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I minatori dell' Alaska

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– Bisogna approfittare del momento, se vogliamo prendere il largo.

– Che cosa avete intenzione di fare? – chiese il signor Falcone.

– Preparare una mascherata che farà rizzare i capelli ai Tanana.

Il signor Falcone e Armando guardarono il canadese con stupore, mentre Back, che doveva ormai aver compreso di che cosa si trattava, si metteva a ridere.

– Non vi comprendo, Bennie, – disse il signor Falcone.

– Seguitemi, – rispose il canadese.

Si diresse verso un angolo della capanna, dove si trovava un ammasso gigantesco di pellicce e dopo averlo rovesciato, prese quattro pelli d’orso grigio, di taglia enorme e conservate con grande cura. Ne levò una, si accomodò per bene la testa in modo da coprirvisi il viso, si infagottò nella pelle, poi si gettò al suolo mettendosi a galoppare con i piedi e con le mani.

– Ditemi, signor Falcone, – disse. – Non vi sembro un orso?

– Sì, Bennie. Un po’ basso, a dire il vero, però potete passare per un grizzly.

– Specialmente di notte – aggiunse Back.

– Ebbene, signori miei vi assicuro, la mascherata produrrà un effetto superbo.

– Volete spaventare i Tanana?

– Spaventarli!… Li metteremo in fuga, signore. Chi potrebbe resistere all’improvviso attacco di quattro orsi?

– Specialmente se appoggiati da colpi di fucile – aggiunse Back.

Il signor Falcone e Armando non poterono frenare una risata.

– Suvvia, non perdiamo tempo, – proseguì il canadese. – Gli indiani per il momento non si occupano di noi, e abbiamo ancora da lavorare. Bisogna, innanzi tutto, aprire un passaggio dietro la capanna, non essendo prudente uscire dalla porta.

– Siamo ai vostri ordini – disse il signor Falcone.

Bennie, prima di mettersi al lavoro, andò ad osservare gli indiani. Pareva che questi si fossero dimenticati dei prigionieri, poiché si erano tutti radunati sulla piazza, uomini, donne e bambini, urlando e danzando attorno al feretro del capo. Il momento per agire non poteva essere più opportuno. Il canadese, aiutato da Armando e da Back, adoperando il suo bowie-knife, riuscì a strappare un palo, poi un secondo, quindi un terzo, ottenendo un passaggio sufficiente per tutti. Si gettarono a tracolla i fucili, dopo averli ricaricati con nuove cartucce, per essere sicuri dei loro colpi, si avvolsero nelle pellicce dei grizzly, accomodandosele indosso meglio che poterono affinchè l’illusione fosse più perfetta, poi uscirono attraverso l’apertura. In quel momento i Tanana urlavano come ossessi, e danzavano vertiginosamente attorno al feretro del capo, mentre sui falò le carni crepitavano e arrostivano. I quattro orsi fecero il giro della capanna, poi giunti vicino a alcune macchie di ribes che crescevano a breve distanza, si alzarono in piedi, cercando di imitare le rauche urla di quei terribili plantigradi.

XXVIII – L’INSEGUIMENTO DEI TANANA

Gli indiani, occupati a danzare e a urlare, dapprima non si accorsero della presenza di quei quattro animali, quando però questi comparvero nel campo illuminato dai falò, un grido di terrore si fece udire. Uomini, donne e fanciulli, in preda a uno spavento impossibile a descriversi, si riversarono all’impazzata attraverso le tende, abbattendole, poi si dispersero in tutte le direzioni, urtandosi, atterrandosi e calpestandosi, senza più occuparsi nè del morto, nè delle carni che terminavano di abbrustolirsi. Nessuno aveva pensato di afferrare le armi, tanta era stata la paura che li aveva invasi, alla vista dei quattro mostruosi animali. Bennie e i suoi compagni, rimasti padroni del campo, si diressero verso il recinto dei cavalli, che si trovava a breve distanza. Sbarazzarsi delle pelli, caricare le casse sugli animali, e salire in arcione, fu l’affare di pochi minuti. Stavano per partire, quando videro i Tanana ritornare a corsa sfrenata, urlando e imprecando. Accortisi dell’inganno, erano corsi ad armarsi, e ora si preparavano a dare addosso ai fuggiaschi, furiosi di essere stati così ingenuamente giocati. Tre o quattro dei più veloci s’avventarono contro il canadese, alzando contro di lui le fiocine, mentre un altro gli afferrava le briglie del cavallo. Bennie non esitò. Comprendendo che il ritardo di un solo mezzo minuto avrebbe potuto costare la vita a sè e ai suoi compagni, levò rapidamente la rivoltella e la scaricò contro gli assalitori, mentre obbligava il cavallo ad impennarsi. Due indiani caddero, morti o feriti. Gli altri si scostarono precipitosamente, ripiegando sul grosso della banda.

