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I Corsari delle bermude

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17. I FURORI DI TESTA DI PIETRA

Il taverniere aveva detto la verità, il nascondiglio esisteva. Non era veramente una stanza, ma nemmeno un nicchia, e cinque o sei uomini avrebbero potuto rifugiarsi abbastanza comodamente.

Testa di Pietra in un lampo lo ispezionò, e si dichiarò subito soddisfatto.

– Mi pare di trovarmi nella cala della Tuonante – disse il bravo uomo. – Sarà un po’ difficile che quelle canaglie di policemen vengano a trovarci quaggiù. Mastro Taverna è la perla degli albergatori. Saprò ricompensarlo.

In quel momento entrò Piccolo Flocco, il quale chiese subito:

– Come si sta?

– Magnificamente bene! – rispose il bretone. – Se fossi mastro Taverna, ci metterei cocomeri. Come si mangerebbero freschi! Quell’uomo non sa fare il suo mestiere, povero diavolo! E tutto deve dipendere dai suoi occhi di bue.

La voce sonora di mastro Taverna risuonò in quel momento dentro il pozzo come un colpo di cannone.

– Prendete il carico, miei gentIemen!

La fune era ridiscesa con due gigantesche ceste contenenti tabacco, bottiglie, salsicciotti, prosciutti, cacio del Canada, pagnotte e due grosse coperte di cotone.

– Ora mi pare che vada meglio – disse il bretone. Qui staremo benissimo, se mastro Taverna ci manderà tutto questo ben di Dio ogni giorno! Tuttavia preferirei essere a bordo della nostra corvetta.

– Per far che, Testa di Pietra? – chiese il giovane gabbiere. – Il momento non potrebbe essere più terribile. Si tratta della vita del nostro comandante.

– A chi lo dici? A me? Per il borgo di Batz! Non sai che sarei ben lieto di trovarmi al suo posto colla prospettiva di essere impiccato fra breve, pur di trarlo da quella condizione?

– Che cosa pensi di fare?

– Non lo so: ho la testa vuota. Questo colpo mi ha atterrato.

Testa di Pietra aveva fissato i suoi occhi su una bottiglia che portava la famosa marca Medoc. Decapitarla fu l’affare di un istante.

– In fondo a questa troverò la soluzione dell’arduo problema disse poi.

– Va’ a cercarla – rispose il giovane gabbiere. – Questo Medoc lo lascio tutto per te.

– Lo vuoterò fino all’ultima goccia. Guarda, vi è anche Bordeaux e, pare perfino impossibile, una bottiglia di champagne che berrai quando l’avremo calata nel pozzo. Questo vino si deve bere sempre gelato.

Il mastro fece onore a tutto quel ben di Dio. Piccolo Flocco, credette opportuno imitarlo.

Per un momento dimenticarono il loro comandante e la sua fidanzata: ma quando il mastro ebbe bevuto un paio di bicchieri del suo vino preferito ed ebbe accesa la pipa, riprese il discorso.

– L’affare è grave – disse.

– Pare anche a me – rispose Piccolo Flocco.

– E non so trovare una via d’uscita a tutto questo imbroglio. Capisci? Si tratta della vita del nostro comandante.

– Lo sanno anche i sordi a quest’ora. Bevi un altro bicchiere di Medoc.

– Hai ragione.

Il mastro si riempi il bicchiere, lo vuotò lentamente, guardandovi dentro come faceva sempre, poi disse:

– Bisogna aspettare la cameriera.

– È tutta qui la tua trovata? Si direbbe che i bretoni di Batz invecchiano troppo presto.

– Fulmini e vulcani! – gridò il mastro, scaraventando nel pozzo la bottiglia ormai vuota. Hai ragione, Piccolo Flocco. Sei giovane e non hai il cervello fossilizzato; potrai quindi scovare qualche cosa di buono. Alla prova, amico!…

– Credo che faremmo bene a tornare al più presto a bordo della corvetta giacché il passaggio della mina è stato ristabilito.

– E dopo?

– E tornare quassù con un drappello di marinai scelti, per tentare di salvare il comandante.

– In mezzo a dieci o dodicimila uomini? No, ho invece un’altra idea, – disse Testa di Pietra.

