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I minatori dell' Alaska

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– Ah!… Ah!… – esclamò il cow-boy. – Si sono finalmente decisi a tornarsene indietro.

– E quei tre? – chiese Armando,

– Ora penseremo a loro, tanto più che vedo Coda Screziata. Quel dannato indiano non rinuncerà alla sua vendetta, ne sono certo, ma siamo abili tiratori, è vero. Armando?… Saliamo quel poggio e li attenderemo nella pianura. Coraggio, ancora uno sforzo, povere bestie.

I quattro cavalli salirono una collinetta cosparsa di cespugli, poi discesero il versante opposto, arrestandosi presso un gruppo di quercie nere che crescevano sulle rive di un piccolo stagno. Bennie e Armando balzarono a terra coi fucili in mano e attesero la comparsa degli indiani.

– Devo abbattere gli uomini o i cavalli? – chiese Armando.

– Gli uomini, giovanotto. Bisogna sopprimerli tutti e tre o seguiranno più tardi le nostre tracce e verranno ad assalirci nel nostro nascondiglio. Ah!… Eccoli!…

Un indiano era comparso sulla cima della collinetta, seguito subito da Coda Screziata e da un altro. I loro cavalli, bianchi di schiuma, non erano più capaci di reggersi poiché di tratto in tratto incespicavano col pericolo, in caso di una caduta, di non più rialzarsi. Vedendo i due bianchi a terra, i tre indiani mandarono grida di trionfo, credendo che fossero stati costretti a fermarsi per la stanchezza dei mustani. Coda Screziata afferrò il winchester, mentre gli altri due, che erano armati di lance e parevano possedere i migliori cavalli della tribù, si lanciavano giù dalla collina, sterzando furiosamente i loro destrieri. Bennie era balzato fuori dal boschetto seguito dal giovane Armando. Puntò rapidamente il fucile mirando il primo indiano che si trovava a soli trecento passi, poi fece fuoco. Cavallo e cavaliere, colpiti forse contemporaneamente, caddero, scomparendo fra le alte erbe, Un istante dopo, il primo s’alzò fuggendo a gran galoppo, lasciando a terra il padrone.

– A voi, Armando!… – gridò Bennie.

Il giovanotto mirava già il secondo indiano che si era arrestato a mezza via, titubante. Lo sparo tu seguito da un urlo di dolore e l’uomo cadde. Coda Screziata fermò il proprio cavallo e aprì un vero fuoco di fila contro i due bianchi, ma al quinto sparo lo si vide vacillare, poi cadere assieme alla cavalcatura. Bennie, che aveva introdotta una nuova cartuccia nel fucile, aveva fatto fuoco, e, come sempre, non aveva mancato il colpo.

Balzarono sui loro cavalli e si allontanarono a spron battuto, senza udire una voce minacciosa che gridava loro:

– Avrò le vostre capigliature!…

IX – SULLE RIVE DEL PICCOLO SCHIAVO

Mezz’ora dopo quell’inseguimento ostinato, a cui erano sfuggiti per miracolo, Bennie e il suo compagno giungevano sulle rive del lago, in un luogo riparato da grandi pini e da abeti neri che lanciavano arditamente le loro punte a cinquanta e perfino a sessanta metri d’altezza. Essendo stanchi, decisero di fermarsi qualche ora anche per lasciare tempo agli indiani di ritirarsi, temendo d’incontrare qualche altra banda sulle rive del lago. Bennie e Armando fecero raccolta di lamponi, si divisero fraternamente tre biscotti che fortunatamente avevano trovati nelle tasche, poi si coricarono in mezzo alle erbe, sorvegliando i cavalli che si erano messi a pascolare. Il luogo pareva assolutamente deserto. Nessuna capanna, nè alcun wigwam si vedeva alzarsi su quelle sponde, nè alcun canotto solcare le placide acque del lago. Anche la selvaggina mancava. Solamente sugli alberi gracchiavano alcuni corvi e si vedevano volare sui rami alcuni colombi selvatici, mentre presso i canneti si udivano strepitare delle coppie d’uccelli acquatici. Bennie e il suo giovane compagno sostarono una mezz’ora, tendendo l’orecchio per raccogliere i più piccoli rumori che potevano annunciare un ritorno offensivo degli indiani, poi risalirono in sella, riprendendo la corsa.