– Al galoppo!… – urlò il canadese, bruciando la sua ultima cartuccia.

I cavalli, punzecchiati con i coltelli, partirono ventre a terra, nitrendo dolorosamente. I Tanana, non per questo rinunciarono all’inseguimento. Essendo tutti gli indiani veloci corridori, si lanciarono animosamente dietro ai cavalli, raddoppiando le urla e le minacce. Bennie e i suoi compagni, certi della velocità dei loro corsieri, non si preoccupavano. Però, volendo spaventare quegli ostinati inseguitori, di quando in quando si volgevano per sparare qualche colpo di fucile, a casaccio, essendo ormai l’oscurità molto fitta. I cavalli, spinti al galoppo, in pochi minuti giunsero alla foresta, e vi si inoltrarono, filando come meteore fra i giganteschi tronchi dei pini e degli abeti, i quali, fortunatamente, permettevano agevolmente il passaggio. Le grida dei Tanana, a poco a poco, diventavano sempre più fioche. Le loro gambe, per quanto robuste ed agili, non potevano certamente gareggiare con quelle dei mustani di prateria. Dopo mezz’ora di galoppo furioso, le urla degli inseguitori non si udivano più.

– Saranno tornati indietro – disse il canadese, moderando la corsa del suo cavallo, per accordare un po’ di respiro alla povera bestia.

– Il diavolo se li porti tutti nell’Yucon, assieme all’anima di quel vecchio catarroso. Pezzi di canaglie! Credevano di aver a che fare con dei novellini o con dei polli?

– Dove ci dirigiamo, Bennie? – chiese il signor Falcone.

– Sempre verso nord, per ora. Quando saremo giunti sulle rive dell’Yucon, piegheremo a ovest per arrivare al forte.

– Non avremo più molestie da parte dei Tanana?

– Non credo. Saranno tornati per seppellire il capo e prendere parte al banchetto funebre.

– Ci fermeremo questa notte?

– Sarà necessario, signore. I nostri cavalli non potranno resistere molto, e poi, con questa oscurità, rischieremmo di precipitare in qualche palude. Rallentiamo un po’ la corsa e continuiamo a fuggire per frapporre una buona distanza fra noi e il villaggio dei Tanana.

Accordato un po’ di riposo agli animali, dieci minuti dopo ripartirono al piccolo trotto, inoltrandosi sempre più nella foresta. Quella seconda corsa durò un’ora, poi fu interrotta dall’incontro di un largo corso d’acqua che correva da sud a nord-ovest, certamente un affluente dell’Yucon. Non osando avventurarsi su quelle acque che correvano rapidissime, formando qua e là numerosi gorghi, i fuggiaschi decisero di sostare per attendere l’alba. Forse esisteva qualche guado o qualche passaggio, ma con quell’oscurità non era possibile scoprire nè l’uno nè l’altro. Scesero d’arcione senza però liberare i cavalli dalle selle e dalle casse, per essere pronti a ripartire in caso di un nuovo attacco e, tese al suolo le coperte, si sdraiarono l’uno accanto all’altro per tenersi più caldi, essendo la notte piuttosto fredda. Avrebbero desiderato accendere un bel fuoco, abbondando in quel luogo la legna resinosa però non ritennero prudente farlo, per non attirare l’attenzione dei loro nemici, qualora qualcuno di loro avesse continuato l’inseguimento. Quella notte, passata sotto la cupa ombra di alberi giganti, senza fuoco e con un freddo che diventava sempre più intenso, fu tutt’altro che piacevole. Specialmente Back, non ancora abituato a quel clima, si lamentò molte volte e battè i denti senza interruzione. Quando cominciò a spuntare l’alba, Bennie, aiutato da Armando, accese un po’ di fuoco per preparare un po’ di thè caldissimo. Già la deliziosa bevanda era pronta, quando i cavalli si misero a nitrire e a scalpitare, dando segni d’inquietudine. Il canadese, sapendo che i mustani di prateria sentono da lontano l’avvicinarsi del nemico, sia uomo o animale, s’alzò prontamente lanciando uno sguardo sospettoso fra gli alberi.

