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I minatori dell' Alaska

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XXX – UN DUELLO FRA MINATORI

Dawson è situata quasi a cavalcioni del confine dell’Alaska e dei possedimenti inglesi del nord-ovest. È una città fondata da non molti anni, poiché prima del 1896, sul terreno che ora occupa, non esisteva la più misera capanna. Solamente qualche orso o qualche lupo si mostravano di quando in quando. Nel 1897 contava tre o quattro capanne costruite con tronchi d’albero appena squadrati, ma la scoperta dell’oro e il continuo accorrere dei minatori, in pochi mesi la ingrandirono. Nel luglio dello stesso anno aveva più di seicento baraccamenti, rizzati alla meglio, parecchie centinaia di tende, un ufficio postale, numerose case da giuoco e bar, degli alberghi e una popolazione di tremilacinquecento abitanti. La città prosperò subito e i suoi abitanti trovarono presto il modo di passarsela bene, spennacchiando a dovere i ricchi minatori che tornavano dai placers carichi di polvere d’oro o di belle pepite. Solamente gli albergatori andarono in fallimento, quantunque quei galantuomini avessero trovato il modo di far pagare prezzi proibitivi ai loro ricchi clienti. Un po’ più tardi gli americani aggiunsero alle misere baracche guazzanti in mezzo al fango e all’acqua stagnante, un piccolo teatro, un ospedale e dei magazzini per l’Alaska Commercial Company e per la North American Transportation and Trading Company. Queste due compagnie di navigazione posseggono ora sette vapori, che viaggiano sull’Yucon, quando questo fiume lo permette, essendo gelato otto mesi dell’anno, e forniscono di viveri la città e trasportano continuamente nuovi emigranti attratti dalla febbre dell’oro. Sembra però che i loro viaggi non siano sempre felici: infatti, poveri diavoli che s’erano imbarcati su quei vapori, corsero spesso il pericolo di morire di fame, come quelli del piroscafo Bella, rimasto prigioniero dei ghiacci tredici giorni, con scarsissime provviste a bordo. Falcone e i suoi compagni, attraversata la città, pensarono di alloggiare in un albergo, volendo riposare alcuni giorni e rifare le loro provviste, prima di partire per il Klondyke. Tutti insieme possedevano un paio di migliaia di dollari, e poi contavano di sbarazzarsi di tre cavalli, ricavandone qualche altro migliaio. L’albergo scelto, uno dei migliori, consisteva in una lurida capanna a un solo piano, costruita con tronchi d’albero, con una stanza per dormire, una sola che però si poteva dividere in parecchie cabine sufficienti a contenere una persona, con delle portiere di tela. Fu fissato il prezzo di due dollari a persona, senza il vitto; poi fu ordinata una modesta colazione consistente in una zuppa di fagiuoli, in un’anitra arrostita, un po’ di formaggio e in una bottiglia di whisky. Totale: venti dollari.

– Corna di bisonte!… – esclamò Bennie. – Quest’albergo è una rovina!.. Se dovessimo restare qui un paio di settimane, rimarremmo senza un dollaro.

– Ci rifaremo alle miniere – rispose Falcone, ridendo.

– Bisogna però sbrigarci ad andarcene, signore.

– Fra tre giorni ci metteremo in viaggio.

Volendo prima vendere tre cavalli, avvertirono l’albergatore della loro intenzione. Il brav’uomo, un yankee puro sangue, si offerse di acquistarli al prezzo di mille dollari, pensando forse che sull’affare avrebbe trovato modo di guadagnare qualche centinaio e più di dollari. Accettato il contratto, pagò in polvere d’oro, essendoci scarsità di dollari e di sterline, e regalò una bottiglia di birra, che assicurava costargli tre dollari. Intascato il prezzo, e consegnati i tre cavalli. Falcone e i suoi compagni si misero in moto per fare le loro provviste, e per avere informazioni sui migliori terreni auriferi. Innanzi tutto andarono a radersi la barba e ad accorciarsi i capelli, pagando due dollari ciascuno, e fecero ferrare uno dei loro cavalli, che durante il lungo viaggio era rimasto quasi senza ferri. Sbrigate quelle prime faccende, cominciarono gli acquisti, provvedendosi di cinquecento libbre di farina, cento di fagiuoli, centocinquanta di maiale salato, venti di thè, cento di zucchero, trenta di caffè, cinquanta di lardo, centocinquanta di conserve; poi sale, pepe, polvere, piombo, spendendo circa un migliaio di dollari. Fortunatamente possedevano i due cavalli, altrimenti avrebbero dovuto ricorrere ai portatori per farsi trasportare alle miniere quei viveri, ciò che sarebbe stata una vera rovina.