– Andiamo a raggiungere i compagni – disse il cow-boy ad Armando. – Dovranno essere assai inquieti per la nostra assenza e chi sa, forse ci crederanno già uccisi e scotennati.

– Credete che abbiano potuto raggiungere il rifugio?…

– Non abbiamo sentito alcuna detonazione echeggiare verso quelle rive, buon segno dunque. Ma…

– Che cosa avete?…

– Sapete che mi tormenta un pensiero?

– E quale?…

– Che ho avuto torto a non risalire il colle per vedere se Coda Screziata fosse stato proprio ucciso. Ordinariamente non manco mai i miei colpi di fucile però non sono interamente sicuro della morte di quel furfante

– Anche se non l’avete ucciso, credo che nessuna speranza gli rimarrebbe di riprendervi.

– Eh!… Giovanotto voi non sapete quanto gli indiani sono cocciuti nelle loro vendette.

– Volete un consiglio, signor Bennie?

– Parlate.

– Venite con noi nell’Alaska.

– Il viaggio non mi spaventa, ve lo assicuro quantunque quella regione sia un pò troppo lontana, vorrei però sapere che cosa andremo a fare laggiù.

– Ve lo dirà mio zio.

– Vedete, per me vecchio scorridore delle praterie cacciatore e cercatore d’oro, poco mi importa essere qua o a casa del diavolo purché ci sia da guadagnare un pò di dollari o un pò di sterline e non mi rinchiudano in una città. Cosa volete? Amo immensamente la vita libera e non vi rinuncerei a nessuna condizione.

– Nell’Alaska non ci sono città.

– Tanto meglio.

– Verrete con noi?

– E perchè no? Ormai il bestiame è perduto e se tornassi a Edmonton dovrei subire dei rabbuffi da parte del signor Harris il quale malgrado i suoi milioni e le sue mandrie sterminate tiene molto ai suoi buoi e a suoi cavalli.

– Credo che nulla avrete da perdere nel cambio, anzi tutto da guadagnare. Si tratta di raccogliere oro a palate.

– Corna di bisonte!… Ecco una parola che fa drizzare gli orecchi, specialmente a un vecchio minatore. Siete certo di questo?

– Sentirete mio zio, signor Bennie.

– Mi mettete in grande curiosità!… Eh!… Dorso Nero allunga un pò il trotto, mio caro. Mi preme vedere il signor Falcone!

Il cavallo che montava, come se lo avesse compreso accelerò la corsa seguito da quello di Armando e dagli altri due del carro, galoppando al margine della pineta. Quella seconda corsa durò una buona mezzora senza che gli impareggiabili mustani rallentassero un solo istante, sebbene galoppassero da dieci ore con poche soste; ad un tratto Bennie che era diventato silenzioso concentrando la sua attenzione a scrutare il bosco, esclamò improvvisamente:

– Là! Guardate Armando.

– Dove? – chiese il giovanotto.

– Dinanzi a noi, presso la riva del lago non vedete quell’isolotto distante soli pochi passi dai canneti?…

– Dove cresce quell’enorme pino?…

– Precisamente Armando, dentro quel colosso si nascondono Back e vostro zio.

– Speriamo di trovarli.

– Non ne dubito, Forza, Dorso Nero se vuoi riposare su un buon letto di fresche graminacee e di buffalo-grass.

I due cavalieri ripresero la corsa tenendo però in mano i fucili, non fidandosi completamente della tranquillità che regnava sulle rive del lago. Qualche animale cominciava ad apparire sui margini della foresta e fuggiva frettolosamente all’avvicinarsi dei cavalli. In prevalenza erano coyote, ma talvolta si vedeva anche qualche grosso lupo grigio, bestie pericolose, se sono in gruppo, e che osano scagliarsi anche contro gli uomini armati. Il pino gigante intanto ingrandiva a vista d’occhio. Era una di quelle punte enormi chiamate dagli americani sequoja e dai naturalisti pinnus albertina, che s’incontrano di frequente nelle parti occidentali dell’America del Nord, specialmente sulle falde della Sierra Nevada, della Nuova California, su quelle della Catena delle Cascate e delle Montagne Rocciose.