– Che cosa avete, Bennie? – — chiese Armando.

– I mustani hanno fiutato l’avvicinarsi di un nemico.

– Che ci sia qualche orso in questi dintorni?

– O i Tanana?

– Gli indiani, qui?

– Possono aver seguite le nostre tracce, Armando. Servite il thè, e non occupatevi di me, per ora.

Prese il fucile e si cacciò sotto gli alberi. Una nebbia piuttosto densa si era accumulata nella foresta. ondeggiando in mezzo ai grossi tronchi e ai rami, però il canadese non era uomo da smarrirsi. Si diresse verso sud a passi rapidi, poi si dileguò fra i vapori. Armando, il messicano e il signor Falcone, bevuto frettolosamente il thè, visitarono le bardature dei cavalli, assicurarono per bene le casse, poi si tennero pronti a balzare in sella. L’assenza del canadese non durò che dieci minuti. I suoi compagni lo videro tornare correndo, col fucile in mano e il viso sconvolto.

– Presto in arcione! – disse.

– I Tanana? – chiese il signor Falcone.

– Stanno proprio per arrivare.

I quattro uomini balzarono in sella, poi partirono al galoppo, seguiti dal quinto cavallo, che portava la grande cassa. In pochi minuti giunsero sulle rive del fiume. Là si accorsero che non era possibile affrontare la corrente, essendo questa molto rapida e interrotta da gorghi pericolosi, probabilmente profondissimi.

– Seguiamo la riva, – disse Bennie. – In qualche luogo troveremo certamente un passaggio.

I cavalli, vivamente eccitati, piegarono a sinistra, raddoppiando la corsa. La riva, però, diventava sempre più aspra, elevandosi continuamente. Il fiume si restringeva, precipitandosi impetuosamente fra due pareti rocciose, tagliate quasi a picco. Là non si trovavano certamente dei guadi, e tanto meno dei passaggi. Bennie cominciava a diventare inquieto, vedendo che la speranza di porre il fiume tra sè e gli indiani, sempre più si dileguava.

 

– Saremo costretti a continuare la corsa fino all’Yucon? – si chiedeva. – Se avessimo dei buoni cavalli e non tanto carichi, la cosa non presenterebbe alcun pericolo: disgraziatamente i nostri animali sono stanchissimi.

Temendo di veder sbucare da un momento all’altro i Tanana, si volgeva di frequente, però fino a quel momento gli indiani non erano ancora apparsi. Galoppavano ormai da una mezz’ora, seguendo sempre la riva, diventata ormai altissima, quando, aguzzando lo sguardo, il canadese scorse una sottile linea nera gettata sopra il fiume.

– Che ci sia un ponte? – si chiese. – Che fortuna per noi, se non m’ingannassi!

– Bennie, – disse in quell’istante Armando. – Vedo qualche cosa fra le due rive.

– L’ho notato – rispose il canadese. – Se deve…

La frase gli fu troncata da un urlìo assordante, che era scoppiato verso l’alto corso del fiume. I fuggiaschi si volsero e videro una banda di Tanana correre lungo la riva, agitando minacciosamente le scuri e le lance. Gli indiani, usciti dalla foresta, avevano scorto i fuggiaschi, e si preparavano a inseguirli animosamente per impedire loro il passaggio del fiume. Fortunatamente erano ancora lontani, mentre la linea nera che attraversava il fiume non distava più di poche diecine di metri.

