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I Corsari delle bermude

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13. COLPI DI SPADA

Il marchese, mandò un urlò di rabbia e retrocesse rapidamente. Sir William aveva intanto impugnato la spada.

– Mi avete teso un agguato? – chiese il marchese, mentre Piccolo Flocco, ad un cenno del bretone, con mossa fulminea allontanava la tavola per lasciare maggiore spazio ai combattenti.

– Non vi ho teso nessun agguato, perché non era qui che volevo incontrarvi – rispose il baronetto. – Se foste venuto domani mattina, non mi avreste trovato più, come non avreste trovato Mary di Wentwort.

– Mary! – ruggì il colonnello. – Dov’è?

– È là – disse il baronetto indicando la tenda.

– Largo o vi uccido!

– Chi uccidete?

– Voi, signor Mac Lellan. – disse il marchese con disprezzo.

– Se non sono un d’Halifax puro – rispose il Corsaro – son capace di difendere la mia pelle.

– Siete diventato maestro d’armi? Non l’avevo mai saputo prima di questa sera.

– V’insegnerò come insegnano i maestri d’armi di Francia.

– Basta, finitela! Largo, per la morte di tutti gli dèi della terra! Qui, Mary.

Due grida soffocate s’erano udite dietro la tenda che nascondeva le due donne.

– Venite! – urlò il marchese.

– Non obbedite! – disse sir William.

– Ah, vuoi impedirlo, bastardo!

Si slanciò innanzi colla spada tesa, sperando di spaventare il Corsaro con un affondo improvviso. La sua spada diede un suono il metallico, sprigionando qualche scintilla, e deviò subito sotto un poderoso sforzo dell’avversario. Fu un vero miracolo se la spada non gli fu gettata via al primo attacco.

– Ah, siete forte – disse il marchese. – La vedremo, signor Mac Lellan. A Londra e a Edimburgo ho gettato a terra parecchi gentiluomini!

– Provatevi a passare per raggiungere Mary.

– Largo!

– Mai! Qui si muore sul posto!

Il marchese gli vibrò una botta diritta, che il Corsaro fu pronto a parare con una semplice mossa di seconda. Non era che un’avvisaglia. Il marchese aveva attaccato furiosamente, sperando di respingere il bastardo e di raggiungere la tenda, dietro la quale, mute di spavento, tremanti, si tenevano strette la padrona e la cameriera. Aveva da fare per altro con uno spadaccino che era abile nel maneggiare tanto la pesante sciabola d’abbordaggio che la spada.

Fermo come una torre, su una guardia elegantissima, che sarebbe stata ammirata anche alla corte di Versailles, controbatteva fiera mente il ferro del marchese, esclamando di quando in quando:

– Sotto, signor d’Halifax! Un Mac Lellan vi chiude il passo, un bastardo! Gettatelo a terra, dunque, con una stoccata diritta al cuore.

Il colonnello, pure valente spadaccino, infuriava tirando colpi e lanciando bestemmie ma tutti i suoi sforzi riuscivano vani. La spada del Corsaro, che fischiava come un giunco, era sempre pronta a respingere il colpo mortale.

– Perbacco! – urlò ad un certo punto il marchese, passando la spada dalla mano destra alla sinistra e tergendosi il sudore, forse più freddo che caldo, che gli bagnava la fronte. – Ora vedremo questo giuoco!

– Da mancina? – disse il Corsaro con un sorriso satanico. – Vecchia scuola, che i maestri d’armi della Francia mi hanno insegnato.

E alla sua volta aveva impugnato la spada colla mano sinistra, facendo un passo indietro per non farsi infilzare a tradimento.

Il marchese era diventato più livido che mai.

– Ah, tu pure, bastardo, conosci questa scuola?.

– Ed altre ancora, marchese, – rispose il Corsaro. – Vi farò provare fra poco la supremazia delle scuole francesi ed italiane su quelle inglesi. Fino ad ora mi sono difeso: il momento di montare all’abbordaggio è giunto, e per tutte le furie dell’inferno vi assalirò, coll’impeto che ho sempre messo quando svuotavo le navi dei vostri compatrioti.

– Tu, che hai sangue inglese nelle vene!

– Non sono un bastardo, allora! – disse il baronetto.

Il marchese si morse le labbra a sangue, poi disse:

– È vero: siete francese per metà.

– Sono io, ora, marchese che vi dico di finirla e di dare o ricevere una buona stoccata.