D’altronde tutto costava carissimo, e tutti si facevano pagare bene. Un operaio, a Dawson, non lavorava per meno di venti dollari al giorno; un medico non si muoveva per una visita se non riceveva prima quindici dollari. Quei diversi acquisti occuparono l’intera giornata ai futuri minatori. Pranzato all’albergo, decisero di recarsi in una delle tante case da giuoco dove si raccoglievano i cercatori d’oro, per interrogarli sulla pista da prendersi e sulla ricchezza dei vari placers disseminati sulle rive del Klondyke. Sapendo però che in quelle bische le risse erano frequenti, si armarono prudentemente delle loro rivoltelle e dei loro bowie-knife.

– Non si sa mai cosa possa succedere, – disse Bennie ai suoi compagni. – Anche nel Colorado, quantunque la polizia americana tenesse gli occhi aperti, accadevano risse feroci, che terminavano a colpi di rivoltella. Qui la polizia non esiste: sarà peggio ancora.

Bar dove si giocava sfrenatamente ce n’erano parecchi, però i nostri minatori decisero di entrare nel più vasto, che portava per insegna il titolo attraente di Fiume d’oro.

Vi si spacciavano tutte le bibite possibili e immaginabili e non era altro che una vasta tenda conica sostenuta da un palo di dimensioni gigantesche, dipinto con i colori della bandiera degli Stati Uniti. Numerosi tavoli fabbricati rozzamente, erano stati collocati all’intorno, assieme con sgabelli, improvvisati con rami d’albero o con vecchie casse di petrolio o barilotti segati a metà. Da un lato, invece, giganteggiava il banco del liquorista, zeppo di rispettabili fiasconi e di bottiglie che portavano dei cartelli variopinti, dove si leggevano i più disparati nomi: Whisky, Gin del 1850, Brandy del 1882, Pale-ale. Ginepro di Germania, Bordeaux di Francia, Vermouth di. Torino, Madera del 1830!!!… Il barista, un pezzo di uomo da far invidia a un granatiere di Pomerania, forte come un Ercole, con una barba rossa che gli giungeva fino al petto, e la cintura armata di due grosse rivoltelle, troneggiava su un alto sgabello, sorvegliando attentamente i clienti, mentre due negri giganteschi, con un grembiule che un tempo doveva essere stato bianco, versavano senza posa quei liquori scelti, fabbricati probabilmente dal loro padrone con chissà quali miscele velenose e micidiali. Una trentina di minatori avevano occupati i tavoli. Erano magri, sparuti, con barbe e capelli lunghi, che davano loro un aspetto selvaggio, con le vesti stracciate, gli stivali sfondati, ma con le cinture gonfie di polvere d’oro e di pepite. Quegli straccioni portavano addosso delle fortune favolose. Nessuno era disarmato. Alla cintura avevano rivoltelle, pistole, coltelli e qualcuno persino una scure per essere pronto a spaccare il cranio al ladro che avesse osato allungare la mano verso la cintura piena d’oro o uccidere chi avesse barato al giuoco.

Tutti bevevano smodatamente, alternando grandi bicchieri di grog, tazze di whisky, di gin, di brandy e punch fiammeggianti. Intorno a un tavolo otto o dieci minatori, non meno stracciati degli altri giocavano ai dadi. Dinanzi ad ognuno stava un mucchio d’oro in polvere o in granelli più o meno grossi, e accanto erano bene in mostra rivoltelle e i bowie-knife.

