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I minatori dell' Alaska

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XXVI – IL TRADIMENTO DEI TANANA

L’Yucon è il più grande fiume dell’Alaska, un’arteria immensa che solca in tutta la sua lunghezza la regione, e potrebbe essere d’immensa utilità, se il freddo non lo chiudesse alla navigazione per sette lunghi mesi dell’anno. È ricchissimo di pesci, è fiancheggiato da splendide foreste, ha sulle rive numerose miniere di rame, e si può dire, che tutti gli abitanti dell’Alaska vivono nelle sue vicinanze o presso i suoi affluenti. Il luogo dove erano giunti il signor Falcone e i suoi compagni era pittoresco e assolutamente deserto. Là il fiume formava una specie di insenatura, assai vasta, fiancheggiata da gruppi di salici, betulle nane, pini bianchi e neri, altissimi, con le punte curve verso l’acqua, e da macchie di cornioli, ribes, cespi di rose canine e papaveri che rizzavano i loro bellissimi fiori in mezzo ai muschi. Pochi uccelli si vedevano volare fra i rami: qualche smergo, qualche corvo e una coppia di splendidi galli di montagna. Di selvaggina, fino a quel momento, nessuna traccia. Bennie era sceso da cavallo, e guardava attentamente la riva opposta, lontana circa seicento metri, per vedere se riusciva a scoprire qualche villaggio indiano o qualche canotto

– Per oggi – disse ad Armando che lo interrogava – sosteremo qui e domani riprenderemo la marcia per giungere al forte Scelkirk.

– Siamo, però, assai scarsi di viveri, Bennie. – rispose il giovane. – Le lunghe marce e il freddo che domina ancora in queste regioni, ci fanno consumare presto le provviste!

– Batteremo i dintorni.

– Sperate di uccidere qualche capo di selvaggina ?

– Se non degli orsi o delle alci, almeno dei cigni. Guardate: vedo laggiù parecchi di quei volatili dirigersi verso la riva.

– Andremo a cacciarli?

Il canadese non rispose. I suoi occhi seguivano attentamente il volo dei cigni.

– Armando, – disse a un tratto – gradireste una frittata? – Abbiamo ancora un po’ di grasso che ci servirà da burro.

– Una frittata? E me lo domandate?

– Allora fra poco avrò il piacere di offrirvela.

– Avete scoperto qualche pollaio, amico Bennie?

– Se non sarà un pollaio, saranno dei nidi contenenti delle uova e molto più grosse di quelle delle galline.

– Andiamo a prenderle.

– Seguitemi.

Ordinò a Back di accendere il fuoco, di pulire per bene la padella di ferro, e s’allontanò con Armando. Il cacciatore seguì per qualche tratto la riva dell’Yucon, rimontando la corrente, poi deviò cacciandosi in mezzo ai salici, alle betulle e ai pini che formavano dei boschi piuttosto fitti, interrotti, di quando in quando, da piccoli prati formati da muschi di uno splendido color smeraldo. In mezzo a quelle graziose pianure, le pianticelle artiche erano spuntate in gran numero, essendo la neve sparita già da qualche mese. Si vedevano minuscole aiuole di ranuncoli gialli, di sassifraghe stellate, di papaveri bianchi di un candore alabastrino, di papaveri dorati e praticelli rossi, formati unicamente da sassifraghe. Talvolta, invece, le radure erano coperte da distese di lichene pietroso, tenacissimo, simile ai funghi secchi, o da muschi alti, nerissimi, pregni di umidità e che si staccavano sotto la semplice pressione dei piedi. Bennie e Armando, dopo aver percorso circa un miglio, piegarono bruscamente verso il fiume. Verso la riva si udivano echeggiare fischi acuti, che indicavano la presenza dei cigni.

– Andiamo adagio – disse il canadese. – Oltre la frittata, possiamo guadagnare anche l’arrosto.

– I cigni fuggiranno, Bennie.

– Non sempre Armando. Difendono accanitamente i loro nidi.

– Anche contro gli uomini?

– Talvolta sì. Sono volatili coraggiosi che tengono testa perfino alle aquile bianche, le quali sovente hanno la peggio.

– Pure i cigni non hanno un becco atto a produrre ferite – osservò Armando.

