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Il Corsaro Nero

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CAPITOLO XXIV. LE DISGRAZIE DI CARMAUX

Le foglie delle piante si udivano muoversi con una certa precauzione a circa quaranta passi dai due cacciatori, i quali si erano affrettati a nascondersi dietro il tronco d’un grosso simaruba.



I rami scricchiolavano qua e là, come se l’animale che si avvicinava fosse indeciso sulla via da prendere, però s’avvicinava sempre.



Ad un tratto Carmaux vide aprirsi un cespuglio e balzare in mezzo ad un piccolo spazio aperto un animale lungo quasi mezzo metro, dal pelame nero rossiccio, basso di gambe e fornito d’una coda assai ricca di peli.



Carmaux non sapeva a che specie appartenesse e se fosse mangiabile o no; vedendolo però fermo, a soli trenta passi, spianò rapidamente il fucile e fece fuoco.



L’animale cadde, poi subito si risollevò, con una vivacità che indicava come non fosse stato gravemente ferito e si allontanò, cacciandosi in mezzo ai cespugli e alle radici.



– Ventre di tutti i pescicani dell’oceano!… – esclamò il filibustiere. – L’ho mancato!… Eh!… caro mio, non credo però che correrai molto



Si precipitò innanzi, senza perdere tempo a ricaricare l’arma, slanciandosi animosamente sulle tracce dell’animale, senza ascoltare il catalano che gli gridava dietro:



– Badate al vostro naso!



L’animale fuggiva a tutte gambe, cercando probabilmente di giungere al suo covo. Carmaux, però, era lesto e lo inseguiva da vicino, colla sciabola d’arrembaggio in mano, pronto a tagliarlo in due.



– Ah! brigante – urlava. – Puoi fuggire anche a casa del diavolo io ti raggiungerò!



Il povero animale non s’arrestava; perdeva però le forze. Delle macchie di sangue, che si vedevano sull’erba e sulle foglie, indicavano che la palla del filibustiere lo aveva toccato.



Ad un certo momento, esausto da quella corsa e dalla perdita del sangue, s’arrestò presso il tronco d’un albero. Carmaux, credendo di averlo ormai in mano, gli si precipitò addosso. D’improvviso fu investito da un puzzo cosí orrendo, che cadde all’indietro come se fosse stato soffocato di colpo.



– Morte di tutti i pescicani dell’Oceano! – si udí urlare. – All’inferno quella carogna! Che scoppi!



Poi una serie di sternuti lo prese, impedendogli di proseguire le sue invettive.



Il catalano accorreva in suo aiuto per soccorrerlo. Giunto a dieci passi da lui s’arrestò, turandosi il naso con ambo le mani.



– Carramba! – disse. – Ve lo avevo detto, caballero, di fermarvi.



Eccovi profumato per una settimana. Io non mi sento l’anima di giungere fino a voi.



– Ehi, amico! – gridò Carmaux. – Che io sia appestato? Mi sento venir male come se provassi il mal di mare.



– Fuggite e cambiate aria.



– Mi sembra di crepare. Cosa è successo?



– Muovetevi, vi dico. Fuggite da quell’odore insopportabile che ha appestati i cespugli.



Carmaux si alzò a fatica e s’allontanò cercando di dirigersi verso il catalano. Questi, appena lo vide muovergli incontro, fu lesto a frapporre una certa distanza.



– Mille pescicani! Hai paura? – chiese Carmaux. – Allora io ho il colera!



– No, caballero, ma profumerete anche me.



– Come potrò tornare all’accampamento? Farò fuggire tutti, anche il comandante.



– Bisognerà che vi lasciate affumicare, – disse il catalano, che frenava a grande stento le risa.



– Come un’aringa?



– Né piú né meno, caballero.



– Dimmi un po’ amico, cos’è accaduto? È stata quella bestia a sprigionare quest’orribile odore d’aglio marcio, che mi rivolta lo stomaco? Sai che mi sembra che il cranio scoppi?



– Vi credo.



– È stato quell’animale?



– Sí, caballero.



– Cos’era adunque?



