

– Vieni, figliuolo.

– E tu pacare?

– Io pagare tutto.

– Perché io non avere ricevuto ancora paca.

– Dio mio come parlate male! Mi sembra di udire ranocchi in amore.

Il soldato scoppiò in una risata.

– Mio padre sempre allegro.

– Sempre – rispose il bretone. – Affrettiamoci, e non pensare alle tue candele. I tuoi camerati per oggi ne faranno senza; e poi è male ingrassar troppo.

– Ja, ja, pon padre.

Testa di Pietra, seguito a breve distanza da sir William e da Piccolo Flocco, rifece la strada percorsa mezz’ora prima, e rientrò nell’albergo delle Trenta corna di bisonte.

Il taverniere, che stava risciacquando bicchieri e bottiglie, nel vederlo, spalancò le braccia e lasciò cadere a terra quanto aveva in mano.

– Che cosa significa questo fracasso, mastro Taverna? – chiese il bretone severamente. – È caduta una bomba sulla tua casa?

– Voi, signore?

– Non ti avevo detto che sarei ritornato? Avresti salciciotti affumicati e formaggio piccante di quello che domanda vino, vino, ancora vino?

– Sì, mio signore.

– Porta e non dubitare, che pago come un capitano di corvetta.

– E anche pirra – disse il soldato.

Testa di Pietra fu pronto a strizzare l’occhio al taverniere, poi disse prontamente

– Non se ne trova più da queste parti. L’avete bevuta tutta voi, senza pensare ai vostri camerati della marina, beoni.

– Noi pere molta pirra.

– Ed ora berrete vino.

– Sì, fino, porta fino.

– Finissimo – aggiunse il bretone, – Due, quattro, anche sei bottiglie. Ma non di quelle del Reno, bada, mastro Taverna.

– Vini di Francia autentici.

– Comprati da quell’asino di tuo padre! Allora berremo certamente qualche veleno scorpionato.

– Eh, no! – protestò il taverniere. – A voi offrirò quanto di meglio possiedo.

In quel momento entrarono sir William e Piccolo Flocco, i quali andarono a sedersi alla tavola più lontana. Testa di Pietra li guardò di traverso, poi curvandosi verso il soldato, gli disse sottovoce:

– Quelle devono essere spie.

– Uhm! Quelle brutte facce non mi persuadono affatto.

– Non trovarsi spie in Boston.

– Vedremo.

Mastro Taverna risalì portando due panieri, uno pieno di bottiglie e l’altro di cibi. Vedendo anche il Corsaro e Piccolo Flocco, per poco non lasciò cadere tutto.

– In gamba, mastro Taverna! – fu pronto a gridargli il bretone – e non badare ai nostri affari. Chiudi gli occhi ed anche il becco.

L’albergatore rimessosi un po’ dalla sorpresa, servì il bretone e il soldato, mettendo loro dinanzi una dozzina di salsicciotti affumicati, che i topi della cantina avevano qua e là intaccati, formaggio canadese di colore bruno, che doveva mordere la lingua peggio della senapa, poi pane nero e quattro bottiglie di marca.

– Bordeaux – lesse il bretone. – Corbezzoli! Un lusso inaudito in una città assediata. Questo mastro Taverna è un uomo veramente meraviglioso. Si direbbe che ci aspettava per provarci che il suo defunto padre non era un asino. Stura! – soggiunse Testa di Pietra. – E tu, figliuolo, da’ l’assalto ai salciciotti e al formaggio. Ti assicuro che non vi sono nascoste le baionette americane.

– Grazie, padre. Tu essere pon camerata

– Mangia, e bevi soprattutto; fammi vedere come i tedeschi sanno bere.

– Tu pacare.

– Te l’ho già detto: io pacare anche tutta la cantina di mastro Taverna. Non ho speso un soldo in dieci mesi di navigazione, e nella mia cintura ho tante sterline da poter vuotare cinquecento bottiglie, fare duecento pranzi e trecento colazioni… Pefi, figliuoli. Tutto pacato.

Il soldato diede un formidabile attacco ai salciciotti e al formaggio, annaffiandoli copiosamente con quel preteso Bordeaux. Testa di Pietra gli tenne valorosamente fronte, specie nel bere.

Ad un certo momento, quando già quasi tutto era stato divorato, Testa di, Pietra appoggiò le braccia sul tavolino e guardando il soldato, gli chiese a bruciapelo

– Hai mai amato, figliuolo?

Il tedesco, prima di rispondere, tracannò un altro bicchiere, poi arrossì come una ragazza scuotendo il capo.

– Foi, padre, essere innamorato?

– E che cotta ho preso!

– Foi avere sangue caldo.

– Come le lave d’un vulcano, figliuolo. Ma penso che potresti aiutarmi.

– Io? Come?

– Sei di guarnigione nel castello, è vero?

– Sì, padre.

– Mangia un altro salsicciotto e bevi un altro bicchiere di vino.

– Vi fosse pirra…

– Oh niente pirra! La marina beve sempre Bordeaux o del gin.

– Gin! Pono, pono!

– Mastro Taverna, Portaci una bottiglia di gin, di quello che tuo padre ha comprato cent’anni fa.

Riaccese la pipa che gli si era spenta, poi riprese:

– Tu, figliuolo, hai visto donne nel castello?

– Sì, due.

– Belle?

– Una giovane, pella.

– E l’altra?

– Giovane anche quella.

Testa di Pietra si compresse il cuore con ambo le mani, e sospirò.

– Ah, l’amore, l’amore!… – esclamò poi. – Sono dieci mesi che navigo per cercarla

– Chi, padre?

– Sono innamorato d’una di quelle donne.

– La fidanzata del marchese?

– Eh! Un marinaio non può avere tali aspirazioni. Come può osare di guardare tanto in alto? È l’altra che amo.

– La camerera?

– Sì, la cameriera – disse Testa di Pietra. – Ah, come l’amo! Il cuore minaccia di scoppiare per l’intensa gioia. Vedi, siamo marinai, e Ie nostre donne non le vediamo che dopo tanti mesi di navigazione.

– Penone! penone!

– Sì, di maestra – disse il bretone ridendo. – Bevi ancora, figliuolo, e spalanca gli occhi.

– Io ascoltare mio padre!

– Ti dicevo dunque che il mio cuore si consuma d’amore per la cameriera della fidanzata del marchese. La conosci?

– Sì.

– Bella, vero?

– Un po’ vecchia.

– Sono vecchio anch’io, perbacco!

– Avanti, patre.

– Nostro – disse il bretone. – Fra poco questo luterano mi recita il Pater noster. Il Bordeaux fa talvolta di questi scherzi.

Riaccese per la terza volta la pipa, poi disse.:

– Dunque, figliuolo, sei di guarnigione nel castello?

– Sì, patre.

– Ascolta, figliuolo: vorrei vedere quella cameriera. Come potrei fare?