– La loro forza sta nelle ali, armi robuste che percuotono fortemente. Un giorno ho veduto un cigno lanciarsi contro una volpe che cercava di avvicinarsi a un nido per saccheggiarlo, e ucciderla con un solo colpo d’ala. Ehi!… Ci siamo, giovanotto.

Erano giunti al margine della foresta. Procedendo cautamente e tenendosi nascosti dietro gli ultimi tronchi, si avvicinarono alla riva.

Una decina di splendidi cigni stavano facendo la loro toeletta, allineati sulla riva. Sbattevano le ali, si lisciavano le penne, si sbarazzavano dagli insetti, poi si tuffavano in acqua, quindi risalivano a terra tornando a ravviarsi le candide piume. A breve distanza, alcune femmine stavano accovacciate su alcune buche circondate da erbe e da cespi di muschio secco, e pareva fossero occupate a covare le uova. Bennie additò ad Armando i maschi, poi entrambi fecero fuoco. Due cigni caddero; gli altri, spaventati dalle detonazioni, volarono verso il fiume, levandosi a grande altezza. Le femmine si erano alzate di colpo, e invece di prendere il largo, marciarono là dove vedevano ondeggiare il fumo, sbattendo furiosamente le ali e mandando fischi stridenti. Bennie e il canadese uscirono dal loro nascondiglio impugnando i fucili per la canna, decisi ad aggiungere nuove prede a quelle già abbattute. Le povere femmine, vedendo comparire i due cacciatori, rimasero un istante indecise, non volendo abbandonare i loro nidi, poi comprendendo che la loro difesa sarebbe stata inutile, s’alzarono bruscamente, fuggendo verso il fiume. Bennie che teneva ad aumentare le provviste, ricaricò prontamente il fucile e sparò, ma ormai erano troppo lontane.

– Non importa, – disse. – Abbiamo la frittata e l’arrosto.

Si avvicinarono a quelle buche che servivano da nidi ai poveri volatili, e videro che ognuna conteneva sei uova, assai più grosse di quelle dei tacchini, e col guscio bianco verdognolo. Nell’ultima ne trovarono otto.

– Che siano troppo vecchie? – chiese Armando che si era però affrettato a riempirsi le tasche.

– Anzi, sono freschissime, – rispose il canadese. – Non devono avere più di tre o quattro giorni.

Raccolte le uova, si caricarono dei due cigni, e ripartirono verso l’accampamento, ansiosi di prepararsi una frittata colossale. Già non distavano che cinque o seicento passi, quando udirono in direzione del loro campo un sordo rullìo, che pareva prodotto da tamburi. Si arrestarono, entrambi sorpresi, guardandosi in viso con inquietudine.

– Che cosa significa? – si chiese Bennie.

– Che Back abbia costruito qualche tamburo? – disse Armando.

– Lui!… Non ho mai saputo che ami la musica. E poi, per che farne? Temo invece che siano giunti degli indiani.

– Andiamo a vedere che cosa vogliono, Bennie.

Allungarono il passo e giunsero all’accampamento nello stesso momento in cui entravano due indiani, che dalle loro vesti e dalle loro pitture sembravano appartenere a qualche tribù di Tanana. Il signor Falcone e Back erano corsi incontro a quei nuovi venuti, impegnando con loro un’animata conversazione, senza però comprendersi. Bennie si fece innanzi, chiedendo al signor Falcone che cosa desiderassero.

– È impossibile comprenderli – rispose l’interrogato – Sembra che non conoscano l’inglese, salvo qualche parola.

– Forse avrò miglior fortuna – disse Bennie.

Si volse verso i due indiani, chiedendo in una lingua bizzarra, che sembrava formata in parte di parole francesi e inglesi, che cosa volessero. Il vecchio cacciatore conosceva perfettamente lo scinuk, una lingua che è parlata e compresa da tutte le tribù indiane dell’Alaska e dei territori inglesi del nord-ovest, composta di termini indigeni, francesi, e perfino russi, e che viene usata per gli scambi delle pellicce. Uno degli indiani, appena sentì la domanda, rispose prontamente nello stesso idioma:

– Avendo scorto l’accampamento degli uomini bianchi, noi siamo qui venuti per chiedere la loro opera, affinchè guariscano il capo della nostra tribù.

– La tua tribù non ha uno stregone? – chiese Bennie, con malumore.