– Allora prendi, bastardo!

– Ah, no! Troppo corta.

– Prendi quest’altra!

– Nemmeno questa. Si ferma con una semplice parata di seconda

– E la terza?

– Passata pure, fratello! – rispose il baronetto, il quale aveva parato prontamente la stoccata, diretta sempre verso il suo cuore.

Il marchese aveva fatto due passi indietro ed aveva ripreso la spada colla destra.

– Non mi volete lasciar raggiungere Mary? – ruggì.

– Vi ho detto di no.

Il marchese, in preda a terribile furore, si gettò per la terza volta contro il baronetto tirando stoccate più disperate di prima, ma cozzò sempre contro una parete d’acciaio.

– A me, ora! – disse il Corsaro.

A sua volta aveva assalito con furia vertiginosa. Balzava come una tigre, mandava grida inarticolate per sbigottire l’avversario, e lo tempestava di botte sapientemente date.

Il marchese, sorpreso da simile attacco, aveva fino da principio rotto la guardia facendo un primo passo indietro. Pochi secondi dopo, impotente a tener testa a tanta furia, fece una seconda ritirata.

– È perduto! – brontolò Testa di Pietra, che teneva sempre in pugno la sciabola d’abbordaggio e la pistola per impedire al marchese di slanciarsi nell’altra stanza e chiamare in suo aiuto la guarnigione del castello. – Il mio comandante è assolutamente invincibile.

– Diamine! Dopo tanti abbordaggi!… – esclamò Piccolo Flocco.

In quel momento il marchese fece un altro passo indietro. Non riusciva più a tener testa aIla furia incalzante del baronetto. Ancora tre passi e si sarebbe trovato contro la parete.

Il Corsaro, deciso a finirla gli stava sempre addosso, menando colpi terribili, che l’altro a malapena riusciva a parare. Già due volte la sua ricca casacca ad alamari d’oro era stata lacerata in vicinanza del cuore. Ad un tratto sir William a sua volta ruppe, facendo un gran salto indietro. Il marchese gli si era precipitato addosso gridando:

– Sei mio! sei…

Non poté finire. Si era portato una mano al petto ed aveva lasciato cadere la spada. La lama del Corsaro l’aveva colpito, e ben profondamente, quantunque non proprio in direzione del cuore.

– Toccato! – esclamò Testa di Pietra. lanciandosi dietro al ferito ed allargando le braccia.

Era giunto in buon punto, perché il marchese stava per cadere svenuto. Il bretone lo prese, lo trasportò su un divano non senza un certo raccapriccio, sebbene abituato alle carneficine orrende degli abbordaggi, e, vedendogli la casacca rossa macchiarsi d’una tinta più cupa.

– È sangue, questo – disse.

Sir William era rimasto immobile, appoggiato sulla sua formidabile spada, passandosi e ripassandosi un mano sulla fronte. Poi alzò la tenda e trasse a se Mary

– È fìnita! – le disse. – Dio così ha voluto.

La bionda miss aveva mandato un grido per lo spavento ed i suoi occhi si erano fissati sulla macchia rossa che andava sempre più allargandosi sulla casacca.

– Morto? – domandò.

– Forse no – rispose il Corsaro, che faceva sforzi per nascondere la propria commozione. – Ho sbagliato probabilmente il colpo.

Poi serrandosela strettamente al petto, le disse:

– Scegli fra me e lui.

– Tu, tu, mio William.

– Allora fuggiamo.

– E il marchese? Lo lascerai morire così?

– Quando avremo lasciato la torre, Diana andrà a chiamare qualcuno. I Medici non mancano dove vi sono tanti soldati!… Testa di Pietra, un pezzo di corda ben solida.

– L’ho sottomano – rispose il bretone, strappando da una tenda un grosso cordone di seta.

– Solido?

– Quanto una gomena d’àncora di speranza.

– Non temere, Mary. Stringi bene le mani intorno al mio collo. Il cordone di seta ti reggerà, se mai ti dovesse cogliere la vertigine. Lesto, Testa di Pietra. Due buoni nodi piatti intorno ai polsi della miss.

Mentre essi pensavano alla fuga, la cameriera si era occupata del marchese, aprendogli la casacca, il panciotto e la camicia di finissima batista ormai tutta inzuppata di sangue.

Piccolo Flocco l’aiutava.