– Dilla.

– Impadronirci del carnefice, affinché non impicchi il baronetto e gettarlo in questo pozzo.

– E se invece lo fucilassero, il comandante?

– No, gl’inglesi amano troppo la corda e lo impiccheranno.

– E perché prendere il carnefice?

– Per guadagnare tempo.

– Ne troveranno un altro.

– Non se ne trovano, in una città, due che facciano quel pessimo mestiere. Sparito il carnefice, saranno costretti a rimandare l’esecuzione; e chi sa che intanto la piazza non si arrenda. Sono a corto di viveri gl’inglesi, e credo anche di munizioni: aiuti dall’Inghilterra non ne giungono, quindi saranno obbligati un giorno o l’altro a capitolare, se non vorranno morire di fame.

– Sei furbo.

– Ora solamente te ne accorgi? Sono di Batz io!

– Lo so – rispose il giovane gabbiere un po’ mortificato.

– Dunque andremo a dire due parole al carnefice! Lo porteremo via, e se non vorrà morire annegato, prenderà il nostro posto.

– Riusciremo.

– Rispondo di tutto. Lasciami dormire; così intanto le idee matureranno meglio.

– Credo che per il momento non ci sia niente da fare – rispose il giovane gabbiere. – Con questa frescura dormiremo come ghiri

Si avvolsero nelle due coperte, spensero la candela, e, si addormentarono placidamente. La notte passò tranquillissima, e chi sa quanto i due marinai avrebbero dormito, se qualche ora dopo l’alba la voce di mastro Taverna, non avesse destato l’eco della piccola camera.

Il bretone, fu il primo a balzare in piedi.

– Novità? – chiese.

– Ci sono stati i policemen.

– E che cosa hanno fatto?

– Hanno frugato tutto l’albergo ed hanno fatto vestire il tedesco, finalmente desto – rispose mastro Taverna.

– E la signora?

– Non è stata disturbata, ed è già partita per il castello, promettendomi di ritornar presto.

– Torneranno quei cani di policemen?

– Può darsi; ma potete contare sulla mia fedeltà. Non vi tradirò a nessun prezzo.

– Lo sapevo che eri un brav’uomo – rispose il bretone. – Diversamente non avrei messo i piedi nella sua taverna. Puoi calarci del thè? Fa freddo quaggiù, ed una bevanda calda ci farebbe bene.

– Subito, signore.

Anche Piccolo Flocco si era svegliato.

– Che vogliono arrestare anche noi? – chiese a Testa di Pietra.

– Pare – rispose il bretone. molto preoccupato. – Qui non spira più buon vento per noi, mio giovane amico, e faremo bene ad alzare i talloni al più presto.

– Ma non prima d’aver riveduta la tua Nelly.

La voce del taverniere si fece nuovamente udire. Annunciava il thè.

– Giunge in tempo – disse il mastro; che cominciava ad aver brividi di freddo.

Si avvicinò all’uscita di quello strano rifugio e vide scendere per mezzo di una sagola un bel bricco pieno dell’aromatica bevanda

– Questa è la perla dei tavernieri! – disse Piccolo Flocco. – — Non se ne troverebbe un altro in tutto il mondo.

– Lo credo anch’io – rispose Testa di Pietra slegando lestamente il bricco.

Poi, alzando la voce, gridò:

– Se succede qualche cosa, vieni subito ad avvertirci.

– Si, mio gentleman.

– Conta su una sterlina fiammante.

Non avendo tazze, si servirono dei bicchieri, poco badando che vi fosse qualche residuo di Medoc, e di Bordeaux.

– Avrei preferito un buon caffè – disse Testa di Pietra, quando ebbe vuotato il terzo bicchiere, che doveva essere l’ultimo. – Ed ora, Piccolo Flocco?

– Aspettiamo la tua Nelly.

– Allora cerca il tabacco e fumiamo. Mi annoio enormemente e sai perché?

– Manca l’odore del catrame.

– Precisamente, mio piccolo amico.

Il pacco di tabacco fu subito trovato e i due uomini cominciarono a fumare furiosamente in attesa d’un’altra chiamata.

Non era trascorsa un’ora quando mastro Taverna si mise a gridare.