– Due, ma il più abile è andato molto lontano, e il più giovane non riesce a guarire il capo.

– È stato ferito forse?

– No.

– Che cos’ha?

– È stato invaso dallo spirito maligno.

– Noi non abbiamo relazione con lo spirito maligno, quindi la nostra assistenza non sarebbe di alcun giovamento. Ritorna al tuo campo e manda a cercare il secondo stregone.

L’indiano, invece d’andarsene, incrociò le braccia sul petto, dicendo:

– Io ho ricevuto l’ordine di condurre i bianchi al nostro campo, e me ne andrò solamente quando verranno anche loro.

– Ti dico che noi non conosciamo lo spirito maligno.

– I bianchi sono bravi e sanno fare mille cose meravigliose.

– Ti ripeto di andartene al diavolo e di lasciarci tranquilli.

– Tu non conosci i Tanana, dunque? – chiese l’indiano, assumendo un’aria minacciosa. – La mia tribù è potente e potrebbe far pagare caro il rifiuto degli uomini bianchi.

Bennie conosceva anche troppo i Tanana, essendo stato, nella sua gioventù, cacciatore della compagnia delle pellicce del Nord-Ovest, e sapeva quanto fossero audaci e risoluti. Comprese subito che mai sarebbe riuscito a persuadere quei due testardi dell’assoluta inefficacia dei loro mezzi contro lo spirito maligno, e dopo un breve consiglio con Falcone, decise di seguirli. Sperava con qualche stregoneria di cavarsela e di fare prontamente ritorno sulle rive dell’Yucon. Non volendo però rinunciare alla frittata, pregò i due indiani di aspettare qualche ora, anzi credette opportuno invitarli a colazione. Divorato il pasto, caricarono le casse e la tenda sui cavalli, salirono in arcione e seguirono i due indiani, i quali si dirigevano verso la foresta, battendo una specie di tamburello formato di legno di salice coperto da pelle di renna. Un’ora dopo, il drappello giungeva sulle rive di un largo affluente dell’Yucon, dove si vedevano galleggiare numerosi canotti e anche alcuni baidarri, battelli formati con pelli d’alce o di renna tese su una ossatura di cedro, terminanti con due punte rialzate, che possono portare anche quattro persone. A breve distanza, intorno a una piccola baia, sorgeva il villaggio indiano, formato da una cinquantina di tende di pelle di forma conica, dipinte grossolanamente e di alcune capanne estive coperte di ramoscelli verdi, di strisce di corteccia di betulla e di lembi di pellicce cuciti alla meno peggio. Vedendo comparire i quattro bianchi, l’intera popolazione andò loro incontro danzando e urlando, fra un furioso abbaiare di cani. C’erano anche numerose donne, coperte di pelli tinte a vivaci colori, adorne di collane, di conchigliette e di perle. Alcune portavano i loro bambini chiusi in una specie di seggioletta di corteccia di betulla, comodissime se non avessero avuto sul davanti un pezzo di legno che si alzava fino al ventre dei piccoli per impedire e che le loro gambe prendessero delle forme difettose. Sono accuratamente foderate di soffice muschio, e così leggere che le madri se le appendono al dorso, quando sono in marcia. In testa alla folla veniva lo stregone, un pezzo d’uomo alto quanto un granatiere, di statura eccezionale per i Tanana, che sono di solito piuttosto piccoli. Quell’importante personaggio aveva due pezzi d’osso, lunghi un buon piede, passati fra le cartilagini del naso, che gli davano un aspetto buffo; il viso era pitturato di rosso, gli orecchi di nero, e i capelli di giallo. Indossava una grande pelliccia d’orso bianco di una tinta sulfurea, carica di ornamenti d’ogni specie, tutti amuleti preziosissimi senza dubbio, che dovevano preservare da centomila malattie, prolungare la vita, scacciare lo spirito maligno, mettere in fuga gli animali feroci, fulminare i nemici. Lo stregone avanzò verso gli uomini bianchi e diede loro, a nome dell’intera tribù, il benvenuto tradizionale. I quattro bianchi furono quindi condotti in un’ampia capanna costruita con tronchi di pino, solidissima, che pareva dover essere il magazzino dei cacciatori della tribù, poiché si vedevano disposte all’intorno e inchiodate alle pareti, numerose pelli di orsi grigi e neri, di alci, di renne, di castori, di daini mooses, di raccoon o di orsi lavatori, e non poche di lontre di fiume. Lo stregone con un cenno congedò la tribù, poi seguì gli uomini bianchi, chiudendo la porta. Essendo il locale molto scuro, poiché non aveva finestre, lo stregone andò in un angolo, prese un oggetto non ben definibile, e lo porse a Bennie, invitandolo ad accenderlo. Il canadese non si fece pregare, e coll’acciarino e l’esca diede fuoco a quella specie di candela, che subito si accese spandendo all’intorno una luce molto intensa. Armando e il signor Falcone non avevano potuto trattenere un’esclamazione di meraviglia, nel riconoscere in quella torcia… un pesce, acceso per la coda!… Quegli strani pesci, servono da fiaccole agli abitanti dell’Alaska. Sono chiamati celikon, ossia pesci candela, lunghi trenta o trentadue centimetri, abbastanza rotondi, e hanno la pelle argentea. Sono i pesci più grassi finora conosciuti, e danno un olio superiore a quello che si ricava dalle olive. Si accendono sempre per la coda, e per un paio d’ore forniscono una luce chiara, brillante, che nulla ha da invidiare alle migliori candele. Lo stregone, che era molto amabile, offrì agli uomini bianchi una bottiglia di gin, che aveva di certo ricevuto dai cacciatori del forte Scelkirk, in cambio di qualche pelliccia: poi li informò del pessimo stato in cui si trovava il capo della tribù. Egli aveva cercato in tutti modi di scacciargli lo spirito maligno, senza però riuscirci. Aveva fatto sospendere al palo del villaggio numerosi regali per placare quell’indemoniato spirito, aveva sostenuto con lui lunghe lotte, cercando invano di afferrarlo e di gettarlo nel fuoco; aveva fatto urlare tutta la popolazione per ore intere, aveva cercato di persuadere il capo che ormai era guarito, senza però ottenere nulla. Temendo che la popolazione gli si rivoltasse contro e lo uccidesse, pregava i bianchi di voler tentare di guarire il malato. Ormai tutta la popolazione era certa che sarebbero riusciti, e lui, per primo, non dubitava dell’esito.