– Un ultimo sforzo! – gridò Bennie.

I cavalli, percossi e punzecchiati con i coltelli, ripartirono con nuova lena, sbuffando e nitrendo. Un passaggio era stato gettato attraverso il fiume. Non si trattava di un vero ponte, ma di tre lunghi tronchi di giovani pini, situati l’uno accanto all’altro e privi di parapetto.

Far passare i cavalli su quel pontile, non doveva essere un’impresa facile, però non era il momento di esitare.

– Quando saremo giunti sulla riva opposta, taglieremo i tronchi – disse Bennie. – Avanti, uno sforzo ancora, e saremo salvi.

I cavalli salirono la riva al galoppo, e s’arrestarono, ansanti, sudati e coperti di schiuma, presso il ponte. I cavalieri scesero di sella, poi Back per primo afferrò strettamente le briglie del mustano che portava la grande cassa, e si avventurò risolutamente su quei tre tronchi di pino che parevano già semifradici. L’animale, vedendo scorrere sotto l’acqua che turbinava e spumeggiava, dapprima arretrò nitrendo di spavento, poi udendo la voce del padrone, si spinse innanzi, tremando e scuotendo pazzamente la testa. I tronchi oscillavano e crepitavano sotto il peso dell’uomo e dell’animale, minacciando di spezzarsi e di rovesciare gli audaci che passavano sopra. Inoltre, l’umidità li aveva resi viscidi, e faceva scivolare il mustano. Quella prima traversata, tuttavia, si compì felicemente, senza che accadessero disgrazie. Back tornò indietro, e anche il secondo cavallo passò, poi gli altri, guidati da Armando e da Falcone. Bennie era rimasto ultimo per far fronte agli indiani. Costoro, vedendo sfuggire la preda, raddoppiarono la corsa e le urla. Già non distavano che centocinquanta metri, quando il canadese si decise a lanciarsi sul ponte.

– Preparatevi a tagliarlo, – gridò ad Armando, che si era già armato di una scure.

Procedendo lestamente il canadese era già giunto a metà del ponte, quando udì dietro di sè un grido, poi una voce ben nota che diceva:

– Muori, cane!…

Si volse rapidamente, e vide un uomo slanciarsi giù da una roccia, tenendo in pugno una scure.

Lo riconobbero subito: era lo stregone della tribù!…

– Uccidetelo!… – urlò, mentre cercava di affrettare il passo.

Prima che Back e il signor Falcone avessero il tempo di afferrare le armi, risuonò un colpo secco e il ponte traballò spaventosamente. Bennie si era lasciato cadere, stringendo con suprema energia i tronchi di pino.

– Uccidetelo!.. – ripetè, chiudendo gli occhi.

Un secondo colpo risuonò seguito da uno schianto, ed il ponte, troncato da una furiosa mazzata, precipitò nell’acqua, assieme al disgraziato canadese. Nello stesso istante echeggiarono due spari. Lo stregone non ebbe il tempo di vedere il suo avversario piombare fra i gorghi del fiume. Colpito dalle due palle, s’alzò di scatto, aprì le braccia, lasciando cadere la scure, poi, a sua volta, rotolò fra le spumeggiami acque del fiume.

– Bennie!…-gridarono Armando, Back e il signor Falcone, precipitandosi verso la riva – Bennie!..

Una voce lontana rispose:

– Tengo il ponte!… Fuggite!