Questi colossi se non possono gareggiare coi famosi eucaliptus amygdalina del continente australiano, i quali raggiungono talvolta altezze incredibili, perfino cento e ventisei metri, li superano per circonferenza, la quale può talvolta superare quella dei più famosi baobab dell’Africa. Alla loro base sono così immensi che quaranta uomini non potrebbero abbracciarli. Il pino entro cui dovevano aver trovato rifugio il messicano e lo scotennato non era dei più grandi, pure lanciava la sua cima ad ottanta o novanta metri dal suolo e aveva alla base una tale circonferenza da poter riparare comodamente dodici uomini e altrettanti cavalli. Sorgeva su un isolotto lontano dieci o dodici metri dalla riva, occupandolo quasi tutto con la sua mole straordinaria. Bennie, giunto a circa duecento passi dalla riva, scorse due cavalli che pascolavano liberamente al margine del bosco, e subito li riconobbe.

– Sono quelli che montavano i nostri compagni – disse – Buon segno!

Aveva appena pronunciate quelle parole quando vide apparire sull’isolotto il messicano il quale gridò con voce allegra:

– Ben felice di rivedervi!… Erano quattro ore che mi struggevo per l’ansietà. E gli indiani?

– Tutti rimasti indietro.

– E Coda Screziata?

– Ucciso, almeno lo spero. È arrivato nessuno di quegli idrofobi su queste rive?

– E mio zio? – gridò Armando.

– Riposa tranquillamente su un bel fascio d’erbe fresche. Lasciate i cavalli e venite a riposarvi.

Bennie e Armando scesero di sella, liberarono gli animali dalle bardature, presero i fucili e le rivoltelle, e si affrettarono ad attraversare quel piccolo canale, dove 1’acqua era così bassa da non toccare il mezzo metro. Il messicano diede a entrambi una vigorosa stretta di mano, poi li fece girare intorno al colossale albero, arrestandosi dinanzi ad una apertura larga appena due piedi, ma molto alta prodotta dall’opera lenta, ma continua del tarlo.

– Accomodatevi nella mia casa.

– La conosco – rispose Bennie, ridendo.

Strisciò attraverso l’apertura e si trovò in una specie di caverna scavata dentro il gigante, e tanto vasta, da poter contenere quindici persone. Il tarlo aveva danneggiato l’interno del pino e il legno, roso, sminuzzato da chissà quanti secoli, era stato ridotto in polvere, che si era accumulata alla base.

 

In un angolo, comodamente sdraiato su un bel fascio d’erbe fresche che rendevano più soffice la polvere legnosa, Bennie scorse lo scotennato il quale si sollevò, tendendogli la mano:

– Sono ben contento di rivedervi ancora vivo – disse.

– E io di avervi ancora una volta salvato, signor Falcone – rispose il cow-boy.

– E Armando?…

– Eccomi, zio!… – gridò il giovanotto, balzando nell’interno e correndogli vicino.

– Signore – disse Bennie, rivolgendosi allo scotennato che sorrideva al nipote – potete essere orgoglioso di questo bravo giovanotto, ve lo dice un vecchio scorridore di prateria. Corna di bisonte!.... Con un compagno simile andrei anche più lontano dell’Alaska, ve lo assicuro.

– Oh!… non esagerate, signor Bennie, – rispose Armando.

– State zitto, corna di montone!… I cow-boys non esagerano nè mentono.

– Lo so che mio nipote è coraggioso, – rispose lo scotennato, gettando uno sguardo d’orgoglio su Armando. – E gli indiani, si sono ritirati?…

– Ritengo che Nube Rossa si sia ormai rassegnato a lasciarci in pace. D’altronde lui, che temeva la fame, ha fatto una bella razzia che lo consolerà del dispiacere di non aver potuto scotennarci. Diavolo!… Duecento capi di bestiame valgono bene cento bisonti.

– Quale rovina per voi, e tutto per salvarci.

– Non abbiamo perduto nulla, signore, e come dicevo poco fa a vostro nipote, il proprietario è tanto ricco da non accorarsi troppo per tale perdita.

– Mi dispiace però, per la cassa.

– Ancora!… – esclamò Bennie. – Vi è proprio necessaria per andare nell’Alaska?…

– Sì.

– Allora torneremo a prenderla. Suppongo che gli indiani non l’avranno mangiata.

– Nel nostro e nel vostro interesse, quella cassa ci sarà di immensa utilità nell’Alaska, se vorremo raccogliere molto oro e molto presto.

– Dell’oro!… Intendi, Back, il signore promette molto oro. Cosa hanno scoperto dunque nell’Alaska?…

– Delle miniere favolose – rispose lo scotennato.

– Ma aspettate!… Mi pare di aver udito parlare ad Edmonton di miniere che sarebbero state scoperte nel vecchio possedimento dell’Impero Russo, però nessuno voleva prestarvi fede, ritenendo tali notizie inventate per attirare coloni su quelle terre.

– È vero, – disse Back.

– No, amici, – disse lo scotennato. – Quelle notizie erano vere e io ne ho avuta la conferma da un irlandese che ho avuto la fortuna di salvare da morte certa. Quell’uomo ritornava dall’Alaska, dopo quattro mesi di viaggio, portando con sè centosessanta chilogrammi di oro puro e mi diceva ch’egli era stato il meno fortunato di tutti quelli che avevano lavorato in quei placers.

– Corna di satana!… Centosessanta chilogrammi d’oro!… – esclamarono Bennie e Back.

– Sì, e raccolti in soli quaranta giorni di lavoro.

– E dove si trovano quei placers così ricchi? – chiese Bennie.

– Nelle vallate del Klondyke, un fiume che nasce sui fianchi del monte Sant’Elia.

– Non lo conosco, non ho mai oltrepassato la frontiera dell’antica colonia russa, ma ho percorso i territori del Nord-Ovest e della Columbia britannica, e se quel fiume meraviglioso esiste… Corna di bisonte!… Noi lo troveremo!…

– La sua esistenza non si può mettere in dubbio essendo, dopo l’Yukon, uno dei più grossi corsi di acqua dell’Alaska.

– Allora noi ci andremo, signore. Io e Back ce ne intendiamo di placers e di claims, avendo già lavorato insieme nelle miniere argentifere del Colorado; e io ho cercato, per parecchio tempo, pagliuzze d’oro sul Fraser della Columbia.

– Ecco due validi aiuti trovati miracolosamente – disse lo scotennato. – Fra tre mesi potremo arrivare nell’Alaska nella stagione propizia e faremo raccolta d’oro; però è necessaria la cassa.

– Ci direte finalmente cosa contiene.

– Degli oggetti che probabilmente non troveremo nei campi auriferi del Klondyke e che ci saranno di immensa utilità. C’è uno sluice per la lavatura della sabbia, delle zappe, delle vanghe, dei picconi e una considerevole quantità di mercurio, necessario per purificare il prezioso metallo.

– Uno sluice e del mercurio!… Sono cose troppo utili per abbandonarle nella prateria, e che si devono assolutamente recuperare. Domani io e Back andremo a cercare il carro.

– E gli indiani?

– Bah!… Saranno ritornati ai loro wigwams per fare un’orgia di carne col bestiame del signor Harris.

– E il carro, contate di condurlo con noi?… – Mi sembra che, per un viaggio così lungo ci debba essere più d’impiccio che di utilità, e vi proporrei di adoperare i nostri animali. Siete buon cavaliere, voi?…

– Sì, lo sono, però la mia ferita non è ancora rimarginata e mi produce ancora dolori terribili.

– Attenderemo la vostra guarigione, signore. Intanto mancando di viveri occuperemo il tempo a cacciare, e a seccare le carni.

– Spero fra dieci giorni di poter essere in grado di tenermi in sella senza sofferenze.

– Ve lo auguro, signore. Ehi, Back, hai niente da offrirci?… Io e Armando moriamo di fame.

– Non ho per il momento che una fiaschetta di whisky, alcuni biscotti e delle mandorle di pino.

– Per ora, ci accontenteremo, è vero. Armando?… Domani cercheremo di sorprendere qualche capo di selvaggina, dei topi di prateria, per esempio, che sono numerosi in questi paraggi.

– C’è qualche cosa di meglio, Bennie – disse il messicano.

– Cos’hai scoperto?…

– Una tribù di castori.

– Dove?

– Alla foce d’un fiumicello che si scarica nel lago, un miglio più a sud.

– Benissimo!… Se si tratta di una distanza così breve, questa sera spero di potervi offrire un arrosto di castoro. Verrete, Armando?

– Disponete di me, signor Bennie.

– Facciamo colazione, poi una dormita e prima del tramonto andremo a trovare quegli intelligenti roditori.

X – LA CACCIA AI CASTORI

Due ore prima che il sole compisse il suo giro, Bennie e Armando, che non si erano abbastanza saziati con le mandorle del pino gigante, lasciavano l’isolotto con la speranza di procurarsi una cena ben più sostanziosa e delicata. Avute da Back le indicazioni necessarie per trovare il corso d’acqua, salirono sui loro mustani già ben pasciuti e riposati, dirigendosi verso il lago. Tenendosi sempre sul margine della pineta, per potere, in caso di pericolo, nascondervisi, in meno di mezz’ora attraversarono la distanza, giungendo al limite di una vasta radura circondata da una prateria ubertosa, le cui graminacee avevano raggiunto dimensioni enormi, probabilmente a causa dell’eccessiva ricchezza del suolo. Il vecchio scorridore, nello scorgere la radura, aveva subito detto ad Armando:

– Ecco le tracce del lavoro dei castori.

Scesero di sella, legando i due animali a un ramo basso di una quercia nera e si misero a costeggiare in silenzio le rive di quello stagno, procurando di tenersi nascosti dietro ai cespugli che crescevano numerosi. Quel bacino, poco profondo, aveva un circuito di un mezzo miglio e pareva abitato da soli volatili. Infatti non si vedeva che qualche superbo cigno che nuotava in mezzo all’acqua, qualche coppia di avvoltoi, brutti uccellacci grossi come tacchini, schifosi volatili che quando si vedono inseguiti, o feriti, vomitano addosso ai cacciatori il cibo che stanno digerendo, e pochi trampolieri, grossi come allodole e con le gambe lunghissime. Bennie e Armando, che procedevano sempre cauti, sapendo quanto siano diffidenti i castori, erano già giunti all’estremità opposta del bacino e stavano inoltrandosi in una valletta che pareva conducesse a un corso d’acqua, quando udirono un fragore assordante che pareva prodotto dalla caduta di un grosso albero dentro uno stagno.

– Gli indiani?… – chiese Armando, armando precipitosamente il fucile.

– No – rispose Bennie, sorridendo. – Sono i castori.

– A produrre questo fracasso?…

– Hanno fatto cadere qualche grosso pino.

– I castori!… Degli animali così piccoli? – chiese Armando, con stupore.

– Vi sorprende?

– Non vi pare che ci sia da meravigliarsi?

– Vi credo, perché voi non conoscete ancora i castori e non avete mai visto le dighe che quei piccoli rosicanti costruiscono.

– Delle dighe?…

– E che sembrano costruite dagli uomini, giovanotto. Quei meravigliosi costruttori, per ottenere dei bacini tranquilli che non vadano soggetti a piene, che non tarderebbero ad inondare le casette della colonia e anche a distruggerle, erigono sui corsi d’acqua delle dighe di una solidità incredibile che fanno argine alla corrente e la costringono qualora crescesse, a rovesciarsi altrove.

– E con quali materiali?…

– Con gli alberi che prima abbattono o meglio fanno cadere rosicchiandoli alla base, e che poi spingono nel fiume.

– È incredibile, signor Bennie.

– Può sembrarvi incredibile, ma più tardi vedrete che non vi ho raccontato delle frottole. Realmente, guardando quelle dighe che talvolta sono lunghissime, si stenterebbe e crederle opera di animali così piccoli. Voi non lo crederete, eppure i castori, specialmente in questi territori, e anche in quelli più settentrionali, con i loro argini hanno fatto subire al suolo delle trasformazioni straordinarie; hanno creato laghi e canali; hanno inondate foreste immense facendo morire gli alberi; hanno modificato il corso di numerosi fiumi e hanno tramutato delle paludi in opulente praterie. Si calcola che questi animaletti abbiano sommerso con le loro barriere, metà del territorio nelle vicinanze della baia di Hudson.

– E sono lunghe le dighe?…

– Ce ne sono alcune che misurano perfino mezzo miglio.

– Sommergendo tante terre i castori devono produrre danni rilevanti.

– Certo, e la loro razza, cacciata accanitamente, va rapidamente scomparendo. La loro pelle è sempre ricercata, e i cacciatori della baia di Hudson e quelli della Compagnia Americana dell’Alaska compiono ogni anno delle vere stragi.

– Ditemi, signor Bennie, è vero che i castori sanno fabbricarsi delle vere casette?

– Verissimo e ve lo mostrerò fra poco. Sono di forma rotonda, solitamente costruite con legni leggeri, per lo più di salice o di ontano, e spalmate con una specie di stucco impermeabile.

– E come fanno a spalmarle con lo stucco?…

– Si servono della loro larga coda.

– Come i muratori adoperano la cazzuola.

– Precisamente, giovanotto. Ah!… Ci siamo!…

Erano allora giunti all’estremità della valletta, che terminava in un bacino del circuito di quattrocento metri, circondato da pioppi, ontani, salici e abeti, comunicante, per mezzo di un canale, con un piccolo fiume, che si scaricava nel lago. La prima cosa che Armando scorse, fu una solida diga, costruita con tronchi d’albero piantati nel letto del bacino, lunga oltre sessanta metri, e disposta in modo da sbarrare l’ingresso del canale.

– È stata costruita dai castori, signor Bennie?… – chiese

– Sì e, come vedete, impedisce all’acqua che il canale riceve dal fiume, di riversarsi nel bacino.

– È una costruzione meravigliosa.

– Certamente.

– E i castori dove sono?…

– Là, guardate: non vedete sorgere dall’acqua quelle casette rotonde?… Sono almeno tre dozzine.

– Sì, le scorgo.

– Ed ecco i castori al lavoro; li vedete nuotare attorno a quel grosso ontano che galleggia in mezzo al bacino, e che lentamente viene spinto verso la diga? Ha ancora i suoi rami perché è stato da poco abbattuto, ma i denti dei castori si porranno ben presto all’opera e li recideranno tutti.

Armando guardò nella direzione indicata e vide un albero galleggiare alla superficie del laghetto, circondato da uno stuolo di animaletti.

– Ora mettiamoci in caccia, – disse Bennie. – Desidero ardentemente un buon arrosto.

– E non temete che gli indiani sentano lo sparo dei nostri fucili?…

– Ormai saranno già giunti sulle rive occidentali del lago.

– Si lasceranno avvicinare i castori?…

– Venite e vedrete che li sorprenderemo al lavoro; procuriamo però di tenerci sempre sottovento, e di non far rumore. Affrettiamoci poiché non è prudente lasciare soli i nostri cavalli al margine della foresta. I baribal non mancano sulle rive del lago.

Si cacciarono in mezzo agli alberi che si ergevano numerosi intorno al bacino, e avanzarono in silenzio, tenendosi sempre sottovento, per non allarmare i piccoli lavoratori, i quali hanno l’olfatto acutissimo. Avevano già percorso duecento passi, quando Bennie s’arrestò, mormorando ad Armando:

 

– Credo che avremo un arrosto migliore e ben più grosso di un castoro.

– Che cosa avete visto?…

– Guardate dinanzi a noi, sulla riva del bacino.

Armando guardò nella direzione che il cow-boy gli indicava, e vide un animale, seduto sulle zampe posteriori. Essendosi alzata la luna, la quale metteva la sua luce proprio di fronte a quell’animale, Armando potè osservarlo attentamente. Rassomigliava a un piccolo orso, e aveva anche qualche cosa del topo, di un topo enorme, almeno nel muso. Era lungo oltre mezzo metro, con una coda di venticinque o trenta centimetri, e aveva il pelame giallognolo, screziato di nero. Completamente rassicurato dal silenzio che regnava nella foresta, e nulla avendo da temere da parte dei castori, se ne stava placidamente seduto al margine del bacino, cacciando di quando in quando le zampe posteriori nell’acqua per ritirare qualche cosa che manipolava per bene, collocandola poi vicino a sè.

– Che cosa fa? – chiese Armando, stupito. – Si direbbe che quell’animale stia lavando o pescando.

– E infatti il raccoon è occupato a lavare il suo cibo.

– Eh!… Dite?…

– Che prima di mettersi a cenare, da quell’animale pulito che è, lava le sue castagne, o le larve i pesci i molluschi, che costituiscono il suo piatto ordinario.

– Scherzate?…

– No, Armando. Il raccoon, o procione, od orso lavatore, se vi piace di più chiamarlo così, ha questa bella abitudine. Guardate con quanta serietà lava per bene il suo cibo, e lo accumula sulla riva per poi mangiarselo placidamente.

– Vedo, signor Bennie; che disgrazia essere così a corto di viveri.

– Lo so, ma abbiamo fame e la carne del raccoon è eccellente

Puntò il fucile, mirando l’animale che continuava tranquillamente a lavare a una distanza di settanta od ottanta passi, poi premette il grilletto. La detonazione echeggiò nella foresta, facendo fuggire i castori, seguita poi da un tonfo sordo. Il povero raccoon, interrotto bruscamente nella sua operazione dalla brutale palla del cacciatore, era caduto nel bacino. Bennie e Armando si lanciarono sulla riva, e s’affrettarono a pescarlo, prima che l’acqua lo portasse al largo.

– Povera bestia – disse Armando. – Ucciso mentre si preparava a cenare.

– Servirà da cena a noi, giovanotto, e anche da colazione, essendo ben grasso. Ritorniamo, poiché comincio a udire i latrati dei coyote, e le urla dei lupi.

Si caricò l’animale sulle spalle, e tutti e due si misero in cammino, seguendo le rive del bacino. La notte era splendida e tranquilla. La luna, in tutto il suo splendore, saliva in cielo, illuminando la prateria dei castori e la foresta, mentre le stelle scintillavano a milioni. Una fresca brezza carica degli acuti profumi dell’assenzio e dell’erba menta della vicina prateria, soffiava a intervalli, facendo stormire le foglie degli ontani, delle quercie nere, dei salici e degli abeti. In lontananza si udivano trillare i grossi grilli, e echeggiare di quando in quando l’ululato di qualche lupo grigio o il latrato di qualche coyote. Bennie ed Armando s’affrettavano, essendo un po’ inquieti per i cavalli che avevano lasciato al di là della valletta, legati al tronco di un albero. Attraversata la piccola prateria dei castori, si spinsero fra le alture, e giunti all’altra estremità, udirono i loro mustani nitrire in modo tale da denunciare una vera inquietudine. Bennie, che temeva fossero stati assaliti da una torma di lupi o da qualche orso, scese rapidamente le ultime rocce della valletta, e, con sua grande sorpresa, vide i due mustani completamente liberi, che caracollavano sul margine del bosco.

– Che cosa vuol dire ciò? – Si chiese, afferrando il fucile. – Che abbiano avuta tanta forza da strappare le briglie?… Giovanotto, stiamo attenti e prepariamo le armi.

Con un fischio chiamò i due mustani, i quali s’affrettarono ad accorrere, caracollando e nitrendo.

– Vediamo – disse, dopo aver gettato all’intorno uno sguardo sospettoso.

Prese le briglie e vide subito che erano state spezzate o tagliate a metà.

– Uhm!… – mormorò, – che mistero è questo?…

– Sono state spezzate le briglie?…

– No, Armando, recise con un colpo di coltello – rispose il cow-boy, aggrottando la fronte.

– E da chi?…

– Ecco il mistero: da chi?… Che io sappia, nessun animale può recidere così nettamente delle corregge di questo spessore.

– Siete ben certo di non ingannarvi?…

– Oh!… Certissimo.

– Allora qualcuno è venuto qui!

– Così la penso anch’io.

– E chi?…

– Chi!… Chi!… Il diavolo mi porti se lo so.

– Qualche indiano forse?…

– È probabile.

– E perché non li ha condotti con sè?…

– Per il semplice motivo che gli sarà mancato il tempo.

– Allora quell’uomo può essere poco lontano.

– Certo, Armando, e forse sta spiandoci.

– Che cosa contate di fare?

– Salire subito a cavallo, e allontanarci al galoppo per impedirgli di seguirci e di scoprire il nostro rifugio. Suvvia, montate!…

Salirono in sella. Bennie caricò l’orso lavatore che non voleva assolutamente abbandonare, e dopo aver guardata un’ultima volta la foresta s’allontanarono a tutta velocità, spronando continuamente le loro cavalcature. Dopo mezz’ora di corsa velocissima giunsero sulle rive del lago, di fronte al pino gigante, la cui cima pareva toccare le stelle.

Attraversarono il braccio d’acqua e scesero dinanzi al nascondiglio, dove trovarono Back che stava legando gli altri cavalli a una radice del colosso, non fidandosi di lasciarli liberi al margine della pineta.

– Nulla di nuovo? – gli chiese Bennie.

– Assolutamente nulla, – rispose il messicano.

– Non hai veduto nessun indiano?…

– No, ma perché questa domanda?… Mi sembri inquieto, Bennie.

– Lo sono realmente, perché qualcuno cerca di scoprire il nostro rifugio.

– Di già?…

– Bah!… Veglieremo attentamente, Back. Ecco intanto un bel raccoon che ci fornirà una deliziosa cena.

– Sia il benvenuto: il fuoco lo aspetta.