 

– Questo stregone è un furbo matricolato, – disse Bennie, rivolgendosi verso i suoi amici. – Per salvare la pelle, cerca di mettere in pericolo la nostra, però vedremo se ci riuscirà.

– Che cosa avete intenzione di fare?… – gli chiese il signor Falcone.

– Ormai non possiamo rifiutarci di visitare l’ammalato. Se non lo facciamo, i Tanana diverrebbero furiosi e prenderebbero le armi. Andiamo a vedere che cos’ha quel dannato tisicuzzo di capo.

Guidati dallo stregone, uscirono dalla capanna, sfilando in mezzo alla popolazione silenziosa, ed entrarono in un’ampia tenda di pelle di alce che si rizzava nel centro del villaggio, guardata da otto indiani armati di lance e di scuri. Di tratto in tratto, quei valorosi si scagliavano in tutte le direzioni, maneggiando le scuri con vigore sovrumano, e mandando urla selvagge, con quanto piacere del povero malato si può immaginare. Così facendo, erano certi di impedire il ritorno dello spirito maligno. Sotto la tenda, steso su un ammasso di pellicce e circondato da un infinito numero di amuleti, consistenti per la maggior parte in collane di conchiglie e di denti d’orso, giaceva il capo. Quel povero diavolo aveva ottant’anni. Era magro, sparuto, coperto di rughe profonde, con la pelle incartapecorita, gli occhi infossati e quasi spenti. Furiosi colpi di tosse, di quando in quando lo assalivano, facendolo balzare sul suo letto di pelli.

– Che cosa ne dite? – chiese Bennie, volgendosi verso il signor Falcone, che si era curvato sul malato.

– Che quest’uomo è finito – rispose l’italiano. – È vecchio come Noè, e s’è buscata una polmonite che lo manderà diritto all’altro mondo.

– Non c’è speranza di rimetterlo in gambe, almeno per ventiquattro ore, il tempo sufficiente per andarcene?…

– Nessuna, Bennie; domani quest’uomo sarà morto, e forse prima che tramonti il sole.