In un baleno il bretone tagliò il cordone alla lunghezza necessaria col suo coltello di manovra, annodò saldamente i polsi della giovane, poi salì sul davanzale della finestra e per la seconda volta scosse la sbarra di ferro.

– Può reggere anche quattro uomini – disse. – Pronti, comandante.

– E la fune?

– Oh, non temete! Può portare benissimo un doppio peso.

– Mettimi Mary sulle spalle, ed aiutami ad attraversare il davanzale.

– Ecco fatto, comandante.

Il Corsaro e Mary si trovarono sospesi nel vuoto.

– Stringi forte – disse il primo – e chiudi gli occhi.

– Si, William, – rispose la giovane.

– Non temere: ho muscoli saldi.

Passò sul primo nodo, poi sul secondo, serrando nervosamente la fune colle mani e colle ginocchia. Il bretone, affacciato alla finestra, li seguiva cogli sguardi

A poco a poco li vide sparire tutti e due e dileguarsi nell’oscurità

– Hanno toccato terra – disse con un vero sospiro di sollievo. Piccolo Flocco, a te. Come va il marchese?

– Perde sempre sangue e non ha ancora aperto gli occhi.

– Brutto segno! – brontolò il bretone.

Poi, alzando la voce, soggiunse:

– Orsù, passa e raggiungi il capitano.

Il giovane gabbiere, lesto come uno scoiattolo, scomparve attraverso la finestra.

– Miss, – disse allora il bretone, rivolgendosi alla cameriera, la, quale si studiava ad arrestare il sangue che usciva in gran copia dal petto del marchese. – Fra due minuti andate pure a chiamare un medico.

– E che cosa gli dirò? – chiese Diana; che era forse più pallida del ferito.

– Direte che sono entrati i ladri. Guardatevi dal nominare il baronetto poiché potreste pentirvene.

 

– Oh, mai! Sono devota alla mia signora.

– Va bene, ci rivedremo presto.

Scavalcò a sua volta il davanzale, strinse la fune e discese rapidamente, borbottando, come sempre. Appena a terra vide a dieci passi di distanza il Corsaro, Mary e Piccolo Flocco, che teneva snudata la sciabola d’arrembaggio.

– Il Marchese? – chiese ansiosamente la giovane, muovendogli incontro.

– Il sangue non si è ancora fermato, miss, – rispose il bretone tuttavia non credo si tratti di cosa molto grave. Per la prima volta il, capitano ha sbagliato.

– Mio Dio, che cosa hai fatto William; – esclamò la giovane, rivolgendosi al Corsaro che l’aveva raggiunta.

– Ciò che era scritto sul libro del destino, – rispose asciuttamente il baronetto. – Vieni, prima che ci prendano.

Le piazze e le vie erano deserte e immerse in una profonda oscurità, poiché l’olio di cotone e le candele difettavano in Boston. Di quando in quando granate attraversavano le tenebre, andando a cadere sulle case.

Nessuno parlava: tutti parevano assai preoccupati: perfino Testa di Pietra. Pensavano probabilmente a quanto avveniva in quel momento nella torre fra i medici ed il marchese e alle indiscrezioni della cameriera. Pattuglie dovevano essere state lanciate in varie direzioni per raggiungere i supposti ladri.

– Ehi, Piccolo Flocco, – disse ad un certo momento il bretone che non ne poteva più di quel silenzio – non ti sembra di vedere quattro morti che passeggiano?

– Infatti la nostra allegria è scomparsa.

– Si dovrebbe essere lieti del buon successo e cantare a squarciagola la canzone dei pescatori di sardine della nostra cara Bretagna

– Non importunare il baronetto – rispose il giovane gabbiere.

– Così peraltro non la può durare. Meno male che mastro Taverna ci aspetta, e saprà infonderci un po’ d’allegria colle sue bottiglie più o meno scorpionate. Questa notte sognerò Diana.

– Sei innamorato di quella mummia egiziana?

– Mummia, la chiami? Merluzzo secco, mio caro, e di quello dei banchi di Terranova.

– Bell’acquisto faresti, alla tua età specialmente!

– Per il borgo di Batz! Credi che sia giovane lei?

– Le mummie non hanno mai avuto età; almeno cosi mi ha detto mio zio, che è stato molto tempo in Egitto a frugare nelle piramidi.

– Per cercare che cosa?

– Tesori antichissimi.

– E non ti ha fatto ricco?