– La miss! la miss!

– Rimani qui, Piccolo Flocco, – disse il bretone – e lascia sbrigare a me quest’affare.

Afferrò la fune e s’inerpicò rapidamente, ansioso di rivedere la cameriera.

Diana, o meglio Nelly, come si ostinava a chiamarla il bretone, lo aspettava.

– Nel vedere il simpatico marinaio, prima arrossì, poi impallidì esclamando:

– Voi!

– Quante ore d’angoscia mi avete fatte passare, mia dolce Nelly, – disse il bretone. – Non ho chiuso gli occhi un solo momento pensando a voi.

– Vi credo, marinaio, – rispose la miss. – L’amore turba.

– Lasciamo per il momento l’amore, e ditemi che ne hanno fatto dei mio comandante.

– Lo hanno chiuso nella torre del castello d’Oxford – rispose la cameriera.

– Non vi sono altre prigioni in Boston?

– Che ne so io?

– E la vostra padrona?

– Si trova presso il marchese.

– Non è ancora morto quel cane?

– Guarisce anzi rapidamente.

– Per il borgo di Batz! – urlò il bretone. – Tutto va a rotoli! Che cosa si dice nel castello a proposito del baronetto?

La cameriera divenne pallidissima, poi disse con un fil di voce:

– Si dice che sarà impiccato posdomani.

– Da chi? – urlò il bretone.

– Dal carnefice.

– Ve n’è uno dunque in Boston?

– Sì, marinaio.

– Uno solo?

– Uno solo.

– Dove abita, quell’uomo?

– Di fronte al castello, in una vecchia casa dipinta a grandi scacchi rossi, che potreste riconoscere facilmente, perché non se ne trova una seconda in Boston.

– Lo conoscete?

– L’ho veduto due o tre volte impiccare ribelli.

– Che uomo è?

– Un antico galeotto, graziato perché strangoli i condannati

– Robusto?

– Quasi quanto voi.

– Va bene: avrà a che fare con me. Ora mia dolce Nelly, tornate subito al castello, e cercate in qualche modo di avvertire sir William che i suoi due marinai son sempre liberi e che pensano a salvarlo. Andate subito: i policemen potrebbero giungere da un momento all’altro, e non ho desiderio di farmi prendere.

Senza aspettare una parola dal suo merluzzo scavalcò il muricciuolo del pozzo e riguadagnò il suo rifugio.

 

Piccolo Flocco lo aspettava in preda ad una viva ansietà.

– Te lo avevo detto! – esclamò. – Bisogna fare sparire il carnefice.

– Sai almeno dove potremo trovarlo? – chiese il giovane gabbiere.

– So tutto, e basta. Accendi la pipa ed aspettiamo.

– Che cosa?

– Vorresti che andassi a pigliare per il collo un boia in pieno giorno? Il colpo lo faremo stasera. D’altronde, che cosa manca qui? Il tabacco non difetta i salciciotti abbondano insieme col cacio canadese, e le bottiglie non si contano.

Testa di Pietra ruppe un altro pacco di Maryland e si mise a fumare.

Aveva ben altro per il capo, il brav’uomo! Era il comandante che lo preoccupava.

Le ore passavano, e mastro Taverna non si faceva più vivo. Cominciava ad annottare quando Testa di Pietra si decise a fare una salita.

– Vieni anche tu – disse a Piccolo Flocco. – Qualche cosa di grave dev’essere successo nella taverna. O ci prenderanno, o faremo una strage dei policemen. Odio quegli uomini!

S’aggrappò alla fune e salì lestamente fino alla bocca del pozzo.

Piccolo Flocco fu pronto a seguirlo.

– Per il borgo di Batz! – esclamò il mastro. – Non odo nessun rumore: che mastro Taverna sia stato ucciso o portato via?

– Mah! – rispose il giovane gabbiere. – Non sono affatto tranquillo.

– E nemmeno io.

– Tieni pronta la pistola e la sciabola d’abbordaggio.

– Al tuo comando farò fuoco, poi monterò all’abbordaggio.

Essendo aperta la finestra del magazzino, da veri marinai vi saltarono dentro, ma subito sì fermarono.