– Briccone di un mago!… E crede che noi mettiamo le mani su questo moribondo, per poi gettare su di noi la responsabilità. Eh!… mio caro volpone, non siamo così sciocchi.

Si volse verso le stregone che lo osservava con ansietà, dicendogli:

– Il capo sta assai male.

– Lo so, uomo bianco, ma tu lo guarirai.

– Sì, però mi occorre una medicina potente, che io qui non possiedo.

– E dove si può trovare?

– Al forte Scelkirk.

– È lontano – disse lo stregone.

– Con i nostri cavalli che corrono come il vento, possiamo arrivarci in sole quattro ore.

– È impossibile!…

– Tu non conosci le nostre bestie.

– È vero.

– Lasciaci andare al forte Scelkirk, e io rispondo della vita del capo.

– E se non torni più?… Non si potrebbe mandare alcuni dei nostri uomini?…

– Il comandante del forte non darebbe loro la medicina che mi occorre e poi non sanno montare i nostri animali.

– Manda uno dei tuoi compagni – disse lo stregone, il quale diffidava.

– È necessaria la presenza di tutti noi o il comandante non ci darà nulla. Suvvia, o lasciarci andare al forte, o il capo muore.

– Lasciate che venga con voi.

– Nessuno te lo impedisce.

– Allora partiamo.

– Si, partiamo, – mormorò l’astuto canadese, sorridendo. – aspetta che siamo un po’ lontani dal villaggio e vedrai che capitombolo ti farò fare, briccone. Sarà un vero miracolo se non ti romperai il collo.

Erano appena usciti e stavano dirigendosi verso la capanna per prendere le loro coperte e le provviste che avevano depositate, quando videro irrompere nel villaggio cinque indiani armati di lance, di scuri e di fiocine. Donne e guerrieri del villaggio li seguivano gridando, piangendo e percuotendosi il corpo coi pugni. Parevano tutti in preda a una violenta disperazione.

– Che cosa succede? – chiese il signor Falcone a Bennie, il quale si era fermato.

– Ma… non so… pare che sia morto qualche stregone.

– Quello famoso forse, che era partito per un viaggio verso il sud.

A un tratto vide quei cinque uomini avventarsi furiosamente verso Armando, afferrandolo brutalmente per le braccia e minacciandolo con le scuri e con le fiocine. Poi uno di quegli indemoniati si volse verso la popolazione, gridando con voce strozzata per l’ira:

– Ecco l’uccisore dello stregone!

– Corna di bisonte!… – esclamò Bennie, impallidendo – Che brutta frittata!

Poi, prima che i suoi compagni potessero comprendere di che cosa si trattava e prima che la popolazione si precipitasse su di lui, si gettò contro quei cinque guerrieri tempestandoli di botte e mandandoli, a gambe levate, prontamente aiutato da Back.

– Venite!… – gridò, lanciandosi verso la capanna. – Venite o siete perduti!…

XXVII – LA FUGA

Il canadese aveva compreso il gravissimo pericolo che stava per piombare addosso a loro. Non era necessario avere troppo buona memoria per ricordarsi dello stregone che Armando aveva mitragliato presso l’alce, per difendersi da morte certa. Il caso aveva voluto che i compagni del morto comparissero proprio nel momento in cui gli uomini bianchi stavano per ingannare il secondo stregone e fuggirsene al forte Scelkirk. Anche Armando aveva riconosciuto in quei cinque guerrieri i compagni del prepotente mago e gran sacerdote della tribù e si era lanciato dietro a Bennie, trascinando con sè suo zio. Back, vedendo che tutti fuggivano, aveva stimato prudente seguirli più che in fretta. Gli indiani non s’erano ancora rimessi dal loro stupore, che già i minatori si trovavano nella grande capanna o meglio nel magazzino delle pellicce, con le armi in mano, pronti ad impegnare la lotta dentro quella specie di fortino di tronchi d’albero. I Tanana erano rimasti dapprima indecisi, poi erano entrati nelle loro tende per armarsi e si erano precipitati verso il magazzino, ululando come una banda di lupi e agitando minacciosamente le loro lance e le loro pesanti scuri. Lo stregone, diventato di punto in bianco il più feroce nemico degli uomini bianchi, perché nella loro morte vedeva ormai la propria salvezza, non essendo difficile scagliare su di loro l’accusa di aver cacciato in corpo al capo moribondo lo spirito maligno, guidava l’orda furibonda.