– È tornato a casa senza un soldo e con tre mummie che facevano paura a vederle.

– Tuo zio era un imbecille – sentenziò gravemente il mastro. Già, era del Pulignen e non di Batz. Bei furbi ci sono nel tuo villaggio!

In quel momento udirono il Corsaro che gridava:

– Largo, o vi uccido!

Testa di Pietra si slanciò colla sciabola d’arrembaggio alzata. Due soldati avevano cercato di sbarrarle il passo, allungando le mani verso la miss.

Prima che sir William li toccasse colla spada, il bretone si era scagliato contro di loro. Con due pedate formidabili li rovesciò in mezzo alla via, lasciandoli tramortiti.

– E che! – esclamò il bravo marinaio. – Non è dunque permesso in Boston, perché assediata, di godersi un po’ di fresco? Ecco come uso trattare i disturbatori della quiete pubblica.

E camminò dietro al Corsaro ed alla miss, come se nulla fosse accaduto.

Cinque minuti dopo si trovavano dinanzi all’Albergo delle trenta corna di bisonte e bussavano fragorosamente per svegliare i due occhi di bue, come il bretone chiamava, nei suoi momenti di buon umore, mastro Taverna.

14. I TERRIBILI EFFETTI DELL’«AGUARDIENTE» SCORPIONATA

L’albergatore si era addormentato su una sedia sicché fu pronto ad aprire. Nel vedere i tre personaggi insieme con una bellissima fanciulla, fece un gesto di sorpresa, ma da uomo prudente non si permise nessuna domanda.

– Desiderate, miei gentlemen? – chiese stropicciandosi i grossi occhi.

– È pronta la stanza per la signora? – chiese sir William.

– Anche.

– Vieni, Mary: qui sei al sicuro, perché la mia spada e le sciabole dei miei marinai saranno sempre pronte a difenderti. Mi dispiace che sia un albergo d’infimo ordine, ma prima di tutto dovevo pensare alla tua sicurezza. Nessuno verrà certamente a cercati qui.

– E Diana?

– Se ne incaricherà domani Testa di Pietra. Lascia fare a lui. Albergatore fateci lume.

– Comandante, sareste per caso scontento del vostro vecchio mastro?

– Perché dici così, Testa di Pietra? – chiese sir William, sedendosi al tavolino.

– Pel borgo di Batz! Quando il Leicester, c’inseguiva non avevate un viso così triste. Eppure dovreste essere allegro, perché il vostro piano è riuscito e la vezzosa miss si trova ormai sotto la protezione dei cannoni della corvetta, dei vostri fedelissimi marinai e degli americani.

– Avrei voluto evitare quel colpo di spada, – rispose il baronetto.

– Capisco che nelle vene degli Halifax e dei Mac Lellan scorre quasi il medesimo sangue, però non potevate lasciarvi bucare. Comandante, cacciate le nuvole che coprono la vostra fronte con un paio di bicchieri di questo Medoc.

Poi, volgendosi verso mastro Taverna gli disse:

– Sei un pessimo taverniere. Hai del Medoc, che forse non bevono nemmeno Luigi XVI e Maria Antonietta, e non ce l’hai mai offerto.

– Medoc! – esclamò mastro Taverna. – Che cos’è?

– Anche questo l’ha comperato tuo padre?

– Sì, mio gentleman.

– Ecco, tuo padre in certi momenti doveva essere un gran buongustaio, ma quando non era ubriaco. Guarda se hai ancora di queste bottiglie, e mettile tutte a nostra disposizione, anche se sono cento.

– Ve lo prometto.

– Va’ intanto a cercarne un’altra, poiché le bottiglie francesi sono piuttosto piccole, e quello che contengono non basta nemmeno ad un mozzo.

L’albergatore obbedì docilmente.

– E ora – continuò l’eterno chiacchierone – beviamo, comandante, alla salute della vostra graziosissima fidanzata… Giù, signore: questo Medoc scorre come l’olio.

Il Corsaro accettò il consiglio e vuotò il bicchiere.

– Ora che vi siete bagnata la lingua, comandante, discorriamo. Come faremo a tornare a bordo della corvetta, se la camera da mina è saltata? Quel passaggio ormai ci è chiuso.

– Volevo domandarlo a te – rispose sir William

– Si potrebbe approfittare di qualche notte oscurissima per varcare le trincee e raggiungere la Mistica. Io e Piccolo Flocco andremo ad esplorare intorno alle fortificazioni per trovare il passaggio, senza correre il pericolo di farci fucilare.