Quattro guardie stavano in quel momento frugando i due letti, bestemmiando in pessimo inglese. Testa di Pietra fu lesto ad afferrare una pesante sedia.

– Che cosa fate qui? – domandò con voce tuonante. – Chi siete e che cosa desiderate nella mia casa?

I quattro agenti si guardarono l’un l’altro stupefatti, poi uno di loro rispose:

– Chi siete?

– Il padrone della Taverna – rispose audacemente il mastro.

– Voi?

– Io.

– Se l’abbiamo arrestato e già fucilato!

– Chi?

– Il taverniere.

– Perché?

– Era un traditore.

– Ah, canaglie! Sotto, Piccolo Flocco! Accoppiamoli.

Il giovane gabbiere si era pure armato d’una sedia assai pesante.

I due marinai in un baleno si scagliarono come due belve contro i quattro agenti. I colpi si succedevano ai colpi. Bastò un solo minuto perché i quattro disgraziati agenti giacessero a terra pesti dalle tremende seggiolate avute.

Fortunatamente l’Albergo delle trenta corna di bisonte si trovava in una viuzza poco frequentata e battuta, per la sua posizione, da bombe americane, sicché i due marinai poterono sbrigarsela coi quattro agenti senza che alcuno intervenisse.

– Gambe, ora! – disse Testa di Pietra, quando vide i quattro semisvenuti e nell’impossibilità di alzarsi. – Morte agli sbirri!

E scappò lesto come una saetta, seguito dal giovane gabbiere, il quale teneva ancora in mano un pezzo di sedia.

La notte era oscurissima, le vie deserte, le case ben chiuse; e solamente i proiettili americani si facevano sentire.

I due marinai, sempre correndo, giunsero sulla piazza del castello.

Lì presero respiro, e si guardarono l’un l’altro sorridendo.

– Ne abbiamo date, eh? – disse il mastro.

– L’abbiamo scampata bella! – aggiunse Piccolo Flocco. – Mi vedevo già preso, legato e impiccato.

– La vittoria deve sempre rimanere alla marina, diceva la buona anima di mio nonno, e sono fermamente convinto che avesse ragione su tutta la linea.

– L’avranno fucilato davvero, quel povero taverniere?

– Hai creduto, Piccolo Flocco, a quello che hanno detto gli agenti? Fucilare un miserabile taverniere! C’è da ridere. Un tale onore è riservato a pezzi grossi dell’esercito e della marina, che hanno tradito il paese.

– Allora lo avranno impiccato.

– Nemmeno – rispose il bretone. – Lo avranno arrestato, non ti dico di no, ma non s’impicca lì per lì un galantuomo, che non ha preso parte ad alcuna cospirazione.

– E noi, ora, che cosa facciamo?

– Le finestre del carnefice sono illuminate – rispose il bretone. Può dunque riceverci.

– E che cosa vorresti farne di lui, ora che non possiamo più ritornare alla taverna?

– Ti sei scordato della casamatta diroccata nella quale abbiamo cacciato quell’inglese?

– Vorresti portarlo là?

– Per ora sì.

– E con quale pretesto ti presenterai?

– Lascia fare a me – rispose il mastro – Quelli di Batz sono furbi.

18. IL CARNEFICE DI BOSTON

Testa di Pietra si avvicinò risolutamente alla casetta e picchiò rumorosamente con una specie di martello di bronzo.

Al terzo colpo si udì una voce chiedere:

– Chi è?

– Amici! – rispose Testa di Pietra. – Vi prego di aprirmi.

Un passo pesante risuonò sulla scala interna, poi la porta si aprì e comparve un uomo di bassa statura, molto largo di spalle. Aveva il viso quasi interamente coperto da una foltissima barba rossa e teneva in mano una lanterna.

– Chi siete? – chiese, alitando in viso – al bretone uno sgradevole odore di brandy.

– Marinai.

– E che cosa volete da me? – chiese il carnefice, che sembrava molto brillo.

– Proporvi un affare interessante, che potrebbe darvi la fortuna.

A queste parole un amaro sorriso contorse il labbro del carnefice di Boston.

– A me la fortuna! – disse con ironia. – Mi giungerà il giorno che andrò a dormire sotto la fanghiglia.