Già esaltati dalle bevande somministrate senza posa dai due negri del bar, con gli occhi ardenti per l’ansietà e la febbre della vincita, con quelle lunghe barbe arruffate, i lineamenti alterati dall’emozione, più che minatori parevano banditi pronti a scannarsi alla minima contestazione. Nel momento in cui Falcone e i compagni, dopo aver bevuto dei grog, s’avvicinarono al tavolo da giuoco, la fortuna pareva stesse arridendo prodigiosamente a un giovane minatore di venticinque anni. Quel preferito dalla sorte, spiccava stranamente fra tutti gli altri. Era si un bel giovane, dai lineamenti energici, gli occhi neri e vellutati, la carnagione un po’ abbronzata, e le forme eleganti e slanciate. Pareva un ispano-americano, forse un compatriotta di Back, avendo in capo un ampio sombrero di feltro, adorno ancora di un gallone d’oro, un manga di velluto a grossi bottoni di metallo, stretta da un’alta cintura di pelle, e calzoni larghi. Mentre i lineamenti dei suoi compagni erano alterati, i suoi conservavano una impassibilità assoluta. Fumava tranquillamente la sigaretta, aspirando il fumo a intervalli misurati, e ritirava, senza che un muscolo del suo volto manifestasse alcuna compiacenza, l’oro che vinceva.

– Ecco un uomo fortunato, – disse Bennie, gettando uno sguardo sul mucchio d’oro che si trovava dinanzi al giocatore. – A quest’ora deve aver vinto sei o settemila dollari.

Il messicano, udendolo, si rivolse al canadese; poi gli disse sorridendo:

– Ottomila e quattrocento, Caballero.

– Una bella somma, signore.

– Che forse mi costerà cara, – rispose il messicano, guardando sottecchio i suoi compagni di giuoco. i cui volti avevano assunto una espressione selvaggia. – La fortuna è talvolta pericolosa nell’Alaska.

Uno dei giocatori, un uomo basso, tarchiato, con un dorso da bufalo e una foresta di capelli rossi, alzò vivamente il capo e gettò sul fortunato vincitore uno sguardo bestiale, dicendo con voce rauca, sibilante:

– Che cosa volete dire, gentleman?

– Io? Nulla, – rispose il messicano.

– Mi sembra che, oltre a derubarci, ci prendiate in giro.

A quelle parole il messicano impallidì, allungando rapidamente una mano sul bowie-knife, poi disse:

 

– Avete detto derubarvi, è vero?

– Sfido chiunque a provare il contrario.

– Voi mentite, furfante!…

– Mi appello a tutti i giocatori.

– Che parlino, dunque!…

I minatori si limitarono a rispondere con un grugnito, che non rappresentava nè una affermazione, nè una smentita. Uno però scosse il capo, dicendo seccamente.

– No.

– Io ho guadagnato onestamente – disse il messicano. – Se è la collera per aver perduto che vi fa girare la testa, riprendete il vostro oro, buffone!…

Il californiano – doveva essere tale il suo avversario, a giudicare dall’accento – alzò sdegnosamente le spalle, dicendo:

– Non è l’oro che rimpiango: dico solamente che voi siete un ladro!…

Bennie, che si trovava vicino al messicano, appoggiò le mani sulla tavola, dicendo:

– Io dico, gentleman, che v’ingannate. È un quarto d’ora che io ed i miei compagni assistiamo al giuoco, e affermo che questo giovanotto ha giuocato lealmente.

Il californiano gettò sul canadese uno sguardo feroce, dicendo:

– Di che cosa vi immischiate, voi che non avete ancora giocato un dollaro? Gli spiantati non hanno parola a una tavola da giuoco.

– Ehi, mio caro, bada di non prendere un tono troppo alto con me o ti demolisco come un cavallo di legno – gridò Bennie.

Il giovane messicano s’intromise:

– Caballero, grazie del vostro intervento, – disse, ritirando l’oro e versandolo in un sacco di pelle. – Lasciate a me la cura di dare una lezione a quel gradasso.