– Bisognerebbe andarsene al più presto – disse sir William. – Non mi sento affatto sicuro nemmeno qui.

– Dubitereste di mastro Taverna? Se è così, scendo subito in cantina e gli taglio la lingua.

– Non è di lui che temo. È del soldato.

– Di quel ragazzone?

– Egli ti ha introdotto nella torre e ha bevuto con te. Se parlasse?

– Corpo d’una bomba! – esclamò il bretone. – Lì infatti sta il pericolo.

Il brav’uomo, che contava sempre sulla sua buona stella, si riprese subito ed aggiunse:

– È impossibile che quel pappagallo parli, perché se i suoi superiori sapessero che è stato lui ad introdurmi nel castello, lo fucilerebbero insieme col fratello.

– In fondo puoi aver ragione – rispose sir William – ma sarei più contento se mi trovassi fuori di Boston.

– Ci andremo, signore; non abbiate premura. La corvetta non corre alcun pericolo; qui i salsiciotti affumicati ed il buon vino non mancano; la miss è presso di voi, al sicuro dagli attacchi del marchese. Che cosa vorreste desiderare di più?

– Desidererei trovarmi sulla mia corvetta.

– Pazienza, comandante. Lasciate fare al vostro vecchio mastro. Per questa notte non c’è più nulla da fare, e credo che faremmo bene a chiudere nel nostro magazzino… Mastro Taverna! Viene sì o no questo Medoc? Vogliamo andare a dormire.

L’albergatore salì precipitosamente la scala, tutto affannato, e depose sulla tavola mezza dozzina di bottiglie, che portavano la loro brava etichetta ammuffita con tanto di «Medoc».

– Le ultime – disse. – Non ne ho trovate altre.

– Uhm; esclamò il mastro. – Sempre le ultime. Domani verrò con te in cantina, e vedremo se non ce ne saranno altre. I tuoi occhi sono troppo grossi, perciò ti servono poco bene. Se fossi in te, andrei a chiedere consiglio ad un oculista.

– Me l’aveva detto anche mio padre.

– E non l’hai obbedito: male, male. Si devono sempre ascoltare i genitori.

I tre corsari, messi un po’ di buon umore alla prima bottiglia, diedero lestamente fondo alla seconda, poi raggiunsero mastro Taverna che stava preparando loro i letti.

– Se la signora chiama – gli disse sir William – verrai subito ad avvertirmi. Questa notte non devi dormire.

– No, mio gentleman; ve lo prometto – rispose l’albergatore, prendendo al volo un’altra sterlina che gli aveva gettato il Corsaro.

– Se poi torna quel tedesco che ieri mattina è venuto a bere con me – aggiunse Testa di Pietra – mi verrai a svegliare. Tieni pronta una di quelle bottiglie, dove conservi i tuoi scorpioni.

– Vorreste berla?

– Io no, amico: bevo il Medoc. Sarà il soldato che manderà giù il tuo aguardiente scorpionato. Quel bravo ragazzo non ci farà caso.

Preceduti dall’albergatore, passarono nella loro stanza-magazzino, posate le pistole sui tavolini da notte, messe le spade e le sciabole sguainate in fondo ai letti, si gettarono sulle coperte, senza nemmeno togliersi i pesanti stivali, per essere più pronti a saltare in piedi e menare le mani nel caso che qualche pattuglia inglese fosse riuscita a scovarli.

Le bombe cadevano sempre su Boston, poiché gli americani durante la notte scavavano nuove parallele per ridurre al silenzio le batterie inglesi.

I corsari non se ne preoccupavano.

– Ci sono tante altre case da scoperchiare – aveva mormorato Testa di Pietra, girando sull’altro fianco. – Che debba proprio cadere una sopra le nostre teste?

Non aveva finito di parlare, che già russava come una vera marmotta.

Dormiva da cinque o sei ore quando una mano vigorosa lo scosse. Aprì gli occhi e vide sopra di sé mastro Taverna.

– Chi ti ha detto di svegliarmi così presto? – chiese.

– Così presto? Sono già le otto, gentleman.

– Potevi lasciarmi dormire fino a mezzogiorno e prepararci una colazione abbondante a base di salciccie affumicate.

– C’è il tedesco.