– Lo chiamano il surrilho. È una specie di puzzola, certamente la peggiore di tutta la specie, nessuno potendo resistere al suo odore, nemmeno i cani.



– E da dove sprigiona quel profumo del diavolo?



– Da alcune glandolette che tiene sotto la coda. Vi ha colpito il liquido?



– No, poiché era un po’ lontano.



– Siete stato fortunato. Se le vostre vesti avessero ricevuto una sola goccia di quel liquido oleoso, avreste dovuto continuare il viaggio nudo come babbo Adamo.



– Tuttavia puzzo peggio d’un letamaio.



– Vi affumicheremo, vi ho detto.



– All’inferno tutti i surrilho della terra! Mi poteva toccare di peggio? Bella figura che faremo al nostro ritorno!… Ci aspettavano con della selvaggina ed invece rimorchio un carico di profumo infernale!…



Lo spagnuolo non rispondeva; rideva invece a crepapelle, udendo i lamenti del filibustiere e procurava di tenersi sempre lontano, in attesa che l’aria purificasse un po’ quel disgraziato cacciatore.



Presso l’accampamento trovarono Wan Stiller, il quale era andato loro incontro, credendoli occupati a trascinare un capo di selvaggina troppo pesante per le loro forze. Sentendo l’odore che tramandava Carmaux fuggí a tutte gambe, turandosi il naso.



– Tutti mi sfuggono ora, come se avessi il colera indosso – disse Carmaux. – Finirò col gettarmi nella savana.



– Non fareste niente, – disse il catalano. – Fermatevi lí ed aspettate il mio ritorno od appesterete tutti noi.



Carmaux fece un gesto di rassegnazione e si sedette malinconicamente ai piedi d’un albero, emettendo un sospirone.



Dopo aver informato il Corsaro della comica avventura, il catalano si recò nella foresta assieme all’africano e fece raccolta di certe erbe verdi, somiglianti a quelle sarmentose del pepe, e le depose a venti passi da Carmaux, poi vi diede fuoco.



– Lasciatevi affumicare per bene da queste, – disse fuggendo e ridendo ad un tempo. – Vi aspetto a colazione.



Carmaux, rassegnato, andò a esporsi al fumo densissimo che si sprigionava da quelle piante, risoluto a non togliersi di là, fino a che non avesse perduto l’odore orrendo che lo impregnava.



Quei sarmenti, ardendo, tramandavano un odore cosí acre, che gli occhi del povero filibustiere piangevano copiosamente come se il catalano vi avesse mescolato delle bacche di vero pepe. Nondimeno egli resisteva con grande filosofia, lasciandosi affumicare come un’aringa.



Mezz’ora dopo, non sentendo piú che debolmente l’odore sprigionato dalle glandole del surrilho, decise di togliersi di là, dirigendosi verso l’accampamento, dove i compagni erano occupati a dividersi una grossa testuggine, che avevano sorpresa sulle rive della savana.



– È permesso?… – chiese egli. – Con tutto quel fumo spero d’essermi purificato.



– Avanzati, – rispose il Corsaro. – Abituati all’acre odore del catrame, possiamo tollerare anche quello che tramandi tu, ma spero che in seguito ti guarderai dal surrilho.



– Per centomila pescicani!… Se ne vedrò uno ancora, scapperò tre miglia piú lontano, ve lo prometto, comandante. Me la prenderò piuttosto coi coguari e coi giaguari.



– Eravate almeno nel piú fitto della foresta, quando avete fatto fuoco?…



– Spero che la detonazione non si sarà propagata molto, – rispose il catalano.



– Mi spiacerebbe che i fuggiaschi potessero sospettare di essere inseguiti.



– Io credo invece che ne abbiano la certezza, capitano.



– E da che cosa lo arguisci?…



– Dalla loro rapida marcia. A quest’ora, noi dovremmo averli già raggiunti.



– Vi è forse un motivo molto urgente che spinge Wan Guld ad affrettarsi.



– E quale, signore?…



– La tema che l’Olonese piombi su Gibraltar.



– Vorrà tentare l’assalto di quella piazza? – chiese il catalano, con inquietudine.



– Forse… vedremo, – rispose il Corsaro evasivamente.