– A me gradasso!… – urlò il californiano, facendo balzare la tavola sotto un pugno formidabile. – Vi uccido come un ladro!…

Ciò detto, impugnò la rivoltella che teneva dinanzi a sè, puntandola sul messicano; però gli mancò il tempo di mettere in esecuzione la minaccia. L’erculeo barista, prevedendo un alterco, aveva abbandonato precipitosamente il suo banco, e allungando prontamente la destra aveva afferrato il polso del californiano, stringendolo con tale forza da far cadere l’arma. Furibondo per quell’intervento inaspettato, il minatore si volse, digrignando i denti come una belva, il barista non gli lasciò il tempo di pronunciare una sola parola. L’afferrò per il colletto, come se si fosse trattato di un bamboccio, e scuotendolo ruvidamente gli disse:

– Battersi sì; assassinare no, nel mio bar, gentleman. O agite da galantuomo, o vi scaravento fuori, con una pedata.

– Voglio il suo sangue!… – urlò il californiano, rosso per la rabbia.

– Caballero, lasciate andare quel coccodrillo sdentato, – disse il messicano. – Se desidera una lezione, sono pronto a dargliela.

– A me una lezione!… – vociò il minatore.

– A te, buffone.

– Ti farò a pezzi con due coltellate!… -

– Ti aspetto.

– Ah!… Mi sfidi!…

– Certamente!…

– Il mio bowie-knife!....

Un minatore suo compatriotta fu pronto a porgerglielo.

Il messicano, dal canto suo, aveva fatto tre passi indietro, spostando i tavoli per farsi un po’ di largo. Back, vedendo che impugnava un bowie-knife, si levò dalla cintola la navaja, un solido coltello dalla lama acuta e lunga un buon piede, l’aprì con un colpo secco, e glielo porse, dicendogli:

– Questo vale molto più dell’altro, per noi messicani.

– Grazie, Caballero, – rispose il giovane con un sorriso. – La navaja, è migliore.

Aveva appena impugnato l’arma, quando tre o quattro spari rimbombarono bruscamente. Il californiano, fingendo di curvarsi per raccogliere qualcosa, aveva impugnata rapidamente la rivoltella caduta a terra, e aveva fatto fuoco sul suo avversario. Fortunatamente, nella fretta non aveva mirato, e le palle erano andate a colpire due fiaschi di brandy, spezzandoli di colpo. Il messicano, sfuggito miracolosamente a quella scarica, si era scagliato sopra la tavola da giuoco, brandendo la navaja, ma ormai il californiano era sparito assieme ad alcuni suoi amici, che gli avevano protetta la ritirata, mandando all’aria alcune tavole.

– Canaglia!.., – gridò il messicano. – Ti ritroverò!…

– Lasciate che vada a farsi appiccare altrove, Caballero, – gli disse Bennie. – Badate invece che non vi tenda un agguato per derubarvi dell’oro che avete guadagnato.

– Di questo sono certo, camerata – rispose il giovane, con una certa apprensione.

– Fortunatamente noi apriremo gli occhi.

– Volete farvi uccidere al mio posto?

– Bah!… Non siamo uomini da perdere la pelle così facilmente, Caballero.

– Perdonate, senor, siete minatore?

– Non ancora.

– Siete giunti da poco?

– Stamane.

– Col piroscafo della North American?

– No, veniamo dall’Alberta.

– Carrai!.... A cavallo?

– Sì, Caballero.

– Un viaggio lunghissimo.

– E pericoloso, soprattutto.

– E siete venuti a cercare l’oro?

– Questo è il nostro progetto.

– Avete già lavorato nelle miniere?

– Il mio compagno Back e io siamo vecchi minatori.

– E non conoscete ancora il Klondyke?

– No, Caballero.

– Allora spero di farvelo conoscere io, signori; offro un punch. Non mi farete il dispiacere di rifiutarlo.

Pochi minuti dopo, Bennie, i due messicani e i due italiani si trovavano seduti attorno a un fiammeggiante punch, e si scambiavano le loro confidenze. Quel giovane messicano, don Pablo Carrea, nativo di Mazatlan, era giunto nell’Alaska undici mesi prima, lavorando nei placers del Bonanza e del Barca, affluenti del Klondyke, insieme con alcuni tedeschi e inglesi, e guadagnando moltissimo. Ammalatosi a causa delle continue fatiche e delle privazioni, era stato costretto ad abbandonare le miniere e a ritornare a Dawson, quando la fortuna cominciava largamente a compensare la società. La malattia, e soprattutto il medico, avevano divorato la maggior parte dell’oro che, con tanta fatica, aveva strappato alla terra, e ora, completamente guarito, aspettava la partenza di qualche gruppo di minatori per tornarsene al Klondyke.