– Corna di bisonte!… – esclamò il canadese, che si era affacciato alla porta. – Non so chi mi tenga dal mandare a casa del diavolo quel furfante di stregone!… Sarà però ben bravo se più tardi salverà la sua pellaccia!…

– Mi sembra però, che la faccenda assuma una pessima piega, – disse il signor Falcone. – Sono almeno in cento!

– E noi abbiamo quattro o cinquecento cartucce – rispose Bennie. – Se credono di prenderci, si ingannano, è vero Armando?

– Sono pronto ad aprire il fuoco, – disse il giovanotto

– Aspettiamo.

– Che cosa?

– Forse diventeranno più ragionevoli. Ah!… Ecco quel furfante di stregone che avanza solo! Se desidera parlamentare, sia il benvenuto, per ora.

Lo stregone aveva trattenuto lo slancio dei Tanana e si era diretto verso la capanna, accennando a voler parlare. Bennie si mise la rivoltella nella cintura, impugnò il fucile e uscì, mentre i suoi compagni dirigevano le armi contro il grosso della banda, per impedire qualsiasi sorpresa

– L’uomo bianco mi ascolti, – disse lo stregone

– Sono tutto orecchi – rispose Bennie.

– Un grave delitto è stato commesso da parte di uno dei tuoi compagni, il più giovane.

– E così?

– Il giovane uomo bianco ha ucciso il grande stregone della tribù.

– Lo so, ma sai tu perché lo ha ucciso? Ignori che lo stregone tuo fratello voleva uccidere il giovane uomo bianco, perché non voleva cedergli un’alce che non apparteneva ai Tanana?

– Io non lo so.

– Allora te le dico io.

– Sarà come dici tu, però il giovane uomo bianco, avendo ucciso uno stregone, deve morire.

– E tu credi che noi siamo così sciocchi da lasciare che i tuoi uomini lo uccidano? Il giovane uomo bianco ha ucciso lo stregone per difendersi e se tu e i tuoi vorrete vendicare quel furfante, sappiate che noi ci opporremo a colpi di fucile. Ho detto!… Riferisci la mia risposta ai Tanana.

– L’uomo bianco parla come un fanciullo.

– No, come un vecchio cacciatore abituato alle battaglie contro gli indiani.

– Noi siamo molti.

– E noi pochi, ma decisi e armati di fucili.

– Tu dunque vuoi la guerra?

– Non è la lotta che noi cerchiamo; non desideriamo che andarcene.

– È impossibile, però…

– Ah!… – disse Bennie, ironicamente.

– Si può evitare uno spargimento di sangue.

– Insegnami il modo.

– Guarite il nostro capo e noi vi lasceremo andare senza toccarvi un capello.

 

– Amico mio, devo dirti che il tuo capo è un uomo e che non lo guarirebbero tutte le medicine del mondo. Che cosa vuoi? È vecchio come manitou, come il Grande Spirito, e poi ha i polmoni in disordine.

– Tu però mi avevi detto che al forte Scelkirk c’era una medicina che lo avrebbe guarito. Forse che l’uomo bianco voleva ingannarmi?

– Niente affatto; volevo semplicemente torcerti il collo.

– Che cosa vuol dire l’uomo bianco?… – chiese lo stregone, a denti stretti.

– Che tu sei un furfante peggiore dell’altro e che se non ci farai liberare più che presto, ti manderò a raggiungere il tuo compare. Orsù, vattene o ti pianto una palla nel tuo cranio di orso grigio.

Lo stregone, che teneva alla pelle e non ignorava la potenza delle armi da fuoco, girò sui talloni e raggiunse i Tanana, per informarli del cattivo risultato di quel colloquio. Gli indiani, apprendendo le risposte dell’uomo bianco, parvero diventare furiosi. Urlavano come lupi affamati e saltavano in tutte le direzioni per eccitarsi al combattimento. Quando si credettero abbastanza inferociti, i più audaci si precipitarono verso la capanna. I bianchi, non volendo essere i primi a cominciare le ostilità, fecero una scarica in aria. Udendo quegli spari, gli indiani arrestarono il loro slancio, poi sentendo fischiare le palle sopra le loro teste, se la diedero a gambe, sgombrando precipitosamente la piazza.