– Se ciò dovesse avvenire, io non combatterò mai contro i miei compatrioti, signore, – disse il catalano con voce commossa. – Un soldato non può alzare le sue armi contro una città, sulle cui mura sventola la bandiera del proprio paese. Finché si tratta di Wan Guld, un fiammingo, sono pronto ad aiutarvi, ma non farò niente di piú. Preferirei mi appiccaste.



– Ammiro il tuo attaccamento verso la tua patria, – rispose il Corsaro Nero. – Quando noi avremo raggiunto Wan Guld, io ti lascerò libero di recarti a difendere Gibraltar, se lo vorrai.



– Grazie caballero: fino allora sono a vostra disposizione.



– Allora ripartiamo o non potremo piú raggiungerlo.



Raccolsero le loro armi, i pochi viveri che ancora possedevano e ripresero la marcia, seguendo le sponde della savana, le quali continuavano a mantenersi sgombre di piante d’alto fusto.



Il calore era intenso, tanto piú che in quel luogo non vi era ombra, pure i filibustieri, abituati alle alte temperature del Golfo del Messico e del Mare Caraybo, non soffrivano molto. Tuttavia fumavano come zolfatare e tale era l’abbondanza di sudore che usciva da tutti i loro pori, che dopo pochi passi avevano i vestiti inzuppati.



Per di piú le acque della savana, colpite in pieno dai raggi implacabili di quel sole, mandavano dei riflessi accecanti, i quali colpivano dolorosamente gli occhi di tutti, mentre dei miasmi pericolosi s’alzavano sotto forma d’una leggera nebbia, miasmi che potevano diventare fatali causando la terribile febbre dei boschi.



Fortunatamente, verso le quattro pomeridiane, si scorse l’estremità opposta della savana, la quale si cacciava in mezzo alla grande foresta a forma d’un collo di bottiglia.



I filibustieri ed il catalano, che marciavano con molta lena, quantunque fossero assai trafelati, stavano per piegare verso la foresta, quando il negro che veniva ultimo additò loro qualche cosa di rosso che si manteneva a fior d’un pantano verdastro che si allungava verso la savana.



– Un uccello?… – chiese Carmaux.



– Mi sembra piuttosto un berretto spagnuolo, – disse il catalano. – Non vedete che vi è anche un ciuffo di piume nere?…



– Chi può averlo gettato in quel pantano?… – chiese il Corsaro.



– Credo che si tratti di qualche cosa di peggio, signore, – disse il catalano. – O m’inganno assai o quel fango è costituito da certe sabbie che afferrano sempre e che non rendono mai.

 



– Che cosa vuoi dire?…



– Che forse sotto quel berretto vi è un disgraziato che è stato inghiottito vivo dal fango.



– Andiamo a vedere.



Deviarono dal loro cammino e si diressero verso quel bacino fangoso, che aveva un’estensione di tre o quattrocento metri su altrettanti di larghezza e che pareva un lembo di savana semi-disseccata, e videro che si trattava veramente d’uno di quei berretti di seta variegata di rosso e giallo, adorno d’una piuma, assai usata dagli spagnuoli. Era rimasto adagiato sul fango, nel centro d’una escavazione che aveva la forma di un imbuto, e lí presso si vedevano sorgere come cinque piccoli piuoli d’una tinta tale che fece fremere i filibustieri.



– Le dita di una mano!… – avevano esclamato Carmaux e Wan Stiller.



– Ve lo avevo detto caballeros, che sotto quel berretto si trovava un cadavere, – disse il catalano con accento triste.



– Chi può essere quel disgraziato che la savana ha inghiottito?… – chiese il Corsaro.



– Un soldato della scorta del governatore, – rispose il catalano. – Quel berretto io l’ho veduto in capo a Juan Barrero.



– Wan Guld è adunque passato di qui?…



– Eccone una triste conferma, signore…



– Che sia caduto nel fango accidentalmente?…



– Lo credo.



– Orrenda morte!…



– La piú terribile, signore. Venire assorbiti vivi da quel fango tenace e puzzolente, dev’essere una fine spaventevole.