– Avreste paura a riceverci?

– Anzi! Nessuno mette piede nella mia casa, come se ci regnasse la febbre gialla. Passano mesi senza che veda un volto umano, poiché l’uscire mi è proibito.

– Ora ne vedrete due abbastanza simpatici.

– Vedo – rispose il carnefice, alzando la lanterna e proiettando la luce sui volti dei due marinai. – Venite pure: la solitudine mi annoia.

Chiuse la porta e introdusse i marinai in una stanzetta arredata con un semplice tavolo, con poche sedie sgangherate e molte matasse di corda.

Il carnefice stava certamente per ubriacarsi, perché sulla tavola vi erano due bottiglie che esalavano un acuto odore di brandy.

Il carnefice accostò alla tavola un paio di sedie e portò due bicchieri.

– Posso offrirvi? – chiese.

– Portate pure e versate – rispose il bretone.

Testa di Pietra assaggiò prima il pessimo brandy del boia di Boston, poi chiese:

– È vero che le corde degli impiccati portano fortuna?

– Così si dice; ma la fortuna non l’ho mai saputa trovare con tante corde che ho adoperato. Sono settantatrè, se non m’inganno.

– Settantatrè uomini mandati all’altro mondo? – chiese Testa di Pietra, facendo un gesto di spavento. – Senza dubbio è un bel numero.

– Non dico di no – rispose il carnefice. – Quando il governatore mi scrive d’impiccare quello o quell’altro individuo, devo obbedire per non perdere il pane, e impicco, perché la giustizia ha ormai giudicato.

– Sempre giudicato giustamente?

– Di ciò non mi occupo. Essi condannano, e io impicco.

Il boia di Boston, che era anche il boia di tutti gli Stati americani soggetti all’Inghilterra, empì i tre bicchieri, poi guardando fisso il bretone coi suoi occhi neri, che risaltavano stranamente fra il rosso della barba, gli chiese:

– Ed ora vi domando lo scopo della vostra graziosa visita.

Il bretone stette un momento in silenzio, poi disse:

– Doë.

– Doë! — esclamò il carnefice, facendo un balzo dalla sedia.

– Bretone, è vero?

– Sì, di Burgot.

– Per il borgo di Batz! Siamo quasi fratelli.

– Voi di Batz? – esclamò il boia.

– Sì; mi ero già accorto che eravate un uomo della Terra delle pietre – rispose il mastro. – I bretoni si conoscono assai facilmente dall’accento.

– Di Bazt! – esclamò nuovamente il carnefice, il quale pareva scombussolato. – Siamo fratelli.

– Lo credo, amico.

– Date dell’amico a un boia.

– Forse che non siete un bretone come me?

A queste parole due grosse lacrime spuntarono dagli occhi del carnefice e scesero silenziosamente giù per il viso, perdendosi fra la foltissima barba.

Piccolo Flocco, più sensibile di Testa di Pietra, col dorso della destra si era asciugata, di nascosto, una lagrima.

– Doë — disse il mastro – spiegami come va che un bretone è diventato boia! Ciò mi stupisce, anche perché sei ai servigi degl’lnglesi che sono stati sempre i nostri nemici.

Il carnefice alzò la testa e disse, parlando lentamente:

– Appartenevo anch’io alla gloriosa marina francese ed avevo raggiunto il grado di contromastro cannoniere. Forse oggi sarei uno dei migliori artiglieri della flotta, senza la brutalità di un ufficiale, il quale pareva nutrisse contro di me un odio che non so nemmeno ora spiegarmi… Non bevete?

– Sì, beviamo – rispose Testa di Pietra, – continuate.

Il carnefice si passò una mano sulla fronte madida di sudore e riprese:

– Una sera, mentre ero di guardia a bordo della Bellona, vedendolo, mi passò davanti agli occhi come una nube sanguigna, e il mio coltello di manovra bevette il suo sangue.

– L’uccideste?

– Gli spaccai la gola.

– Faceste benissimo! – rispose Testa di Pietra.

– Se non fossi stato lesto a fuggire e a rimpatriare, mi avrebbero fucilato.