– Perbacco! – esclamò il bretone, slanciandosi dal letto. – Bell’affare!

Guardò il Corsaro e Piccolo Flocco: dormivano ancora.

– Lasciamo che si riposino – disse. – Me la caverò da solo.

Poi guardando il taverniere, gli chiese:

– Hai preparata la bottiglia piena di scorpioni?

– Due, mio signore.

– E salciciotti ne hai ancora?

– Posseggo una discreta provvista di carne di maiale, anzi, se volete, ho ancora un prosciutto che mi sono fatto mandare da Chicago.

– Tu o tuo padre?

– Io, io.

– Allora va’ a dire al tedesco che fra cinque secondi sarò da lui. Prepara intanto la tavola. Qui, come vedi, si paga a colpi di sterline.

– Lo so bene.

– Va’.

Si ravviò rapidamente i capelli, si lisciò alla meglio la barba ispida, ringuainò la sciabola d’abbordaggio e si mise nella rosseggiante fusciacca la lunga pistola a due colpi, poi uscì in punta di piedi per non svegliare sir William.

– Per il borgo di Batz! – brontolò. – Come me la caverò con quel pappagallo?

Cacciò una mano nella fusciacca e fece saltare parecchi dollari.

– Hulrik è più avaro del notaio di Batz – disse. – Con questi mi prenderò non solamente la sua testa, ma anche la sua anima…

Si tirò su i calzoni, e lasciò la stanza-magazzino senza far rumore. Il soldato stava seduto dinanzi ad un tavolino, centellinando un miserabile bicchierino di gin

Vedendolo, si era alzato dicendo:

– Pon giorno, patre! Aver dormito bene?

– Io? – esclamò Testa di Pietra. – Dormo sempre a casa mia, figliuol mio, e sempre in compagnia del catrame, delle àncore e delle gomene.

Il tedesco fece un gesto di stupore.

– E come? – disse.

– Che cosa? – chiese il mastro.

– Tu essere uscito dalla torre, patre?

– Avevo portato con me una solida corda, e di quella mi sono servito per calarmi giù senza che nessuno mi vedesse.

– Allora quella corda servire ai latri!

– A quali ladri? – chiese il mastro, fingendo di cadere dalle nuvole.

– Tu non sapere quello che è toccato a mio colonnello?

– Al tuo colonnello? Chi è?

– Il marchese d’Halifax.

– E dunque?

 

– Averlo quasi assassinato con un colpo di spada.

– E la mia fidanzata l’hanno pure uccisa?

– No, essere sempre viva, ma i latri avere portata via sua patrona.

– Erano ladri in carne ed ossa? Non ho mai udito parlare di tali individui.

– Io non sapere – rispose il tedesco, allargando le braccia.

– Corpo d’un albero fulminato! – esclamò Testa di Pietra, simulando il più grande stupore. – Che storia è questa?

– Patre, quando afere lasciata torre?

– Saranno state circa le dieci.

– Penissimo: altri afere subito approfittato tua fune.

– Infatti la cosa mi pare chiara. E hanno svaligiato la torre?

– No; solo patrona afere portato via.

– E la mia fidanzata, la mia dolcissima Nelly? Questa è strana! È morto il tuo colonnello?

– No, ma afere perduto molto sangue.

– Ah, se ne rimetterà dell’altro mangiando buone bistecche e bevendo Bordeaux. C’è qui mastro Taverna che possiede ancora qualche dozzina di bottiglie. Te ne farò dare un paio e gliele regalerai, ma non a nome mio, vè!

– Oh, io non parlare.

– Hai fame?

– Io afere sempre, patre: generale Howe non dare che mezza razione.

– Mentre per voi tedeschi ce ne vorrebbero due.

Il tedesco sorrise, facendo col capo un cenno affermativo.

– Mastro Taverna, – disse il bretone, volgendosi verso l’albergatore – dà da mangiare a questo bravo figliuolo; pago tutti io.

– Tu sempre pacare, patre – disse il soldato.

Il taverniere fu pronto a portare una libbra di prosciutto, una mezza dozzina di salciciotti, pane duro quanto le pietre ed una bottiglia.

– Mangia, figliuolo. – disse, il bretone.

Il tedesco, dotato d’un appetito formidabile, compatibile d’altronde coi suoi venticinque anni e le magre razioni che il comandante della piazza passava ai suoi soldati, si era gettato sul prosciutto, impregnato di sale in modo detestabile e che doveva muovergli una sete inestinguibile. Testa di Pietra sturò la bottiglia e gli riempì il bicchiere che gli stava innanzi.