– Ah!… Bravo camerata!… – esclamò Armando, che aveva le lacrime agli occhi. In quel momento i Tanara giunsero sull’opposta riva del fiume. Non potendo più attraversarlo, si misero a lanciare le loro fiocine, urlando ferocemente. Il messicano e i suoi compagni non si degnarono nemmeno di rispondere. Saliti a cavallo, s’erano messi a galoppare sulla riva per raggiungere il loro compagno che la corrente, rapidissima, trasportava lontano. Sulla spumeggiante superficie del fiume, di tratto in tratto, si vedevano volteggiare, immergersi, poi tornare a galla i tre tronchi del pino, tenuti uniti da alcune strisce di pelle e aggrappato ad essi il cacciatore il quale, anche nella caduta, non aveva abbandonato il suo fucile. Dopo lunghi sforzi era riuscito a gettarselo in spalla, ed ora lavorava di braccia e di gambe per spingere i pini verso riva. Gli indiani, accortisi della caduta del loro nemico, si erano messi a correre lungo la riva, sperando che la corrente lo spingesse dalla loro parte per massacrarlo prima che approdasse. Back e i suoi compagni, spingendo i cavalli a corsa sfrenata, in breve giunsero là dove si dibatteva il canadese.

– Coraggio!.. – gridò il signor Falcone.

– Gettatemi una corda – rispose il canadese. – La corrente mi trascina e non riesco a vincerla.

Back si era buttato giù da cavallo. Si aprì la casacca e snodò una lunga corda di pelle intrecciata terminante in un anello di ferro, che portava stretta alla cintura. Era un lazo. Il messicano, che sapeva maneggiarlo con abilità sorprendente, avanzò verso la riva, attese che Bennie passasse, poi fece girare tre o quattro volte il nodo scorsoio, imprimendogli una velocità crescente. La corda cadde nel fiume e andò a stringersi attorno a un braccio del nuotatore.

– Aiutatemi – disse il messicano, volgendosi verso Armando.

Il canadese, sapendo ormai di non aver più nulla da temere aveva lasciato andare i pini e si era aggrappato al lazo con le mani, mentre con i piedi si manteneva a galla. Back e Armando ritirarono prontamente la corda, issando l’uomo che vi era appeso.

– Corna di bisonte!… – esclamò Bennie, quando si ritrovò sulla riva. – Sono gelato!… Maledetto stregone!…

Il signor Falcone aveva aperto una cassa, ed estratta una bottiglia l’aveva sporta al canadese, dicendogli:

– Bevete, povero amico. È del vecchio gin che serbavo per le grandi occasioni.

Il cacciatore mandò giù quattro o cinque sorsi, balbettando:

– Grazie… signore!…

I Tanana erano giunti in quel momento sulla riva opposta ed essendo in quel punto il fiume assai stretto, si erano messi a lanciare le loro fiocine. Una andò a cadere in mezzo ai fuggiaschi, sfiorando il messicano.

– Oh!… Canaglie!… – gridò Armando. – Non l’avete ancora finita? Prendete!…

Con un colpo di fucile abbattè il più vicino della banda. Gli altri, spaventati dalla matematica precisione del tiro, e comprendendo ormai che nulla avrebbero avuto da guadagnare in una lotta, fuggirono precipitosamente, salvandosi nel bosco vicino.

– A cavallo – disse Bennie.

– Siete mezzo gelato, amico – osservò il signor Falcone. – Vi buscherete qualche malanno.

– Bah!… Ho la pelle corazzata – rispose il cacciatore, ridendo. – Sono abituato ai bagni freddi. Cerchiamo un buon posto per accamparci, poi mi asciugherò davanti al fuoco.