– Se riesco ad andare lassù, fra quei terreni auriferi, tornerò ricco come un creso – concluse il giovanotto.

– Sapete dove si trova qualche ricco filone? – chiese Falcone.

– Sì – rispose il messicano con un filo di voce.

Si guardò intorno per vedere se qualcuno dei bevitori ascoltava le sue parole, poi curvandosi verso i suoi amici, disse:

– Da un minatore canadese, a cui una sera salvai la vita, e che ora è morto, ucciso in una rissa, mi è stato indicato un luogo dove l’oro si trova quasi a fior di terra, in pepite grossissime. Noi andremo a sfruttare quel placer, se volete unirvi a me.

– È molto lontano quel posto? – chiese Falcone.

– Si trova plesso le sorgenti del Barem, ai primi contrafforti del monte omonimo. La località mi è stata descritta così minuziosamente che non potrei ingannarmi. Due cascate, tre picchi aguzzi, e la sorgente nel mezzo.

– Siamo pronti a seguirvi – disse l’italiano.

– E io accetto la vostra compagnia, – rispose il messicano. – In questi pochi minuti ho avuto il tempo di apprezzarvi, Caballeros, e sarò lieto di dividere con voi quei tesori. Dove siete alloggiati?…

– Da un certo Calkraff, – disse Bennie.

– Lo conosco. Avete fatto i vostri preparativi.

– Tutto è pronto; non ci manca che caricare i due cavalli.

– Ah!… Voi avete due cavalli? Ci saranno d’immensa utilità, anch’io ne ho comperati due, essendo il Barem un po’ lontano.

– E possediamo anche uno sluice, – disse Falcone.

– Uno sluice… – esclamò il messicano, con gioia. – Allora in due mesi noi saremo ricchi come nababbi. Caballeros, partiamo, e domani all’alba lasceremo Dawson.

– Un momento, signor Pablo, – disse Bennie. – Volete un consiglio?

– Parlate.

– Venite a dormire con noi: quel californiano è capace di attendervi in qualche luogo e uccidervi a tradimento.

– È vero, – disse il messicano, ridendo. Quel furfante di James Korthan non aspetta che una occasione per mandarmi all’altro mondo.

– Lo conoscete?

– È un furfante della peggior specie, che mi odia ferocemente, e cerca tutti i modi per vendicarsi.

– E di che cosa?

– Del rifiuto di averlo come compagno. Una sera ho commesso l’imprudenza di raccontargli che conoscevo un ricchissimo placer situato sul Barem. Mi propose di associarlo, io invece rifiutai, conoscendolo come persona pericolosissima. Da quel momento divenne il mio più mortale nemico.

– Bisogna guardarsi da quell’uomo, – disse Bennie. – È capace di seguirci fino alle sorgenti del Barem, per poi giocarci qualche brutto tiro.

– Lo temo anch’io, Caballeros.

– Partiremo di notte, e cercheremo di nascondere a tutti la nostra direzione. Andiamo e teniamo pronte le rivoltelle.

Il messicano pagò il punch, si mise nella cintura l’oro guadagnato, poi uscirono tutti e cinque, tenendo nella destra le armi da fuoco.

XXXI – IL PAESE DELL’ORO

Non c’erano in quell’epoca fanali a Dawson, ed essendo la pianura umida e fangosa, spesso invasa dalla nebbia che saliva dall’Yucon, non sarebbe stato facile per Bennie e i suoi compagni far ritorno all’albergo. Fortunatamente il giovane messicano conosceva perfettamente la città, e sapeva dirigersi in qualunque punto anche in mezzo alle tenebre. Si orientò sulla direzione delle casupole e delle tende dei minatori, poi si mise rapidamente in cammino tenendosi però in mezzo alla strada, per non farsi sorprendere su qualche angolo dal suo avversario e dai suoi amici. Tenendosi l’uno vicino all’altro, e stringendo sempre le rivoltelle, i cinque uomini percorsero due vie senza incontrare anima viva. Stavano per piegare a sinistra, seguendo una linea di catapecchie appena visibili fra il nebbione che allora scendeva più fitto, quando scorsero alcune forme umane che si muovevano fra quella pesante caligine. Non sapendo se quegli uomini erano minatori che cercavano di ritornare alle loro tende, o il californiano e i suoi amici, Bennie puntò la rivoltella gridando:

– Chi vive?