– Orsú, lasciamo i morti e pensiamo ai vivi, – disse il Corsaro dirigendosi verso la foresta. – Noi siamo ormai certi di essere sulle tracce dei fuggiaschi.



Stava per invitare i compagni ad affrettarsi, quando un sibilo prolungato con certe modulazioni strane, echeggiato verso la parte piú folta della foresta, lo arrestò.



– Che cos’è questo?… – chiese volgendosi verso il catalano.



– Non saprei, – rispose questi, lanciando uno sguardo inquieto verso gli alberi giganti.



– Qualche uccello che canta in quel modo?…



– Non ho mai udito questo fischio, signore.



– E tu, Moko, – chiese il Corsaro volgendosi verso l’africano.



– Nemmeno io, capitano.



– Che sia un segnale?



– Lo temo, – rispose il catalano.



– Dei tuoi compatrioti che inseguiamo?…



– Uhm? – fe’ lo spagnuolo crollando il capo.



– Non lo credi?…



– No, signore. Temo invece che ben presto avremo da fare con gli indiani.



– Indiani liberi e vostri alleati? – chiese il Corsaro, aggrottando la fronte.



– Lanciati addosso dal Governatore.



– Allora deve sapere che noi lo inseguiamo.



– Può averlo sospettato.



– Bah!… Se si tratta di indiani, li fugheremo facilmente.



– Sono pericolosi nella foresta vergine, forse piú dei bianchi. Le loro imboscate difficilmente si evitano.



– Cercheremo di non lasciarci sorprendere. Armate i fucili e non risparmiate le cariche. Il Governatore ormai sa che noi gli stiamo alle calcagna, poco importa quindi che oda le nostre moschettate.



– Andiamo adunque a vedere gli indiani di questo paese, – disse Carmaux. – Non saranno piú belli degli altri di certo, né piú cattivi.



– Guardatevene, caballero, – disse il catalano. – Gli uomini rossi del Venezuela sono antropofaghi e sarebbero ben contenti di mettervi arrosto.



– Ventre di pesce-cane!… Wan Stiller, amico mio, difendiamo per bene le nostre costolette.



CAPITOLO XXV. GLI ANTROPOFAGHI DELLA FORESTA VERGINE

Si erano allora addentrati nella foresta, impegnandosi fra miriadi di palmizi, di bacaba vinifere, di cecropia, chiamate anche alberi candelabri per la stranissima disposizione dei loro rami; di cari, specie di palme dal fusto spinoso che rendono difficilissimo e pericoloso l’accesso fra le loro macchie; di miriti, altre palme, di dimensioni enormi e con le foglie disposte a ventaglio, e di sipò, liane grosse e robuste che gl’indiani adoperano nella costruzione delle loro capanne.



Temendo una sorpresa, s’avanzavano con grande prudenza, tendendo gli orecchi e guardando attentamente le macchie piú fitte entro le quali potevano celarsi gli indiani.



Il segnale non si era piú udito, tutto indicava però che degli uomini erano passati per di là. Gli uccelli erano scomparsi e del pari le scimmie, spaventate senza dubbio dalla presenza dei loro eterni nemici, gl’indiani, i quali fanno agli uni ed alle altre una caccia accanita, essendo ghiotti delle loro carni.



Per di piú si vedevano qua e là dei rami spezzati di recente, delle foglie smosse, delle liane troncate solo da poco tempo, e che perdevano ancora delle gocce di linfa.



Marciavano da due ore, sempre con mille precauzioni, cercando di mantenere la loro direzione verso il sud, quando si udirono ad una certa distanza alcune modulazioni, che parevano mandate da uno di quei flauti di bambú usati dagli indiani.



Il Corsaro, con un gesto, aveva arrestato i compagni.



– È un segnale, è vero?… – chiese al catalano.



– Sí, signore, – rispose questi. – Non possiamo ingannarci.



– Gli indiani devono essere vicini.



– Forse piú di quanto crediate. Siamo in mezzo a delle macchie foltissime che si prestano per un agguato.



– Che cosa mi consigli di fare?… Attendere che si mostrino o continuare la marcia?