Risalirono in arcione, e si diressero verso la foresta che si stendeva a settentrione. Trovata una piccola radura aperta fra un cerchio di pini giganti, si fermarono per accamparsi. Il luogo era propizio per una sosta. Di là potevano dominare un lungo tratto della riva opposta, essendo il terreno un po’ elevato. La tenda fu prontamente rizzata, quindi fu acceso un fuoco gigantesco, capace di arrostire un bue. Bennie fu spogliato, coperto con una coltre di grossa lana, strofinato per bene con uno straccio imbevuto nel gin per riattivargli la circolazione del sangue, poi fu lasciato accostarsi al falò. Mentre Armando torceva le vesti del cacciatore e le metteva ad asciugare. Back e Falcone preparavano la cena, usando le ultime provviste, non avendo avuto il tempo di portare con loro gli avanzi dei due cigni. Divorato il pasto composto di un po’ di pemmican con pochi fagioli, e frittelle di farina cucinate nel grasso, si cacciarono sotto la tenda, mentre Back vegliava il primo quarto. La notte, però, fu senza allarmi. I Tanana, certi ormai di non poter più raggiungere i fuggiaschi, dopo la caduta del ponte, non si fecero più vedere, e anche gli animali feroci non disturbarono il sonno dei cacciatori. Ai primi albori, ben riposati da quella dormita, ripartivano verso est, ansiosi di giungere al forte Scelkirk. Erano senza provviste, e quel paese pareva priva di selvaggina. Mancavano perfino i lupi, animali che s’incontrano dovunque nell’Alaska e nelle regioni vicine. A mezzodì, dopo una corsa ripassavano l’affluente dell’Yucon presso la foce, servendosi di un ponte costruito con alcuni tronchi di pino, e all’una galoppavano sulla riva del fiume gigantesco. Un’anitra selvatica, uccisa da Armando, e una dozzina di uova di cigno, trovate in due nidi abbandonati, fornirono il pranzo e la cena. Il secondo giorno, poco dopo il tramonto, giunsero finalmente al forte Scelkirk.

XXIX ATTRAVERSO L’ALASKA

Il forte Scelkirk si trova sulla riva sinistra dell’Yucon, a poche miglia dal Mac-Millan, uno dei più ragguardevoli affluenti del fiume. Come tutti gli altri che si trovano disseminati a grandi distanze nell’Alaska e nei territori inglesi del nord-ovest, è costruito con tronchi d’albero grossolanamente spianati, però molto alti e piantati profondamente nel suolo, per potere, in caso di pericolo, resistere agli assalti delle bellicose tribù indiane. L’interno si compone di alcuni fabbricati di legno, con i tetti di zinco o di rame, alcuni usati come magazzini o per gli oggetti di scambio o per le pelli acquistate dagli indiani; gli altri servono di stanza ai cacciatori della compagnia americana e al loro comandante. Bennie e i suoi compagni furono affabilmente accolti da quei bravi cacciatori, ed ebbero premurose cure da parte di tutti. Primo pensiero del canadese fu quello di chiedere se avessero avuto qualche buona scialuppa da cedere, avendo intenzione di scendere l’Yucon fino a Dawson, ma ebbe purtroppo un rifiuto. Il forte non possedeva che una sola baleniera, e il comandante non poteva assolutamente cederla, dovendo servire a loro per attraversare il fiume. Fu quindi deciso di arrestarsi alcuni giorni al forte per far riposare i cavalli, poi di farsi trasportare sulla riva opposta, volendo evitare l’immensa curva che l’Yucon descrive dalla foce del Mac-Millan a quella dello Stewart. Il comandante, d’altronde, li aveva consigliati di conservare i cavalli, che erano ricercatissimi a Dawson, dove i più malandati si vendevano a centinaia di dollari. Le notizie, poi, giunte dalle miniere, erano sempre strabilianti, tali da incoraggiare le speranze dei futuri minatori. Si diceva che nuovi filoni, di una ricchezza favolosa, erano stati scoperti sulle rive del Klondyke, e che dei cercatori d’oro, in poche settimane di lavoro, avevano realizzato fortune straordinarie. Quelle liete notizie avevano tanto accesa la fantasia dei cacciatori del forte, da indurli, per la maggior parte, a recarsi verso le terre del prezioso metallo. Dei ventotto cacciatori che, pochi mesi avanti, contava il fortino, diciassette erano partiti per il Klondyke, e il povero governatore temeva che anche gli ultimi, un giorno o l’altro se ne andassero, lasciandolo solo. Il Falcone e i suoi compagni rimasero quattro giorni al forte, poi il quinto, acquistate altre vanghe, zappe, provviste di polvere e di palle, essendo a corto di munizioni e nuovi vestiti e coperte, si facevano trasportare sull’opposta riva, con i loro cavalli. La marcia fu subito ripresa verso ovest, attraverso terreni difficili, in parte paludosi, cosparsi però qua e là di piccole pianure irregolari, irte di gibbosità argillose e divise da veri fiumicelli di fango. La vegetazione era scarsissima. Soltanto di tratto in tratto, si scorgeva qualche gruppo di conifere, o di cedri dalla corteccia giallastra o qualche macchia di cornioli. Anche la selvaggina era rarissima. Per lo più non si vedeva fuggire che qualche moffetta o skunk, come vengono chiamati dagli indiani quegli animaletti, lunghi circa quaranta centimetri con una coda di lunghezza quasi eguale, il pelame nero lucidissimo, attraversato sul dorso da una striscia biancastra. Non sono pericolosi, però, se inseguiti, da alcune glandole spruzzano un liquido oleoso che manda un odore così nauseante da far vomitare uomini e animali, e da far loro provare un disgusto intollerabile per alcune settimane. Nemmeno i cani possono sopportarlo, e fuggono urlando disperatamente. Marciavano da due giorni, allontanandosi sempre più dall’Yucon per evitare la grande curva che si estende dalla foce del Mac-Millan a quella dello Stewart, quando si trovarono in una vallata rinchiusa tra aspre montagne, tagliate quasi a picco, dove si vedevano biancheggiare, all’estremità di una specie di gola, delle masse enormi che non si potevano ancora ben distinguere.