– Non mi sembrano molto coraggiosi – disse Armando.

– Non ditelo così presto – rispose Bennie. – I Tanana godono fama di essere audaci e lo sanno i russi, i quali furono costretti a subire molti combattimenti riportando gravissime perdite.

– Io temo che abbiano modificato il loro piano.

– Volete dire?…

– Che si siano decisi di assediarci.

– Lo credete?…

– Guardate quei furfanti!… Si sono nascosti dietro le tende e non ci perdono di vista.

– Se tentassimo una sortita?…

– Non la consiglierei giovanotto. Sono più di cento e se si gettassero tutti addosso a noi, non avremmo certo la vittoria.

– Che cosa volete fare? – chiese il signor Falcone.

– Attendere la notte e uscire di sorpresa.

– Mi affido interamente a voi, Bennie.

– E poi, ho un certo progetto che mi frulla per il capo, – aggiunse il canadese, guardando l’ammasso di pelli che ingombravano la capanna.

– Quale?…

– Ve lo dirò più tardi, signor Falcone. Lasciamo che i Tanana ci sorveglino pure.

Chiusero la porta, assicurandola internamente con grosse pertiche che avevano trovate nella capanna, vi accumularono dietro degli ammassi di pelli ed apersero due fori per passarvi i fucili e sorvegliare i Tanana. Avendo trovato in un angolo una grossa provvista di pesci candela, ne accesero parecchi, per non rimanere all’oscuro. Avevano appena terminato quei preparativi e stavano cercando il modo di accendere anche un po’ di fuoco per allestire la cena, avendo con loro delle provviste, quando al di fuori udirono urla assordanti. Credendo che gli indiani cominciassero l’attacco, si precipitarono verso i due fori e si convinsero che si trattava di ben altro. Tutto quel pandemonio era causato dallo stregone. Egli stava facendo un ultimo tentativo per scacciare lo spirito maligno che aveva invaso il povero capo della tribù. Straordinari preparativi erano stati fatti a tale scopo. Sulla piazza, dinanzi alla tenda dell’ammalato, erano stati accesi quattro falò giganteschi per gettarvi sopra quell’ostinato spirito maligno e bruciarlo ed erano stati rizzati dei pali, ornati di stracci di tutte le tinte e di monili di conchiglie, perline di vetro, denti di orso grigio, di lupo, di volpe, e corna d’alce e di renna. Il capo già era stato portato in mezzo ai quattro fuochi e adagiato su una grande pelle d’alce. Pareva proprio agli estremi e tossiva convulsamente, in modo tale da squarciarsi i polmoni. Gli indiani avevano formato un ampio circolo e avevano intonato un coro a voce bassa, senza dubbio qualche invocazione. Lo stregone, collocatosi presso il malato, pareva spiasse il momento opportuno per cominciare la lotta contro lo spirito maligno. Per la circostanza aveva indossato una nuova pelle d’orso grigio, col pelo chiazzato di rosso, nero e azzurro e si era appeso al collo, alle braccia ed alle gambe un numero infinito di amuleti portentosi. Attese che gli indiani finissero il coro, poi si curvò sul malato e parve afferrare qualcosa, quindi si mise a spiccare salti indiavolati, agitando pazzamente le braccia, vibrando colpi e calci in ogni direzione. Il brav’uomo aveva afferrato lo spirito maligno, però questi gli era fuggito di mano e doveva ronzare attorno al malato per ripiombargli nuovamente addosso. Fortunatamente il mago vegliava e lo vedeva. Una lotta disperata si impegnò allora fra il mago e l’invisibile spirito. Quel buffone fingeva di stringerlo fra le braccia, di tempestarlo di pugni e di calci e di trascinarlo verso il fuoco per bruciarlo. Le sue forze non dovevano però bastare in quella faticosa lotta, poiché tutto d’ur tratto lo si vide correre come un indemoniato, manifestando il più profondo spavento. Il poveretto era stato invaso dallo spirito maligno che egli aveva saputo estrarre, con tanta arte, dal petto del capo moribondo. Per sbarazzarsene saltava, sbuffava, urlava, digrignava i denti, si gettava a terra rotolandosi nel fango come un maiale e aveva la spuma alla bocca, mentre gli occhi parevano volergli uscire dalle orbite. Gli indiani, intanto, avevano intonato il loro coro, alzando gradatamente la voce e si erano messi a correre in circolo, saltando e ballando come una banda di pazzi. Tutto quel pandemonio finalmente cessò. Il mago era riuscito a sbarazzarsi dallo spirito maligno e a gettarlo sul fuoco. Un immenso urlo avvertì i prigionieri che la vittoria ormai era assicurata e che il capo doveva essere guarito. Due indiani, certamente due dignitari, si avvicinarono al capo e presolo sotto le ascelle lo sollevarono, invitandolo a camminare e assicurandolo che era perfettamente sano. Il povero uomo, quantunque avesse una illimitata fiducia nello stregone della tribù, si provò a tare qualche passo, poi tutto d’un tratto lo si vide vacillare, quindi stramazzare pesantemente al suolo, rimanendo immobile. Era morto!…