– Se vedono arrestarci, possono credere che noi abbiamo paura. Andiamo, signore, e non risparmiamo i primi che si faranno innanzi.



Le modulazioni del flauto si fecero udire piú vicine. Pareva che uscissero da un macchione di palme cari, piante che formavano un ostacolo insuperabile coi loro tronchi irti di spine lunghe ed acute.



– Wan Stiller, – disse il Corsaro, volgendosi verso l’amburghese, – cerca di far tacere quel suonatore misterioso.



Il marinaio, che era un valente bersagliere, essendo stato parecchi anni bucaniere, puntò il fucile verso la macchia, cercando di scorgere l’indiano che suonava o di scoprire un qualche luogo ove le foglie si muovevano, poi fece partire il colpo, ma a casaccio.



La strepitosa detonazione fu seguita da un grido, che tosto si cambiò in uno scroscio di risa.



– Morte del diavolo!… – esclamò Carmaux. – Hai mancato il colpo.



– Tuoni d’Amburgo!… – gridò Stiller, con stizza. – Se avessi potuto vedere un pezzettino del suo cranio, non so se quel cane riderebbe ancora.



– Non importa, – disse il Corsaro. – Ora sanno che noi siamo armati di fucili e diverranno piú prudenti. Avanti, uomini del mare!…



La foresta era diventata cupa e selvaggia. Un vero caos d’alberi, di foglie gigantesche, di liane e di radici mostruose, si offriva dinanzi agli sguardi dei filibustieri, confusamente, perché i raggi del sole non riuscivano a penetrare attraverso la fitta volta di verzura.



Nondimeno un calore intenso e umido, come di serra calda, regnava sotto i colossi della flora equatoriale, facendo sudare prodigiosamente i coraggiosi uomini che volevano attraversare quella immensa foresta.



Con le dita sui grilletti dei fucili, gli occhi bene aperti e gli orecchi tesi, il catalano, i marinai, il Corsaro, ed il negro si inoltravano cautamente, tenendosi l’uno dietro l’altro.



Guardavano le macchie, i cespugli, le immense foglie, gli ammassi di radici ed i festoni formati dalle liane, pronti a scaricare le armi sul primo indiano che avesse osato mostrarsi.



Dopo quei segnali, piú nessun rumore aveva turbato il profondo e pauroso silenzio, che regnava nella foresta vergine; pure né il Corsaro, né i suoi compagni si credevano al sicuro da un improvviso attacco, anzi tutt’altro. Sentivano per istinto che quei nemici, che avevano tanta cura di non mostrarsi, non dovevano trovarsi lontani.



Erano giunti in un passaggio piú intricato degli altri e piú oscuro quando si vide il catalano abbassarsi bruscamente, poi gettarsi prontamente dietro un tronco di un albero.



Un sibilo leggero s’era udito in aria, poi una sottile canna attraversò le fronde degli alberi, conficcandosi in un ramo che si trovava all’altezza d’uomo.



– Una freccia!… – gridò lo spagnuolo. – Attenti!



Carmaux, che si trovava dietro di lui, fece rimbombare il suo moschettone.



La detonazione non s’era ancora spenta, quando in mezzo a quei fitti macchioni echeggiò un urlo acuto, prolungato, un urlo di dolore.



– Ventre di pesce-cane!… Ti ho colto! – urlò Carmaux.



– Badate! – tuonò in quell’istante il catalano.



Quattro o cinque frecce, lunghe un buon metro, passarono sibilando sopra i filibustieri, nel momento che questi si precipitavano a terra.



– Là, in quel macchione! – gridò Carmaux.



Wan Stiller, il negro ed il catalano scaricarono le loro armi formando una sola detonazione, nessun altro grido però si udí echeggiare.



Attraverso gli alberi si udirono nondimeno rompersi impetuosamente dei rami, scrosciare le foglie secche, poi ogni rumore cessò.



– Pare che ne abbiano avuto abbastanza, – disse Wan Stiller.



– Silenzio, tenetevi dietro gli alberi, – disse il catalano.



– Temi che ci assalgano ancora? – gli chiese il Corsaro.



– Ho udito anche sulla nostra destra agitarsi le foglie.