Una voce ormai ben nota, rispose:

– Sono loro.

– A terra! – esclamò prontamente il messicano.

I due messicani, Armando e il signor Falcone si abbassarono precipitosamente. Quasi nello stesso istante una scarica di rivoltelle rintronò fra il nebbione, e parecchie palle fischiarono sopra le teste dei minatori.

– Prendi furfante!… – gridò Bennie, bruciando, l’una dietro l’altra, le sei cariche della sua arma.

Don Pablo e i suoi amici fecero eco con le loro rivoltelle.

Le ombre umane si dileguarono, scomparendo fra la nebbia; però Bennie percepì distintamente una voce che diceva in tono lamentoso:

– Sono morto!…

– Gambe, signori! – esclamò il canadese.

Si lanciarono tutti in mezzo a una viuzza formata da una doppia linea di casupole, e pochi minuti dopo si trovavano dinanzi all’albergo di mastro Calkraff. L’albergatore era ancora alzato, e li condusse nelle loro stanze, mettendo a disposizione del giovane messicano un lettuccio formato da due tavole coperte con una pelle d’orso, al prezzo di un dollaro.

– Alle quattro farete il favore di svegliarci – gli disse don Pablo.

– Come, partite così presto? – chiese l’onesto albergatore, non dissimulando il suo dispiacere per quella improvvisa partenza, che gli impediva di spogliare a suo comodo i minatori – La stagione non è ancora propizia per andare alle miniere.

– Siamo aspettati.

– Andate al Klondyke?

– Andiamo a monte Quarz – disse don Pablo. – Anzi, se verrà qualcuno a chiedere di noi, direte che ci siamo diretti verso quella località.

– Lo dirò: buona notte, signori.

– Siate prudente, don Pablo, – disse Falcone al giovane messicano.

– Il californiano verrà certamente a cercarci, ne sono certo. Se andrà al monte Quarz, non lo troveremo più sul nostro cammino. Signori, buona notte.

Si avvolsero nelle loro coperte, e poco dopo russavano sonoramente, sognando placers pieni di polvere d’oro e pesanti pepite. Due ore prima dell’alba, Bennie, il giovane messicano e i loro compagni erano già in piedi. Vuotarono alcune tazze di the, fecero alcuni acquisti dall’albergatore, soprattutto di gin e di whisky, caricarono i cavalli, poi uscirono, ansiosi di lasciare Dawson prima dello spuntare del sole, per non farsi scorgere dal californiano. Attraversata la città, il messicano si arrestò dinanzi a una capanna che doveva essere un bar, a giudicare da un fiasco monumentale sospeso sopra la porta. Con due calci vigorosamente applicati, si fece aprire, e fattosi condurre in una vicina tettoia cinta da una graticciata di filo di ferro, mostrò ai suoi nuovi amici due robusti cavallini dal pelo fitto e lungo, e parecchie casse contenenti viveri e attrezzi da minatore.

 

– La mia fortuna, – disse, ridendo. – Con i miei due cavalli e i vostri, vi prometto di condurvi presto al Dom.

Caricarono le casse, assicurandole solidamente, poi lasciarono il bar, marciando rapidamente verso sud-est per giungere alla foce del Klondyke. La nebbia non si era ancora alzata, anzi era diventata più fitta, però avrebbe dovuto sciogliersi ai primi raggi del sole. Il giovane messicano, pratico della strada, si mise alla testa del piccolo drappello, prendendo un sentiero che costeggiava l’Yucon, fiancheggiato da enormi tronchi d’albero. Falcone si era messo accanto a lui, tenendo in mano la bussola. Armando, Bennie e Buck guidavano i cavalli, procurando di tenerli uniti.