 

– Che cosa si trova laggiù? – si chiese Bennie, trattenendo il proprio cavallo. – Guardate, signor Falcone.

– Si direbbe che è precipitata una foresta di alberi bianchi – disse il meccanico.

– Che siano piante pietrificate? – chiese Armando. – Tu sai zio, che se ne sono scoperte nell’Arizona.

– Ma no, non devono essere alberi – disse Bennie.

– Si direbbero ossa gigantesche – osservò Back.

– Sì, delle ossa, forse, – mormorò il canadese. – Che la leggenda di Giorgio Hughes fosse vera?

– Chi era Hughes? – chiese Falcone.

– Ve la narrerò poi; andiamo a vedere, innanzi tutto, se sono piante o scheletri di animali mastodontici.

Lanciarono i cavalli al galoppo, e quindici minuti dopo giungevano all’entrata della gola. Là uno spettacolo strano si offerse ai loro sguardi stupiti. In mezzo a una specie di imbuto gigantesco, formato da un circolo di rocce altissime, si trovavano ammucchiati centinaia e centinaia di scheletri mostruosi. Era un caos di cestole, di denti smisurati, alcuni diritti, altri ricurvi e di un avorio più candido di quello degli elefanti, di stinchi, crani, spine dorsali, zampe di ogni forma e dimensione. Pareva che centinaia di esseri antidiluviani, chissà per quale capriccio, si fossero trascinati in quell’imbuto per morire insieme. Falcone, in mezzo a quell’ossario, potè benissimo distinguere parecchi scheletri di cervi-elefanti, o meglio di sivathenum, animali appartenenti a una razza scomparsa da parecchie migliaia di secoli, simili alle alci nelle forme, però grossi elefanti, dalla testa ornata da quattro corna immense, fantastiche e con il collo grosso quanto un tronco d’albero; di mastodonti, altri animali di grandezza favolosa, della famiglia dei pachidermi, sprovvisti però di proboscide e di zanne; di megaterii alti cinque metri e lunghi sette, con zampe dalla circonferenza di due metri e mezzo ciascuna, e il corpo difeso da grosse piastre ossee. Si scorgevano anche degli scheletri, ben conservati, di dinoteri, specie affine ai mastodonti, con due enormi zanne rivolte in basso come quelle dei trichechi, di una lunghezza esagerata, e non pochi di mammouth, specie di elefanti di mole gigantesca.

– Quante ricchezze perdute – disse Falcone, guardando quei denti smisurati che uscivano dall’ammasso di scheletri e di ossa. – Qui ci sarebbe tanto avorio da diventare milionari, senza bisogno di andare alle miniere del Klondyke.