– È dunque una vera imboscata?



– Lo sospetto, signore.



– Se Wan Guld crede che gli indiani possano arrestarci, s’inganna assai. Andremo innanzi a dispetto di tutti gli ostacoli.



– Non abbandoniamo questi alberi protettori, signore. Forse le frecce dei Caraibi sono avvelenate.



– Davvero?…



– Usano avvelenarle al pari dei selvaggi dell’Orinoco e delle Amazzoni.



– Non possiamo però rimanere qui eternamente.



– Lo so, tuttavia non possiamo esporci ai loro colpi.



– Padrone, – disse in quel momento il negro, – volete che vada a frugare le macchie?



– No, poiché ti esporresti ad una morte certa.



– Silenzio, comandante, – disse Carmaux. – Udite.



Alcune note cavate da un flauto echeggiarono nel piú folto della foresta. Erano suoni tristi e monotoni e cosí acuti che si dovevano udire a grandi distanze.



– Che cosa vorranno significare? – chiese il Corsaro, che cominciava ad impazientirsi. – Sarà un segnale di raccolta o d’assalto?



– Comandante, – disse Carmaux – mi permettete un consiglio?



– Parla.



– Snidiamo questi noiosi indiani incendiando la foresta.



– E bruceremo vivi anche noi. Chi spegnerebbe poi il fuoco?



– Marciamo sparando archibugiate a destra ed a manca, – suggerí Wan Stiller.



– Credo che tu abbia avuto una buona idea, – rispose il Corsaro. – Marceremo con la musica in testa. Orsú, fuoco d’ambo i lati, miei bravi, e lasciate a me la cura di forzare il passo.



Il Corsaro si mise in prima linea, tenendo la spada nella destra ed una pistola nella sinistra, e dietro di lui a due a due si collocarono i filibustieri, il catalano ed il negro.



Appena abbandonati i tronchi protettori, Carmaux e Moko scaricarono i fucili uno a destra e l’altro a sinistra, poi, dopo un breve intervallo, il catalano e Wan Stiller. Ricaricate prontamente le armi, ripresero quella musica infernale senza risparmio di munizioni. Il Corsaro intanto apriva la via tagliando le liane e le foglie che impedivano il passo, pronto però a bruciare le cariche delle sue pistole alla prima comparsa degli indiani.



Quel rombare furioso parve che producesse un certo effetto sui misteriosi nemici, nessuno avendo osato di mostrarsi. Qualche freccia, però, cadde a breve distanza e passò sopra il drappello senza colpire alcuno.



Già credevano di essere sfuggiti all’agguato, quando un albero enorme venne a cadere, con orribile fracasso, quasi dinanzi a loro sbarrando la via.



– Tuoni d’Amburgo! – esclamò Wan Stiller, che per poco non era rimasto schiacciato. – Se cadeva mezzo secondo piú tardi faceva di tutti noi una marmellata.



Non avevano terminato di parlare che s’udirono alzarsi urla furibonde, poi alcune frecce solcarono l’aria, piantandosi profondamente nei tronchi degli alberi.



Il Corsaro ed i suoi uomini si erano gettati prontamente a terra, dietro all’albero caduto, il quale fino ad un certo punto poteva servire di trincea.



– Speriamo che questa volta si mostrino, – disse Carmaux. – Non ho ancora avuto il piacere di vedere in viso uno di questi ostinati indiani.



– Tenetevi dispersi, – disse il Corsaro. – Se ci vedono cosí uniti, dirigeranno su di noi una grandine di frecce.



I suoi uomini stavano per disperdersi dietro l’enorme albero, per non offrire un solo punto di mira ai nemici, quando si udirono alcuni flauti suonare a breve distanza.



– Gli indiani si avvicinano – disse Wan Stiller.



– Tenetevi pronti a riceverli con una scarica, – comandò il Corsaro.



– No, aspettate signore, – disse il catalano, che da qualche istante ascoltava attentamente le note tristi di quegli strumenti.

 



– Questa non è la marcia di guerra.



– Che cosa vuoi dire? – chiese il Corsaro.



– Aspettate, signore.



Si era alzato guardando dall’altra parte dell’albero.