Gli indiani, atterriti, si misero a urlare, mentre lo stregone, prevedendo una grossa burrasca, fuggiva a tutta velocità, abbandonando, e forse per sempre, il morto e anche i vivi.

– Ah!… Il furfante!.... – esclamò Bennie. – Cerca di salvare la sua pelle:… Se ti trovo, ti caccerò io in corpo lo spirito maligno!....

– Che cosa succederà, ora? – chiese il signor Falcone.

– Seppelliranno il morto e nomineranno un altro capo – rispose il canadese.

– E noi?

– Saremo più sorvegliati che mai.

– Che colpa abbiamo noi della morte del capo?

– Chi andrà a togliere dal cervello di quegli indiani il sospetto che siamo stati noi a far morire il loro capo?… Sono capaci di accusarci anche di questo, per sacrificarci sulla sua tomba.

– Forse che uccidono degli uomini sulla tomba dei capi? – chiese Armando.

– Talvolta sì. Gli indiani delle isole, specialmente quelli di Khutsnoo, usano uccidere alcuni schiavi e delle vecchie donne, perché tengano compagnia ai loro capi nel lungo viaggio dell’altro mondo.

– Che debba proprio toccare a noi simile sorte?

– Non abbiate questo timore, Armando, – disse Bennie, con un risolino misterioso. – Questa sera, quando faranno i funerali al capo, preparerò loro una brutta sorpresa. C’è però una cosa che mi preoccupa.

– E quale?

– Sapete dove hanno messi i nostri cavalli?

– Lo so io – disse Back. – Sono stati rinchiusi in un recinto che si trova all’estremità del villaggio.

– Benissimo. Prepariamoci la cena e non occupiamoci per ora degli indiani.

Non essendoci della legna, Bennie e Back si provvidero di pesci candela, ne ammucchiarono parecchi in mezzo alla capanna, improvvisarono una graticola con alcuni pezzi di ferro trovati in un angolo e misero ad arrostire un bel pezzo di cigno. Avrebbero preferito cucinarlo nella pentola, però mancavano d’acqua. Dovettero rinunciare al brodo. Mentre si occupavano della cucina, il signor Falcone e Armando vegliavano dietro i due fori. Gli indiani avevano fatto in tutta fretta i preparativi per il funerale, d’altronde semplicissimi. Rizzato dinanzi alla tenda del morto un grande albero, dipinto a vivaci colori, vi avevano appeso ghirlande di perle, pelli di lupo, di lontre, di martore o di ghiottoni, dei coltelli, delle scuri e dei vestiti da dividersi fra i parenti del capo e i più cospicui personaggi della tribù. In mezzo alla piazza avevano poi collocato il feretro, una specie di canotto di corteccia di betulla, capace di contenere il cadavere e le armi che aveva usate e che poi si doveva trasportare nella vicina foresta e sospendere a due metri da terra, su quattro piuoli. Numerosi fuochi erano stati accesi. Avevano messo ad arrostire interi quarti d’orso, e un gran numero di grossi pesci, i quali dovevano servire per gli invitati, poiché quei popoli mangiano a crepapelle prima di condurre i morti alla loro ultima dimora. Già le tenebre cominciavano a calare e gli indiani si preparavano a radunarsi, urlando e saltando, quando Bennie chiamò i suoi compagni, dicendo: