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Il Corsaro Nero

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CAPITOLO XX. LA CACCIA AL GOVERNATORE DI MARACAYBO

Mentre i filibustieri ed i bucanieri del Basco e dell’Olonese, entrati in Maracaybo senza incontrare la minima resistenza, s’abbandonavano al saccheggio piú sfrenato, riservandosi piú tardi di andar a scovare nei boschi gli abitanti, per privarli anche di quello che avevano cercato di salvare, il Corsaro Nero ed i suoi quattro compagni, dopo essersi armati di fucili e provvisti di viveri, si erano messi animosamente in caccia, dietro le tracce del governatore.

Appena usciti dalla città, si erano gettati in mezzo alle grandi boscaglie fiancheggianti il vastissimo lago di Maracaybo, prendendo un sentieruzzo appena praticabile, che non doveva andare molto lontano, cosí almeno aveva detto il vendicativo catalano.

Le prime tracce erano state subito scoperte. Erano le impronte lasciate da otto cavalli sul suolo umido della foresta e da due piedi umani, ossia di otto cavalieri e di un pedone, numero corrispondente esattamente a quello detto dal prigioniero spagnuolo.

– Lo vedete!… – aveva esclamato il catalano, con aria trionfante. -

Per di qui è passato il governatore col suo capitano ed i sette soldati, uno dei quali era partito senza cavallo, essendo caduto il suo nel momento della fuga, rompendosi le gambe.

– Lo abbiamo veduto – rispose il Corsaro. – Credi che abbiano molto vantaggio su di noi?

– Forse cinque ore.

– È già molto, ma siamo tutti buoni camminatori.

– Lo credo, non sperate però di raggiungerli né oggi, né domani. Forse voi non conoscete ancora le foreste del Venezuela e vedrete quante inaspettate sorprese ci preparano.

– E chi ce le preparerà queste sorprese?

– Gli animali feroci ed i selvaggi.

– Non ci fanno paura né gli uni né gli altri.

– I Caraibi sono fieri.

– Non lo saranno meno col Governatore.

– Sono suoi alleati e non vostri.

– Che si faccia guardare le spalle da quei selvaggi?

– È probabile, capitano.

– Non m’inquieto. I selvaggi non mi hanno mai fatto paura.

– Meglio per voi. Andiamo, caballeros: ecco la grande foresta.

Il sentiero era bruscamente cessato dinanzi ad una macchia enorme, ad una vera muraglia di verzura e di tronchi colossali, la quale pareva che non presentasse alcun passaggio per degli uomini a cavallo.

Nessuno può formarsi un’idea della lussureggiante vegetazione del suolo umido e caldo delle regioni sud-americane e specialmente dei bacini dei fiumi giganti.

Quel terreno vergine, continuamente fertilizzato dalle foglie e dalle frutta, che da secoli e secoli si ammonticchiano, è coperto costantemente da tali ammassi di vegetali, che forse in nessun’altra regione del mondo se ne vedono di eguali, poiché colà le piú umili piante assumono proporzioni gigantesche.

Il Corsaro Nero e lo spagnuolo si erano arrestati dinanzi alla macchia enorme, ascoltando con profonda attenzione, mentre i due filibustieri ed il negro scrutavano il folto fogliame degli alberi vicini ed i cespugli, temendo qualche sorpresa.

– Dove saranno passati? – chiese il Corsaro allo spagnuolo. – Non vedo alcuna apertura dinanzi a questo ammasso di alberi e di liane.

– Uhm!… – mormorò il catalano. – Il diavolo non se li sarà portati via, almeno cosí spero. Mi rincrescerebbe per le venticinque bastonate che mi bruciano ancora il dorso.

– Ed i loro cavalli non avranno avute le ali, suppongo, – disse il Corsaro.

– Il governatore è astuto ed avrà cercato di far perdere le sue tracce. Si ode alcun rumore dalla macchia?…

– Sí, – disse Carmaux. – Laggiú mi pare d’udire dell’acqua a scorrere.

– Allora ho trovato, – disse il catalano.

– Che cosa? – chiese il Corsaro.

– Seguitemi, caballeros.

Il soldato tornò indietro, guardando il suolo e ritrovate le orme dei cavalli, le seguí inoltrandosi fra gruppi di cari, sorta di palme dal fusto spinoso che danno certe frutta somiglianti alle nostre castagne, raccolte in grandi grappoli.

Procedendo con precauzione per non lasciare le sue vesti su quelle lunghe ed acute spine, giunse ben presto dove Carmaux aveva udito il mormorio d’un corso d’acqua.

Guardò ancora a terra, cercando di discernere fra le foglie e le erbe le orme dei quadrupedi, poi allungò il passo e non si arrestò che sulla riva d’un fiumiciattolo largo due o tre metri, e dalle acque nerastre.

– Ah!… ah!… – esclamò allegramente. – Lo avevo detto che il vecchio è furbo.

– E che cosa vuoi concludere? – chiese il Corsaro, che cominciava ad impazientirsi.

– Che per cacciarsi nella grande foresta e far perdere le sue tracce è sceso in questo fiumicello.

– È profonda l’acqua?

Il catalano immerse la sua spada e cercò il fondo.

– Non vi sono che trentacinque o quaranta centimetri di acqua.

– Vi saranno dei serpenti?…

– No, sono certo di questo.

– Allora entriamo anche noi in acqua ed affrettiamo il passo. Vedremo fin dove si saranno serviti dei cavalli.

Entrarono tutti e cinque nel fiumicello, lo spagnuolo prima e il negro ultimo, essendo incaricato di vegliare alle spalle; si misero in marcia rimescolando quelle acque oscure, fangose, ripiene di foglie secche e che esalavano dei miasmi pericolosi, prodotti dai vegetali in decomposizione.

Quel piccolo corso d’acqua era ingombro d’ogni specie di piante acquatiche, e che erano state in piú luoghi calpestate e lacerate. Vi erano cespugli di mucumucú, specie di aroidi leggere, che si tagliano facilmente, essendo i loro fusti composti quasi interamente d’una midolla spugnosa; gruppi di legno cannone, dai fusti lisci, a riflessi argentei e che servono a formare delle zattere leggerissime; gambi sarmentosi di robinie, specie di liane che contengono un succo lattiginoso, che ha la proprietà sorprendente di ubriacare i pesci, se viene mescolato alle acque dei fiumi o dei laghetti, e parecchie altre che rendevano faticoso il cammino.

Un silenzio quasi perfetto regnava sotto le cupe volte dei grandi vegetali, curvanti i loro rami sul piccolo corso d’acqua. Solamente di tratto in tratto, ad intervalli regolari, si udiva echeggiare bruscamente come uno squillo di campana, il quale faceva alzare vivamente il capo a Carmaux ed a Wan Stiller, tanto era naturale.

Quello squillo che aveva una vibrazione argentina, e che si propagava nitido, destando tutti gli echi della grande foresta vergine, non proveniva da una campana; lo mandava un uccello che si teneva nascosto fra le fitte fronde di qualche albero, dal campanaro, cosí chiamato dagli spagnuoli, un volatile grosso come un piccolo colombo, tutto bianco ed il cui grido si ode ad una distanza di ben tre miglia.

La piccola carovana, sempre in silenzio, continuava a procedere rapida, curiosa di sapere fin dove il Governatore e la sua scorta avevano potuto utilizzare i cavalli, passando sotto ammassi di verzura che s’intrecciano cosí strettamente, da intercettare quasi completamente la luce del sole, quando verso la riva sinistra si udí improvvisamente echeggiare una detonazione abbastanza violenta, seguita da una pioggia di piccoli proiettili, i quali caddero nel fiumiciattolo, producendo un rumore analogo al cadere della gragnuola.

– Tuoni d’Amburgo!… – esclamò Wan Stiller, che si era istintivamente curvato. – Chi ci mitraglia?

Anche il Corsaro si era abbassato, armando precipitosamente il fucile, mentre i suoi filibustieri erano vivamente retrocessi. Solamente il catalano non si era mosso, e guardava tranquillamente le piante che ingombravano le due rive.

– Ci assalgono?… – chiese il Corsaro.

– Non vedo nessuno, – rispose il catalano, ridendo.

– E quella detonazione?… Non l’hai udita tu?…

– Sí, capitano.

– E non t’inquieti?…

– Vedete bene che io rido invece.

Un secondo scoppio, piú forte del primo, si udí questa volta in alto e un altra pioggia di proiettili cadde in acqua.

– È una bomba!… – esclamò Carmaux retrocedendo.

– Sí, ma vegetale, – rispose il catalano. – So di che cosa si tratta.

Piegò verso la riva destra e mostrò ai compagni una pianta, che pareva appartenesse alla specie delle euforbiacee, alta venticinque o trenta metri coi rami coperti di spine e le foglie larghe venti o trenta centimetri. Alle sue estremità pendevano certe frutta un po’ rotonde, avvolte in una corteccia che sembrava legnosa.

– State attenti, – diss’egli. – Le frutta sono appassite.

Non aveva ancora finito di parlare che uno di quei globi scoppiò con grande fracasso, lanciando a destra e a sinistra una pioggia di granelli.

– Non fanno male, – disse il catalano, vedendo Carmaux e Wan Stiller balzare indietro. – Sono semplicemente semi. Quando il frutto si lascia appassire, la corteccia legnosa acquista una forte resistenza e fermentando, dopo un certo tempo, scoppia, lanciando a notevole distanza i semi contenuti nei sedici scompartimenti interni.

– Sono almeno buone da mangiarsi quelle frutta?

– Contengono una sostanza lattiginosa, mangiata solamente dalle scimmie, – rispose il catalano.

– Al diavolo anche gli alberi bombe!… – esclamò Carmaux. – Credevo che fossero spagnuoli del governatore che ci mitragliassero.

– Avanti, – disse il Corsaro. – Non dimenticate che siamo in caccia.

Ripresero la marcia nelle acque del fiumicello, e, percorsi due o trecento passi, scorsero dinanzi a sé delle masse nerastre semisommerse che ostacolavano la corrente.

– Hai veduto qualche albero granata, questa volta? – chiese Carmaux.

– Qualche cosa di meglio. O m’inganno assai o quelle masse sono i cavalli del governatore e della sua scorta.

– Adagio, – disse il Corsaro. – I cavalieri possono essere accampati nei dintorni.

– Lo dubito, – rispose il catalano. – Il governatore sa di aver da far con voi e avrà sospettato un accanito inseguimento.

 

– Sia pure, ma siamo prudenti.

Armarono i fucili, si misero l’uno dietro l’altro in fila indiana per non farsi sterminare tutti da una scarica improvvisa, e s’avanzarono silenziosamente, tenendosi curvi e cercando di celarsi sotto i rami degli alberi, incrociantisi sopra il fiumicello. Ogni dieci o dodici passi, però, il catalano si arrestava per ascoltare con grande attenzione e per scrutare le fronde e le liane che ingombravano le due rive, temendo sempre qualche sorpresa.

Procedendo cosí, con mille precauzioni, giunsero là dove giacevano quelle masse oscure. Non si erano ingannati: erano i cadaveri di otto cavalli, caduti l’uno accanto all’altro e semi immersi nelle acque nere del fiumicello.

Il catalano ne rimosse uno, aiutato dall’africano, e vide che era stato scannato con un colpo di navaia.

– Li conosco, – diss’egli. – Sono i cavalli del governatore.

– Dove saranno fuggiti i cavalieri?… – chiese il Corsaro.

– Si saranno cacciati nella foresta.

– Vedi nessuna apertura?…

– No, ma… ah!… i furbi!…

– Cos’hai?…

Vedete questo ramo spezzato, da cui cola ancora qualche goccia di linfa?

– Ebbene?…

– Guardate lassú, due altri ve ne sono pure stati rotti.

– Vedo.

– Ecco, i furbi si sono issati su questi rami e si sono calati al di là della macchia. Non ci resta che imitare la manovra.

– Cosa facile per noi marinai, – disse Carmaux. – Ohé!… Issatevi!…

Il catalano allungò le sue braccia smisurate e magre come zampe di ragno e si issò su di un grosso ramo, seguito da tutti gli altri, con un accordo ammirabile. Da quel primo ramo passò su di un secondo che si allungava orizzontalmente, poi su di un terzo, che apparteneva ad un altro albero, e continuò cosí quella marcia aerea per trenta o quaranta metri osservando sempre attentamente i ramicelli e le foglie vicine. Giunto in mezzo ad una rete di liane, si lasciò cadere bruscamente al suolo, mandando un grido di trionfo.

– Ehi, catalano!… – esclamò Carmaux. – Hai trovato qualche ciottolo d’oro? Si dice che abbondano in questo paese.

– È una misericordia, invece; per noi può avere l’egual valore se non di piú. Buona, nel cuore del Governatore.

Il Corsaro Nero si era pure lasciato cadere al suolo ed aveva raccolto un pugnale dalla lama corta, rabescata e dalla punta sottile come un ago.

– Deve averlo perduto il capitano che accompagnava il governatore, – disse il catalano. – Gliel’ho veduto nella cintola.

– Allora hanno preso terra qui, – disse il Corsaro

– Ecco là il sentiero aperto nella boscaglia dalle loro scuri. So che tutti ne avevano una, appesa all’arcione dei loro cavalli.

– Benissimo, – disse Carmaux. – Ci faranno risparmiare della fatica e procedere piú speditamente.

– Silenzio, – esclamò il Corsaro. – Si ode nulla?…

– Assolutamente nulla, – rispose il catalano, dopo d’aver ascoltato alcuni istanti.

– Ciò vuol dire che sono lontani. Se ci fossero vicini si udrebbero distintamente i colpi delle loro scuri.

– Devono avere un vantaggio di quattro o cinque ore.

– È molto; speriamo nondimeno di poterle guadagnare.

Si erano cacciati entro quella specie di sentiero, aperto dai fuggiaschi nel mezzo della foresta vergine. Non era possibile ingannarsi, perché i rami recisi non si erano ancora appassiti e si trovavano in grande numero sparsi al suolo.

Il catalano ed i filibustieri si erano messi a correre per avvantaggiarsi: ad un tratto la loro rapida marcia fu arrestata da un ostacolo imprevisto, e che il negro, il quale era a piedi nudi, e Carmaux e Wan Stiller che non portavano stivali lunghi, non potevano affrontare se non con grandi precauzioni.

Quell’ostacolo era costituito da una vasta zona di spine ansara, la quale si estendeva fitta fitta fra i tronchi colossali della foresta. Quelle piante spinose crescono in gran numero in mezzo alle selve vergini del Venezuela e delle Guiane, e rendono le marce quasi impossibili per gli uomini che non hanno le gambe riparate da uose di grosso cuoio e da solidi stivali, essendo le loro punte cosí acute da trapassare qualsiasi panno non solo, ma talvolta perfino le suole delle scarpe.

– Tuoni d’Amburgo!… – esclamò Wan Stiller, che per primo si era impegnato fra quelle spine. – È la via dell’inferno questa? Usciremo di qui scorticati come S. Bartolomeo.

– Ventre di pesce-cane!… – urlò Carmaux, che era balzato subito indietro. – Diverremo tutti zoppi se saremo costretti ad attraversare questi triboli! I maghi della foresta dovevano mettere un cartello colla scritta: è vietato il passaggio.

– Bah! Ne troveremo un altro, – disse il catalano. – Disgraziatamente è troppo tardi.

– Siamo costretti a fermarci? – chiese il Corsaro.

– Guardate!…

La luce scemava allora bruscamente, quasi di colpo e un’oscurità profonda precipitava sulla foresta, invadendo tutti i recessi.

– Si arresteranno anche essi? – chiese il Corsaro colla fronte aggrottata.

– Sí, finché si alzerà la luna.

– Spunta?…

– A mezzanotte.

– Accampiamoci.

CAPITOLO XXI. NELLA FORESTA VERGINE

Il piccolo drappello aveva scelto, per attendere il sorgere della luna, uno spazio occupato dalle enormi radici d’un summameira, un albero dal fusto colossale che doveva torreggiare su tutti i vegetali della foresta.

Questi alberi, che toccano sovente i sessanta ed anche i settanta metri d’altezza, sono sorretti da speroni naturali formati da radici d’uno spessore straordinario, assai nodose e perfettamente simmetriche, le quali, scostandosi dalla base, formano una serie di arcate assai bizzarre, sotto cui possono trovare comodo rifugio una ventina e piú di persone.

Era una specie di nascondiglio fortificato, che metteva il Corsaro ed i suoi compagni al sicuro da ogni improvviso assalto, sia da parte delle fiere, che degli uomini.

Accomodatisi alla meglio sotto il gigante della foresta e rosicchiati alcuni biscotti con un pezzo di prosciutto, si accordarono di dormire fino al momento di riprendere la caccia, dividendo le quattro ore che rimanevano in altrettanti quarti di guardia, non essendo prudente abbandonarsi tutti fra le braccia di Morfeo, in mezzo alla foresta vergine.

Rovistate le erbe per tema che nascondessero qualche serpente pericoloso, essendocene moltissimi di velenosi nelle foreste del Venezuela, misero subito a profitto l’ottimo consiglio, allungandosi placidamente fra le foglie cadute dal colosso, mentre l’africano e Carmaux montavano di guardia per vegliare sulla sicurezza di tutti.

Il crepuscolo, che dura solamente qualche minuto in quelle regioni equatoriali, era già sparito e una oscurità profondissima era piombata sulla grande foresta facendo tacere di colpo gli uccelli ed i quadrumani.

Un silenzio assoluto, pauroso, regnò per alcuni istanti, come se tutti gli abitanti da piuma e da pelo fossero improvvisamente scomparsi o morti, ma ad un tratto un concerto strano, indiavolato, echeggiò bruscamente fra quella oscurità, facendo traballare Carmaux che non era affatto abituato a passare le notti in mezzo alle foreste vergini.

Pareva che una banda di cani avesse preso posto fra i rami degli alberi, perché in alto si udivano dei latrati, dei guaiti e dei brontolii prolungati, accompagnati da cigolii ancor piú strani e che sembravano prodotti da migliaia di pulegge giranti.

– Ventre di pesce-cane! – esclamò Carmaux, guardando in aria. Che cosa succede lassú? – Si direbbe che i cani di questo paese hanno le ali come gli uccelli e le unghie come i gatti. Come hanno fatto a salire sugli alberi?… Sapresti dirmelo, compare sacco di carbone?

Il negro, invece di rispondere, si mise a ridere in silenzio.

– E questi che cosa sono?… – continuò Carmaux. – Si direbbe che cento marinai facciano cigolare tutti i buscelli d’una nave, per fare non so quale manovra indiavolata. Che siano delle scimmie, compare?…

– No, compare bianco, – rispose il negro. – Sono delle rane, tutte rane.

– Che cantano in questo modo?

– Sí, compare.

– E questi che cosa sono?… Odi?… Pare che un migliaio di fabbri stiano battendo tutte le pentole di rame di compare Belzebú.

– Sono ranocchi.

– Ventre di pesce-cane!… Se me lo dicesse un altro, direi che vuole burlarsi di me o che è diventato matto. E questo è un ranocchio di nuova specie?

Una specie di miagolio potente, seguito da una specie di ululato, era rintronato improvvisamente nell’immensa foresta vergine, facendo tacere di colpo i concerti formidabili e scordati dei ranocchi.

Il negro aveva alzato vivamente il capo ed aveva raccolto il fucile che teneva a fianco, ma con un gesto cosí precipitoso, che denotava una viva apprensione.

– Pare che questo messere che urla cosí forte non sia un ranocchio, è vero compare sacco di carbone?

– Oh no! – esclamò l’africano, con un tremito nella voce.

– Che cos’è dunque?

– Un giaguaro.

– Fulmini di Biscaglia!… Il formidabile predatore?

– Si, compare.

– Preferisco trovarmi dinanzi a tre uomini risoluti a sbudellarmi, piuttosto che aver da fare con quel carnivoro. Si dice che valga le tigri dell’India.

– Ed i leoni dell’Africa, compare.

– Per centomila pesci-cani!…

– Cos’hai?

– Penso che se veniamo assaliti non potremo far uso delle nostre armi da fuoco.

– E perché?

– Se udissero gli spari, il Governatore e la sua scorta sospetterebbero subito di essere seguiti e si affretterebbero a prendere il largo.

– Oh! Vorresti tu affrontare un giaguaro coi coltelli?

– Adopreremo le sciabole.

– Vorrei vederti alla prova.

– Non augurarmela, compare sacco di carbone.

Un secondo miagolio, piú potente del primo e piú vicino, echeggiò, in mezzo alla tenebrosa boscaglia, facendo sussultare il negro.

– Diavolo!… – brontolò Carmaux, che cominciava a diventare inquieto.

– La faccenda diventa seria.

In quell’istante vide il Corsaro Nero sbarazzarsi del mantello che gli serviva di coperta ed alzarsi.

– Un giaguaro?… – chiese con voce tranquilla.

– Si, comandante.

– È lontano?…

– No, e quel che è peggio, pare che si diriga da questa parte.

– Qualunque cosa succeda, non fate uso delle armi da fuoco.

– Quel predone ci divorerà.

– Ah!… Lo credi, Carmaux?… Lo vedremo.

Si levò il mantello, lo piegò con una certa cura, se lo avvolse attorno al braccio sinistro poi sguainò la spada e s’alzò lestamente.

– Dove l’hai udito?… – chiese.

– Da quella parte, comandante.

– Lo aspetteremo.

– Devo svegliare il catalano e Wan Stiller?

– È inutile; basteremo noi. Fate silenzio e ravvivate il fuoco.

Tendendo gli orecchi, si udiva in mezzo agli alberi quel ron ron particolare dei gatti e dei giaguari, e scrosciare di quando in quando le foglie secche. Il predatore doveva essersi già accorto della presenza di quegli uomini e s’avvicinava cautamente, sperando forse di piombare improvvisamente su qualcuno di loro e di rapirlo.

Il Corsaro, immobile presso il fuoco, colla spada in pugno, ascoltava attentamente e teneva gli sguardi fissi sulle macchie vicine, pronto a prevenire l’assalto fulmineo della fiera. Carmaux ed il negro gli si erano messi dietro, l’uno armato della sciabola d’arrembaggio e l’altro del fucile, ma che teneva impugnato per la canna onde servirsene come mazza.

Lo scrosciare delle foglie continuava dalla parte ove la foresta era piú folta ed anche il ron ron s’avvicinava, però lentamente. Si capiva che il giaguaro s’avvicinava con prudenza.

Ad un tratto ogni rumore cessò. Il Corsaro si era curvato innanzi per meglio ascoltare, ma invano; nel rialzarsi, i suoi sguardi s’incontrarono con due punti luminosi che luccicavano sotto un cespuglio assai fitto. Erano immobili ed avevano un lampo verdastro e fosforescente.

– Eccolo là, comandante, – mormorò Carmaux.

– Lo vedo, – rispose il Corsaro, con voce sempre tranquilla.

– Si prepara ad assalirci.

– Lo aspetto.

– Che diavolo d’uomo, – borbottò il filibustiere. – Non avrebbe paura di compare Belzebú e di tutti i suoi coduti compari.

Il giaguaro si era fermato a trenta passi dall’accampamento, distanza ben breve per simili carnivori che sono dotati d’uno slancio poderoso, pari e forse maggiore di quello delle tigri, tuttavia non si decideva ad assalire. Lo inquietava il fuoco che ardeva ai piedi dell’albero, o l’attitudine risoluta del Corsaro?… Rimase sotto quel fitto cespuglio un minuto, senza staccare gli occhi dall’avversario, conservando una immobilità minacciosa, poi quei due punti luminosi scomparvero bruscamente.

 

Per qualche istante si udirono agitarsi le fronde e scrosciare le foglie, poi ogni rumore cessò.

– Se n’è andato, – disse Carmaux, sospirando. – Che i caimani lo mangino in tre bocconi.

– Sarà forse lui che mangerà i caimani, compare, – disse il negro.

Il Corsaro stette alcuni minuti fermo al suo posto, senza abbassare la spada, poi, non udendo piú nulla, ringuainò tranquillamente l’arma, spiegò il mantello, se lo mise intorno e si coricò ai piedi dell’albero, dicendo semplicemente:

– Se ritorna, chiamatemi.

Carmaux e l’africano si ritrassero dietro al fuoco e ripresero la loro guardia, tendendo però continuamente gli orecchi e guardando da tutte le parti, essendo poco persuasi che il feroce predatore si fosse definitivamente allontanato.

Alle 10 svegliarono Wan Stiller ed il catalano, li avvertirono della vicinanza del carnivoro, e s’affrettarono a coricarsi accanto al Corsaro, il quale già dormiva placidamente, come se si fosse trovato nella cabina della sua Folgore.

Quel secondo quarto di guardia passò piú tranquillo del primo quantunque Wan Stiller ed il suo compagno avessero udito piú volte echeggiare nella cupa foresta il miagolio del giaguaro.

A mezzanotte, essendosi alzata la luna, il Corsaro, che si era già levato, diede il segnale della partenza, sperando, con una rapida marcia, di poter raggiungere all’indomani il suo mortale nemico.

L’astro notturno splendeva superbamente in un cielo purissimo versando la sua pallida luce sulla grande foresta, ma ben pochi raggi riuscivano a penetrare attraverso la fitta volta delle foglie giganti.

Nondimeno qualche cosa ci si vedeva sotto la boscaglia permettendo ai filibustieri di procedere abbastanza speditamente e di vedere gli ostacoli che intercettavano il passaggio.

Il sentiero aperto dalla scorta del Governatore era stato smarrito, però non si preoccupavano. Sapevano ormai che egli marciava verso il sud per riparare a Gibraltar, ed essi seguivano quella direzione orientandosi colle bussole, certi che un momento o l’altro l’avrebbero raggiunto.

Camminavano da circa un quarto d’ora, aprendosi faticosamente il passo fra i rami, le liane e le radici mostruose che ingombravano il suolo quando il catalano, che marciava in testa al drappello, s’arrestò bruscamente.

– Che cos’hai? – chiese il Corsaro che veniva dietro.

– Ho che è la terza volta in venti passi che mi giunge all’orecchio un certo rumore sospetto.

– E quale?…

– Si direbbe che qualcuno cammini parallelamente a noi, al di là di questi fitti macchioni.

– Che cos’hai udito?…

– Rompersi dei rami e scrosciare le foglie.

– Che qualcuno ci segua? – chiese il Corsaro.

– E chi?… Nessuno oserebbe marciare di notte, in mezzo a queste foreste vergini, soprattutto a quest’ora, – rispose il catalano.

– Che sia qualcuno della scorta del Governatore?

– Uhm!… Devono essere lontani costoro.

– Allora sarà qualche indiano.

– Forse, ma io dubito che sia un indiano. Eh!… avete udito?

– Sí, – confermarono i filibustieri e l’africano.

– Qualcuno ha spezzato un ramo a pochi passi da noi, – disse il catalano.

– Se le macchie non fossero cosí folte, si potrebbe andar a vedere chi è costui che ci segue, – disse il Corsaro, che aveva già snudata la spada.

– Proviamo, signore?

– Lascieremo le vesti fra quelle spine ansara; ammiro però il tuo coraggio.

– Grazie, – rispose lo spagnuolo. – Queste parole dette da voi valgono molto. Che cosa dobbiamo fare?

– Continuare la marcia e colle spade in pugno. Non voglio che si adoperino i fucili.