– Un parlamentario, – esclamò. – Carramba!… È il piaye della tribú che si avanza.



– Lo stregone, signore, – disse il catalano.



– Un piaye.



– Lo stregone, signore – disse il catalano.



I filibustieri si erano prontamente alzati, tenendo però in mano i fucili non fidandosi di quegli antropofaghi.



Un indiano era uscito da uno di quei folti macchioni e s’avanzava verso di loro, seguito da due suonatori di flauto.



Era un uomo un po’ attempato, di statura media, come lo sono quasi tutti gli indiani del Venezuela, con larghe spalle, muscoli robusti e la pelle d un giallo roccioso, reso forse un po’ scuro dall’abitudine che hanno quei selvaggi di stropicciarsi il corpo con una manteca d’olio di pesce o di noce di cocco e d’oriana, per preservarsi contro le atroci punture delle zanzare.



Il suo viso, tondo ed aperto, dall’espressione piú melanconica che feroce, era sprovvisto di barba, usando essi strapparsela, mentre aveva il capo coperto da una lunga capigliatura nerissima dai riflessi azzurro-cupi.



Come piaye della tribú, oltre ad una specie di gonnellino di cotone azzurro, portava su di sé un vero carico di ornamenti: collane di conchigliette, anelli di spine di pesce pazientemente lavorati, braccialetti d’osso e di artigli e denti di giaguari, becchi di tucani, pezzi di cristallo di monte e braccialetti d’oro massiccio. In testa, poi, aveva un diadema di lunghe penne di pappagalli canindé, di arà e di fagiani di fiume, ed attraverso il setto nasale, espressamente bucato, una spina di pesce, lunga tre o quattro pollici.



Gli altri due avevano pure gonnellino e ornamenti, ma in minore copia, e portavano invece dei lunghi archi di legno del ferro, un mazzo di frecce con le punte di osso o di selce e la butú, mazza formidabile, lunga oltre un metro, piatta, a spigoli rialzati e dipinta a scacchi dai piú vivi colori.



Il piaye s’avvicinò fino a cinquanta passi dall’albero, fece cenno ai due suonatori di flauto di stare zitti, poi gridò con voce stentorea, in un cattivo spagnuolo:



– Che gli uomini bianchi mi odano!…



– Gli uomini bianchi t’ascoltano, – rispose il catalano.



– Questo è il territorio degli Arawaki; chi ha dato agli uomini bianchi il permesso di violare le nostre foreste?



– Noi non abbiamo nessuna intenzione di violare le selve degli Arawaki, – rispose il catalano. – Noi le attraversiamo semplicemente per giungere nei territori degli uomini bianchi, che si trovano nel sud della baia di Maracaybo, senza fare la guerra agli uomini rossi dei quali ci dichiariamo amici.



– L’amicizia degli uomini bianchi non è fatta per gli Arawaki, perché è stata già fatale agli uomini rossi della costa. Queste selve sono nostre; tornate quindi ai vostri paesi o noi vi mangeremo tutti.



– Diavolo!… – esclamò Carmaux. – Parlano di metterci sulla graticola, se ho compreso bene.



– Noi non siamo uomini bianchi appartenenti a quelli che hanno conquistato la costa e ridotto in schiavitú i Caraybi. Invece siamo loro nemici ed attraversiamo queste foreste per inseguire alcuni di loro che sono fuggiti, – disse il Corsaro Nero, mostrandosi.



– Sei il capo tu?… – chiese il piaye.



– Sí, il capo degli uomini bianchi che m’accompagnano.



– Ed insegui degli altri uomini bianchi?



– Sí, per ucciderli. Sono passati di qui?…



– Sí, li abbiamo veduti, ma non andranno lontano perché li mangeremo.



– Ed io ti aiuterò ad ucciderli.



– Tu li odii dunque? – chiese il piaye.



– Sono miei nemici.



– Andrete ad ucciderli sulla costa se lo vorrete, ma non sul territorio degli Arawaki. Uomini bianchi, ritornate o noi vi faremo la guerra.



– Ti ho detto che noi non siamo nemici degli uomini rossi. Noi