– È vero, signore, – disse Bennie. – Disgraziatamente ci sarebbero necessarie delle centinaia di cavalli e di carri per trasportarlo, e non ne possediamo.

– E dei battelli a vapore – aggiunse Armando.

– Deve essere qui che Hughes ha fatto la sua fortuna – proseguì Bennie. – Credevo fosse una leggenda, e ora mi accorgo che si tratta di una cosa vera.

– E chi era Hughes? – chiese Falcone. – Si può finalmente saperlo?

– Un cercatore d’oro che era stato raccolto, quasi moribondo, da alcuni indiani e adottato dalla tribù. Egli aveva chiesto ai suoi protettori se c’erano delle ricchezze nell’Alaska, ed essi, invece di condurlo alle miniere che allora non si conoscevano, lo guidarono in un cimitero di animali antidiluviani. Aiutato dalla tribù, Hughes fece raccolta di avorio, e dopo molti sforzi, riuscì a portare il suo carico alla costa e ad imbarcarlo. Si dice che in tal modo guadagnasse molti milioni, vendendo l’avorio negli Stati Uniti.

– Noi però non troveremmo mai una tribù che si addossasse tale incarico – disse Falcone

– Purtroppo, signore. Avete visto quale fortuna abbiamo avuto presso i Tanana. Lasciamo questo avorio ad altri meno frettolosi di noi, e mettiamoci in marcia verso il paese dell’oro.

Tre giorni dopo giungevano allo Stewart, tagliandolo a quindici miglia dalla foce. Lì fecero una fermata per dare un po’ di riposo ai cavalli. Esplorando i dintorni, per cercare della selvaggina, Bennie e Falcone trovarono, in una piccola pianura, alcuni pozzi o claim, scavati da qualche banda di cercatori d’oro. Esaminando le sabbie scavate, rinvennero parecchie pagliuzze del prezioso metallo, ma in così scarsa quantità, che non valeva la pena di raccoglierlo. Quella scoperta, tuttavia, li rianimò.

– Cominciamo a percorrere i terreni auriferi – disse Bennie. – Non so che cosa sia, ma comincio a provare quell’emozione che fu giustamente chiamata, la febbre dell’oro. Chissà quanti tesori e quante pepite sono nascoste sotto questi terreni quasi ancora vergini.

– Forse delle fortune colossali – disse Falcone. – Si direbbe che la terra americana è impastata d’oro e d’argento.

– E le miniere dell’Alaska?

– Non si sa ancora precisamente quanto possano rendere, ma ritengo che fruttino un numero ingente di milioni di dollari, e che sempre più ne daranno.

– Che fortuna se potessimo scoprirne una buona anche noi, signor Falcone.

– Se l’oro non scarseggia per gli altri, troveremo anche noi qualche ricco filone, specialmente con i mezzi che possediamo.

– Quali mezzi?

– Aspettate che siamo sul luogo e vedrete che dalla grande cassa uscirà fuori uno strumento che gli altri minatori probabilmente non hanno. Bennie, torniamo al campo; la selvaggina qui non si fa vedere.

– Fortunatamente abbiamo provviste sufficienti per arrivare a Dawson.

– È vero, Bennie.

Quella notte il canadese non sognò che monti d’oro e claim di una ricchezza favolosa. Credeva ormai di essere sulle rive del Klondyke e di scavare, a ogni colpo di zappa, delle pepite enormi, del peso di parecchi chili, dei veri massi auriferi.

L’indomani partivano per il distretto di Klondyke. Se avessero voluto, avrebbero potuto risparmiare strada risalendo verso nord però non volevano lanciarsi nella regione aurifera, senza prima aver fatte nuove provviste a Dawson, anche per avere notizie sulla regione più ricca. Passato a guado il fiume Indiano, affluente di destra dell’Yucon, rimontarono la riva del fiume, tagliando il Klondyke presso la sua foce, e l’indomani, scorgevano le prime case di Dawson, varcando la frontiera dell’Alaska.