Un superbo scorpione montò subito a galla.

Il tedesco, occupato a far lavorare i suoi denti, non vi aveva fatto caso, ma quando prese la tazza, fece un gesto di sorpresa.

– Piccola pestia nera – disse, prendendola fra due dita. – Scorpione?

– Ma che scorpione d’Egitto! – rispose il mastro. – È una mosca nera della Gran Canaria.

– No, scorpione!

– No, no!

Il tedesco gettò via la bestiolina e vuotò il bicchiere succhiandosi le labbra.

– Ponissimo! – disse.

– Sfido io! È madera che costa un dollaro la bottiglia. Bevi pure figliuolo mio.

Il giovane non si fece pregare, ed un altro scorpione galleggiò nel suo bicchiere.

– Non badarci, figliuolo, – disse il bretone vedendolo esitare. Devi sapere che nel Madera, che viene dalla Gran Canaria, ci mettono appositamente dentro quel genere di mosche per dare al vino maggior forza e maggior sapore.

– Tu non pere con me, patre?

– Presi una volta, nella Gran Canaria, una sbornia così fenomenale, che mi ha fatto odiare per sempre, con mio grande dispiacere, il Madera.

– Capito – rispose il soldato, ridendo.

Levò anche il secondo scorpione tracannò, assaltando poi subito i salsicciotti.

Testa di Pietra si era fatto portare una bottiglia di Medoc, che aveva fatto sturare dopo l’aguardiente, e spiava attentamente il soldato, stupito che resistesse così tenacemente a quel liquore di nuovo genere, che doveva contenere principii tossici.

– Se mangia le candele fuse dentro la minestra – brontolava fra sé – può bere anche quel Madera, che viene, viceversa, dal Messico.

Il tedesco, intanto continuava a divorare le durissime pagnotte che dovevano sembrargli biscotti. Di quando in quando s’interrompeva, si empiva il bicchiere, e beveva fino all’ultima stilla.

Era giunto al quinto salsicciotto, quando Testa di Pietra lo vide rovesciarsi sulla spalliera della sedia, colle braccia penzoloni e il viso congestionato.

– Che sia avvelenato, o colto da ubriachezza fulminante? – si chiese Testa di Pietra un po’ inquieto. – Non è la sua pelle che voglio; bensì il suo vestito.

Prese la bottiglia e la capovolse: era completamente vuota.

– Per il borgo di Batz! – esclamò. – Un litro d’aguardiente in meno di venti minuti. Sfìdo io! Nemmeno un vecchio marinaio avrebbe potuto resistere. È vero che ha in corpo una buona

libbra di prosciutto, quattro salsicciottì e non so quante pagnotte… Mastro Taverna, bada che non cada.

Testa di Pietra si slanciò nella stanza-magazzino, e trovò Piccolo Flocco seduto sulla sponda del letto che fumava tranquillamente.

– E il capitano? – chiese subito il bretone.

– È salito dalla miss per augurarle il buon giorno. E tu, l’hai finita col tuo tedesco?

– Vieni a vederlo, e aiutami.

Tornarono insieme nella taverna. Il soldato pareva morto; non respirava nemmeno più.

– Ah, corpo d’una bombarda! – esclamò il bretone, grattandosi la testa. – Che l’abbia proprio avvelenato? Non dovevo giocargli questo tiro; ma anche lui poteva bere un po’ meno. Che te ne pare, mastro Taverna?

L’albergatore scosse il capo, poi rispose

– Non so.

– E se fosse proprio morto?

– Lo vado a seppellire in cantina sotto l’ultima botte. Ne abbiamo abbastanza di questi tedeschi, che ci piovono addosso da tutte le parti come lupi affamati.

– Ecco un parlare d’oro! – disse il bretone. – Non credo però che questo bravo ragazzo abbia già rimandata la sua anima al di là dall’Atlantico. Sono resistenti questi giovanotti. Orsù aiutatemi a portarlo a letto. Mi occorrono le sue vesti.

– Per farne che cosa? – chiese Piccolo Flocco.

– Lo saprai dopo.

Sollevarono il soldato, che pesava quanto un giovane toro, lo portarono nella stanza magazzino, lo spogliarono della sua divisa e lo cacciarono sotto le lenzuola.