Faceva molto freddo quella mattina. Dal settentrione scendevano, a intervalli, folate di aria gelida, che laceravano volta a volta il nebbione, o facevano gemere i rami dei grandi alberi sulle rive dell’Yucon. Dal fiume, continue masse di vapore si levavano, inzuppando le vesti dei minatori, e depositandosi sul pelo dei cavalli.

– Che brutto paese! – disse Falcone al messicano.

– Siamo in pianura, – rispose questi. – Dawson e i suoi dintorni non sono molto attraenti, e poi la buona stagione non è veramente ancora cominciata.

– Mi hanno detto che nelle miniere non si lavora più di tre o quattro mesi all’anno.

– Talvolta anche soltanto due, signore, – disse il messicano. – Sono però mesi di tribolazioni inenarrabili e di fatiche enormi, che logorano gli uomini più robusti.

– Sarà il lavoro dei claims, il più faticoso.

– È tremendo, signore, poiché la terra è sempre gelata a una certa profondità. Immaginatevi che alla notte bisogna tenere il fuoco acceso in fondo ai pozzi di scavo.

– Però la ricchezza dei filoni d’oro compensa le fatiche, – disse il meccanico.

– Anche questo è vero, signore. Ho visto dei minatori, con un solo colpo di zappa, guadagnarsi cento e anche duecento dollari. Ho conosciuto un canadese, che ha messo allo scoperto una pepita di quattordici libbre.

– Una vera fortuna.

– E guadagnata in soli cinque minuti. Spero però di trovare anch’io di quelle pepite.

– Al Klondyke?

– Alla sorgente del Barem. Il minatore che mi ha indicato quella località, in tre sole settimane di lavoro aveva raggranellato novanta chilogrammi d’oro.

– Un raccolto favoloso!…

– E sembra che di più se ne possa trovare in fondo alle cateratte. Con lo sluice che possedete e col mercurio, noi ammasseremo oro in quantità prodigiosa e in pochissimo tempo.

– Purché non veniamo disturbati – disse Falcone.

– E da chi?

– Avete dimenticato il californiano?

– Sì, quell’uomo ci seguirà, – disse don Pablo, come parlando fra sè. – Appena si accorgerà della mia scomparsa da Dawson, si metterà in cerca di me, poiché sa che conosco la vallata dell’oro, però cercheremo d’ingannarlo.

– In che modo?

– Prendendo le piste meno frequentate.

– Faticheremo assai di più.

– Però avremo anche un notevole vantaggio.

– E quale?

– Di evitare l’incontro delle bande dei bushrangers.

– Anche qui sono comparsi quei briganti? – chiese Falcone, con stupore.

– In tutte le regioni ricche d’oro si sono sempre organizzate quelle bande. In California c’erano i salteadores; qui ci sono i bushrangers. Comprenderete che è più comodo alleggerire i poveri minatori del loro oro, che andare a cercare il prezioso metallo nelle viscere della terra.

– E non danno la caccia a quei banditi?

– Di quando in quando i minatori esasperati, organizzano delle battute nei boschi, e ne prendono qualcuno, ma non per questo i bushrangers diminuiscono. Appiccato uno, un altro lo sostituisce.

– E sono molti quei banditi?

– Mi hanno detto che quest’anno abbondano specialmente presso i guadi del Klondyke.

– Staremo in guardia, – disse il signor Falcone.

– Dovremo vegliare attentamente, signore. I nostri cavalli sono più preziosi dell’oro per quei briganti, e, se ci incontrano, tenteranno di portarceli via.

– Fortunatamente siamo bene armati, e buoni tiratori, specialmente Bennie e mio nipote. Se vorranno assalirci, avranno una lezione che ricorderanno a lungo.