– Avanti, adunque.

Il drappello si rimise in cammino, procedendo con prudenza e senza fretta.

Erano giunti ad uno stretto passaggio, aperto fra altissime palme legate e rilegate fra di loro da una rete di liane, quando tutto d’un tratto una massa pesante piombò sullo spagnuolo che camminava dinanzi a tutti, atterrandolo di colpo.

L’assalto era stato cosí improvviso, che i filibustieri dapprima credettero che fosse rovinato addosso al disgraziato prigioniero qualche ramo enorme; però una specie di ruggito rauco, lanciato da quella massa, fece loro comprendere che si trattava d’una fiera.

Il catalano, cadendo, aveva mandato un urlo di terrore, poi si era subito voltato tentando di sbarazzarsi da quella massa, che lo teneva come inchiodato fra le erbe, impedendogli di rialzarsi.

– Aiuto! – gridò, – il giaguaro mi sbrana.

Il Corsaro, passato il primo istante di stupore, si era subito lanciato in soccorso del povero uomo, colla spada alzata. Rapido come il lampo, allungò il braccio armato e lo cacciò nel corpo della fiera; questa, sentendosi ferire, abbandonò il catalano e si volse verso il nuovo avversario, tentando di scagliarsi addosso.

Il Corsaro si era lestamente ritirato, mostrando la punta scintillante della spada, mentre con un gesto rapido avvolgeva il mantello attorno al braccio sinistro.

L’animale ebbe un istante di esitazione, poi balzò innanzi con coraggio disperato. Trovato sul suo slancio Wan Stiller, lo atterrò, poi si volse contro Carmaux che stava presso il compagno, tentando di abbatterlo con un poderoso colpo di zampa.

Fortunatamente il Corsaro non era rimasto inoperoso. Vedendo i suoi filibustieri in pericolo, per la seconda volta si era scagliato sulla belva, tempestandola di colpi di spada, non osando avvicinarsi troppo per non venire afferrato e sbranato da quegli artigli.

La fiera indietreggiava ruggendo, cercando di prendere campo per riprendere lo slancio, però il Corsaro le stava addosso.

Spaventata e forse gravemente ferita, si volse di botto e con un gran salto si slanciò fra i rami d’un albero vicino, dove s’imboscò fra le grandi foglie, mandando delle note acute che suonavano come degli uh!… uh!… assai prolungati.

– Indietro! – aveva gridato il Corsaro temendo che fosse per piombare addosso a loro.

– Tuoni d’Amburgo! – gridò Wan Stiller, che erasi subito rialzato senza aver riportata la minima graffiatura. – Bisognerà fucilarla per calmarle la fame!…

– No, che nessuno faccia fuoco, – rispose il Corsaro.

– Io stavo per fracassarle la testa, – disse una voce dietro di lui.

– Sei ancora vivo!… – esclamò il Corsaro.

– E devo ringraziare la corazza di pelle di bufalo che porto sotto la casacca, signor mio, – disse il catalano. – Senza di quella m’avrebbe aperto il petto con un solo colpo di zampa.

– Attenzione! – gridò in quell’istante Carmaux. – Quel dannato animale sta per slanciarsi.

Aveva appena terminate quelle parole che la fiera si precipitava su di loro descrivendo una parabola di sei o sette metri. Cadde quasi ai piedi del Corsaro, ma le mancò il tempo di scagliarsi innanzi una seconda volta.

La spada del formidabile scorridore del mare le era entrata nel petto inchiodandola al suolo, mentre l’africano le fracassava il cranio col calcio del suo pesante fucile.

– Vattene al diavolo!… – gridò Carmaux, vibrandole un poderoso calcio, per assicurarsi che questa era proprio morta. – Che razza di bestia era questa?

– Ora lo sapremo, – disse il catalano, afferrandola per la lunga coda e trascinandola verso un piccolo spazio illuminato dalla luna.

– Non è pesante, pure che coraggio e che artigli!… Quando saremo a Gibraltar andrò ad accendere un cero alla madonna della Guadalupa per avermi protetto.