Vuotò il bicchiere che gli stava dinanzi, con una specie di folle rabbia, poi disse:

– Forse sarebbe stato meglio. Non sarei diventato un infame carnefice, un essere disprezzato, che non può lasciare la sua casa se non protetto da una mezza compagnia di granatieri, perché la folla minaccia di lapidarmi.

Si era interrotto per caricare la pipa, che stava presso il bicchiere.

– Avanti, compatriota, – disse Testa di Pietra.

Il carnefice accese la pipa, gettò in aria una nuvola di fumo acre, intensissimo, poi riprese:

– Un destino avverso mi perseguitava. Devo essere nato sotto una sinistra stella. Fuggii in Inghilterra e mi arruolai nella flotta di Re Giorgio. Gli Inglesi avevano allora estremo bisogno di marinai e non badavano né da qual parte provenissero, né chi fossero. Il triste destino mi perseguitò anche sulle navi inglesi, ed una notte di sull’albero di trinchetto dell’Essex, durante la tempesta, gettai in mare un mastro gabbiere. Anche quello mi aveva preso di mira, torturandomi. Fui arrestato e condannato a vent’anni di lavori forzati nelle colonie inglesi. E qui ho accettato il triste compito d’impiccare la gente. Guardate: mentre venivate da me, stavo preparando un laccio destinato a togliere la vita a un gentiluomo inglese.

– Chi? – domandarono ad una voce i due bretoni, balzando in piedi.

– Un certo baronetto Mac Lellan. Ho ricevuto l’avviso oggi.

– Il baronetto Mac Lellan! – urlò Testa di Pietra. – II nostro comandante!

– Che cosa dite?

– Che quel signore che dovrete impiccare è il nostro capitano.

– Capitano d’una nave?

In quell’istesso momento i quattro grossi mortai della corvetta tuonarono con grande fracasso, soffocando le detonazioni di tutte le altre artiglierie.

– Udite questi colpi? – chiese Testa di Pietra.

– Gli orecchi miei sono ancora in buone condizioni – rispose con un sorriso.

– Sono i cannoni della nave di sir Mac Lellan. La sua corvetta ha forzato felicemente il blocco ed ha gettato le àncore nelle acque della Mistica.

– Comprendo, ma non so spiegarmi una cosa.

– Quale?

– Perché mi mandino a giustiziare quel brav’uomo nel forte Johnson.

– Dov’è quel forte?

– Di fronte al porto di Charlestown.

– E dove si trova ora il mio comandante?

– Lo hanno già condotto nel forte, eludendo la sorveglianza degli americani.

– Il nostro comandante non è più qui! – esclamarono ad una voce i due marinai in preda ad un vero sbigottimento.

– Ed andrò al forte per impiccarlo.

– E quando? – chiese Testa di Pietra con estrema ansietà.

– Posdomani mattina: questo è l’ordine che mi è stato comunicato.

– Testa di Pietra – disse il giovane gabbiere – sapresti dirmi perché lo fanno impiccare al forte Johnson, mentre sarebbe così facile farlo qui?

– Perchè non si osa ucciderlo sotto gli occhi della miss. Credi che tutti ignorino che il nostro comandante è stretto parente del marchese d’Halifax?

– Dunque è vero quello che si sussurra al castello? – chiese il boia.

– Che cosa si dice?

– Che il gentiluomo che dovrò impiccare è fratello del marchese d’Halifax.

– Non vi è che una lieve differenza: il marchese è nato in Inghilterra da una donna inglese, il baronetto in Francia da una donna francese.

 

– E quel furfante osa mandarlo sul patibolo?

– Sì, dopo avergli portato via la fidanzata.

– È un’infamia!

– La credo anch’io.

– E perché lo vogliono ammazzare?

– Perché poche sere fa, nella torre del castello, il baronetto, in un duello leale, dette al marchese una stoccata per punirlo di avergli rapita la fidanzata.

Il boia si alzò e andò a prendere una fune.

– Di questa mi servirò per provarmi a impiccare il vostro gentiluomo; provarmi, ho detto, perché son certo di non riuscirvi.

I due marinai avevano guardato con terrore il laccio fatale.

– Mi avete capito bene? – chiese il boia, vedendo che non rispondevano.