Chiacchierando erano giunti, verso le dieci del mattino, alla foce del Klondyke. La nebbia si era dileguata completamente e il sole era apparso, illuminando le rive dell’Yucon e del suo affluente. Il paesaggio offriva splendidi panorami. A destra e a sinistra del fiume, maestosi pini, cedri gialli, betulle, salici s’alzavano, verdeggianti, indorati dal sole, mentre sulle rive del Klondyke si stendevano, a perdita d’occhio, delle praterie di muschi, papaveri gialli e bianchi, ranuncoli, sassifraghe, interrotte qua e là da cespi di rose canine già in fiore e da boschetti di ribes. Alcuni canotti, montati da indigeni, percorrevano la grande fiumana, recando forse pelli o selvaggina a Dawson, mentre sull’opposta riva si vedevano alzarsi numerose colonne di fumo, indicanti la presenza di qualche banda di Co-Yuconi. I cercatori d’oro, dopo una breve fermata sulle rive dell’Yucon, in mezzo alla graziosa prateria tempestata di ericacee, campanule e papaveri, attraversarono la foce del Klondyke su una chiatta guidata da un vecchio indiano, poi ripresero animosamente la marcia verso ovest, seguendo la vallata dell’affluente. Il Klondyke, che poco tempo fa era ancora ignoto, e che ora è diventato popolare in tutto il mondo, a causa dei suoi filoni d’oro e delle sabbie aurifere, è un fiume che non ha un grande corso, a paragone dell’Yucon. Anzi si può dire che sia uno dei suoi più piccoli affluenti. Ha le sue sorgenti sulle falde del Quay, una montagna quasi isolata che si trova verso est, sul territorio inglese del Nord-Ovest, in una regione assolutamente deserta e forse non ancora percorsa da alcun uomo bianco. Di là corre quasi sempre verso occidente, aprendosi il passo fra fitte foreste di pini e di cedri, e terre semigelate, raccogliendo sulla sua sinistra tre affluenti: il Sachiuotit, il Barem e il Bonanza, sboccando poi a breve distanza da Dawson. Avendo una corrente piuttosto impetuosa, ed essendo la maggior parte dell’anno ingombro di ghiacci, non è navigabile che per qualche mese e solamente per i canotti indiani.

Il giovane messicano, volendo ingannare il californiano, nel caso che questi e i suoi amici si fossero lanciati sulle loro tracce, invece di seguire la via battuta dai minatori, che costeggiava il fiume, deviò verso sud per guadare più tardi il Bonanza a parecchie miglia dalla foce. Però, di passo in passo che s’allontanavano dal Klondyke, il cammino diventava sempre più aspro e pericoloso, mettendo a dura prova le gambe dei cavalli e degli uomini. Il terreno, diventava roccioso, si prestava malissimo per una rapida marcia. Rupi enormi, in gran parte franate, coperte di muschi pregni d’umidità, che facevano scivolare i cavalli, sbarravano ad ogni istante la via, costringendo il drappello a compiere lunghi giri per trovare dei passaggi meno pericolosi. Talvolta invece si incontravano avvallamenti, o burroni o fitte foreste di abeti e di cedri, o macchie inestricabili di betulle e di salici, o dei torrentelli impetuosi che minacciavano di trascinare nella corsa sfrenata gli animali. Quella regione appariva assolutamente deserta, selvaggia. Faceva molto freddo. Dalle cime ancora coperte di neve, scendevano raffiche di aria gelida, mentre sopra le boscaglie tenebrose s’alzavano masse di densi vapori. Degli ululati echeggiavano di quando in quando sotto i pini, facendo impennare e rabbrividire i cavalli. I minatori, esausti da quella lunghissima marcia e dalle fatiche sopportate durante la giornata, s’affrettarono a fare un’ampia raccolta di rami secchi, e ad accendere due falò giganteschi. Rizzata la tenda, si prepararono la cena, consistente in maiale salato bollito, con fagioli, in frittelle di farina cucinate nel lardo, e in un po’ di the bollente. Mentre mangiavano attorno al falò, il giovane messicano narrava che quei luoghi, pochi mesi addietro, erano infestati da una banda di bushrangers la quale si era fatta una fama tristissima. Delle intere carovane di minatori, di ritorno dai placers; della Bonanza, erano state massacrate e depredate. Organizzate però alcune colonne di cercatori d’oro, risoluti a purgare quelle selve da quei feroci predoni, dopo una campagna durata due mesi, quei miserabili erano stati per la maggior parte presi e impiccati agli alberi più alti.