Poi, dopo una breve pausa, riprese con voce lenta:

– Quando vogliamo salvare o, meglio, ritardare la morte d’un uomo per ventiquattro o quarant’otto ore, con una lama solidissima tagliamo interamente la fune, sicché il peso dell’impiccato la spezza subito.

– E non lo impiccano? – chiese il mastro.

– No – rispose il boia. – Si riconduce in prigione, in attesa d’un nuovo laccio.

– Parlate sul serio, compatriota?

– Sono un bretone! – rispose il carnefice – Posso avere errato nella mia vita, è vero; ma non sarei capace d’ingannare un uomo che ha bevuto l’aria della Bretagna e che si è riscaldato al suo sole. Sono molti anni che non ritorno laggiù! Da quanto tempo non vedo più i gloriosi colori della grande e generosa Francia! Maledizione eterna sull’uomo che mi rovinò la vita e mi esiliò per sempre dal mio paese!

Il boia si era alzato stringendo i pugni, cogli occhi schizzanti fuoco, la barba arruffata. Fece un gesto terribile, come se volesse abbattere qualcuno, poi scoppiò in un pianto dirotto.

Testa di Pietra, assai commosso, gli si era avvicinato e battendogli familiarmente una spalla gli disse:

– Orsù; dimenticate il passato, compatriota; vi prometto di farvi rivedere la nostra cara Bretagna.

– Ho laggiù mio padre e due sorelle che non vedo da sette anni.

– Li rivedrete; ci penso io. La Francia molto deve al mio comandante, ed una grazia chiesta da lui al re Luigi XVI non sarebbe rifiutata.

Il carnefice si asciugò le lacrime col rovescio delle maniche, poi guardò una vecchia pendola che faceva udire il suo monotono tic tac.

– Le dieci – disse. – Abbiamo tempo.

Poi fissando Testa di Pietra. gli chiese:

– Vorreste lasciare Boston ora che il vostro comandante non si trova più qui?

– Avevamo già divisato di fuggire questa notte.

– Vi faccio una proposta: ho un lasciapassare, ed una scialuppa mi attende alla foce della Mistica per condurmi a Charlestown. Ne volete approfittare? Passerete per i miei aiutanti.

– Ma dobbiamo prima abboccarci col secondo della corvetta. Dobbiamo informarlo di quanto è accaduto e prendere accordi per salvare il baronetto.

– La scialuppa ha l’ordine di attendermi fino alle quattro del mattino – rispose il boia. – Avrete tutto il tempo per rivedere i vostri amici. Non vi domando che un quarto d’ora per preparare il mio laccio. Intanto voi accendete una candela e passate nella stanza attigua per vestirvi di rosso come devono essere gli aiutanti di un boia. Vi sono molti abiti; non avete che da scegliere.

Prese il laccio che aveva poco prima mostrato ai due marinai, lo stese sulla tavola, e con un coltello solidissimo, simile ad un bisturi cominciò uno strano lavoro, che egli solo, marinaio prima e poi carnefice, avrebbe potuto eseguire.

Quando i due marinai della Tuonante, vestiti completamente di rosso come usavano allora i boia inglesi, ricomparvero, il lavoro era già finito.

– È quello il laccio fatale che dovrebbe impiccare il nostro comandante? – chiese Testa di Pietra non senza una certa emozione.

– Si, ma l’ho sventrato così bene in un certo punto, che la fune si spezzerà subito, senza far subire al vostro comandante nemmeno un principio di asfissia.

– E poi come lo salveremo?

– Questo è un affare che riguarda voi. Volete un consiglio?

– Dite pure, compatriota.

– Giacché gli americani ormai sono così forti, possono attaccare domani sera il forte, trucidare la guarnigione e salvare il vostro capitano. Ci saremo noi a proteggerlo, e tre bretoni possono tenere testa a sei inglesi. Vi pare?

– Giustissimo – rispose senza esitare Testa di Pietra.

– Voi due andrete a bordo della vostra nave, e vi abboccherete coi vostri amici; io vi aspetterò nella cala della Morte, dove la scialuppa m’aspetta. Sapete dove si trova?

– Alla foce della Mistica – rispose Testa di Pietra. – La conosco.

– Vogliamo andare?

Tutti si alzarono. Il mastro mosse incontro al carnefice, gli stese la mano e disse:

– Doë! Conto su di voi come se foste un fratello; ma credo utile avvertirti che sono tal uomo, da non lasciare impunito un tradimento, perché i bretoni non sono mai stati traditori.

Due grosse lagrime spuntarono negli occhi del boia.

– Fratello – disse con voce rotta dai singhiozzi – disponi della mia vita.

– Stringi allora la mia mano, giacché siamo nati entrambi nella terra delle pietre e delle teste dure.

– Non oso.

– Metti qui dentro la zampa, per il borgo di Batz! Un tempo sei stato anche tu marinaio. Allunga!

Il boia di Boston ebbe una lunga esitazione, poi stese, non senza un fremito la sua mano.

– Doë – disse il mastro.

– Doë! – rispose il boia.

E la stretta fu data fra i singhiozzi che rompevano il petto dell’antico condannato.

Piccolo Flocco si era asciugato di nascosto un’altra lagrima. Il boia bevve un ultimo bicchiere di brandy, poi disse:

– Possiamo andare.

Prese un biglietto coperto di un grosso bollo di ceralacca, che stava su un tavolino, e se lo cacciò in seno. Testa di Pietra e Piccolo Flocco lo seguirono, dopo di aver acceso le pipe e di essersi armati delle pistole e delle sciabole d’abbordaggio.

I tre uomini s’incamminarono: ma Testa di Pietra condusse la marcia in modo da passare dinanzi all’Albergo delle trenta corna di bisonte.

Il suo stupore fu immenso nello scorgere la taverna illuminata.

– Corpo d’un cane strozzato! – esclamò. – Che vi siano ancora dentro i policemen in piena baldoria? Sono disposto a dar loro una altra pestata, che se la ricorderanno per un po’. A me, Piccolo Flocco!

Aprì impetuosamente la porta si trovò dinanzi a mastro Taverna.

Questi stava seduto malinconicamente dietro al suo banco, in attesa di avventori.

– Sei vivo o sei l’ombra di mastro Taverna? – gridò il mastro, precipitandosi verso il banco.

L’albergatore spalancò più che poté i suoi occhi fenomenali poi allargò le braccia, e mandò un grido altissimo:

– Voi, mio gentleman! In quel costume? Orrore!

– E per chi mi prendi, dunque? – rispose il bretone. – Per un boia? No; sono ancora un marinaio, e se indosso questo costume, ho i miei buoni motivi caro mastro Taverna!… Ma dunque, non è affatto vero che ti abbiano fucilato!

– Mi hanno arrestato, questo è vero, ma mi hanno subito rilasciato.

– Ed i policemen, che hanno occupato durante la tua assenza la taverna?

– So, gentleman, che ne hanno portati via quattro terribilmente feriti, anzi, pestati, ma niente di più. Chi sia stato poi a conciarli in quel modo non lo so davvero.

– Chi? Eh, mastro Taverna, dovresti aver già indovinato. Quando vedemmo che saccheggiavano le tue bottiglie, li prendemmo a seggiolate, e i colpi, amico mio, grandinavano! parevano colpi di cannone! Fracassammo due sedie, che per altro non ti pagheremo.

– Ah, no, no! – protestò mastro Taverna. – Ordinate anzi, e senza pagamento.

– Una bottiglia di Medoc, che desidero offrire al boia di Boston, mio carissimo amico. Ma bada, che se non è proprio della qualità più fina, ti faccio impiccare subito.

L’albergatore aveva fatto tre o quattro passi indietro, con aria smarrita, appoggiandosi al banco. La presenza del boia lo aveva così straordinariamente atterrito, che i suoi grandissimi occhi gli erano quasi usciti dalle orbite.

– Come sei brutto, mastro Taverna! – disse Testa di Pietra. Non fare quegli occhiacci. Tanto ti spaventa il boia di Boston? Hai torto, perché è un mio compatriota, e poi è un uomo che non schiaccerebbe una mosca senza l’ordine del comandante della piazza. Avresti forse sulla tua coscienza un gran numero di delitti!

– Io? – balbettò il pover’uomo.

– Allora portaci il Medoc, perché noi marinai soffriamo sempre la sete.