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Il Corsaro Nero

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– Mi pare che voi m’abbiate fatto prigioniero, se non mi inganno.

– È cosí?

– E che mi conduciate dal duca fiammingo.

– E perciò?

– Avete dimenticato che Wan Guld ha appiccato i miei due fratelli?

– No, cavaliere.

– Ignorate forse l’odio tremendo che esiste fra me e quell’uomo?

– Nemmeno questo.

– E che egli m’appiccherà?…

– Bah?…

– Non lo credete?

– Che il duca ne abbia desiderio, lo credo, però vi scordate che vi sono anch’io. Aggiungerò, se lo ignorate, che la caravella è mia e che i marinai ubbidiscono a me solo.

– Wan Guld è il governatore di Maracaybo e tutti gli spagnuoli devono obbedirgli.

– Vedete che io l’ho accontentato facendovi prendere, ma poi? – disse il conte, sottovoce, con un sorriso misterioso. Quindi, curvandosi verso il corsaro, gli mormorò in un orecchio:

– Gibraltar e Maracaybo sono lontani, cavaliere, vi mostrerò presto come il conte di Lerma giocherà il fiammingo. Silenzio per ora.

In quell’istante la scialuppa, scortata dalle altre due imbarcazioni, era giunta presso la caravella.

Ad un cenno del conte i suoi marinai afferrarono i tre filibustieri e li trasportarono a bordo del veliero, mentre una voce diceva con tono trionfante:

– Finalmente, anche l’ultimo è in mano mia!

CAPITOLO XXXIII. LA PROMESSA D’UN GENTILUOMO CASTIGLIANO

Un uomo scese rapidamente dal cassero di poppa e si fermò dinanzi al Corsaro Nero, che era stato sbarazzato dai suoi legami.

Era un vecchio d’aspetto imponente, con una lunga barba bianca, con le larghe spalle, petto ampio, un uomo dotato di una robustezza eccezionale, malgrado i suoi cinquantacinque o sessanta anni.

Aveva l’aspetto d’uno di quei vecchi dogi della repubblica veneta che guidavano alla vittoria le galere della regina dei mari contro i formidabili corsari della mezzaluna.

Come quei prodi vegliardi, indossava una splendida corazza d’acciaio cesellato, portava al fianco una lunga spada che sapeva ancora maneggiare con supremo vigore, ed alla cintura aveva un pugnale col manico d’oro.

Il resto del costume era spagnuolo, con ampie maniche a sbuffo di seta nera, maglia pure di seta di egual colore e lunghi stivali a tromba, di pelle gialla, con speroni d’argento.

Egli guardò per alcuni istanti ed in silenzio il Corsaro, con due occhi che avevano ancora un lampo ardente, poi disse con voce lenta, misurata:

– Vedete bene, cavaliere, che la fortuna stava dalla mia parte. Avevo giurato di appiccarvi tutti e manterrò la parola.

Il Corsaro, udendo quelle parole, alzò vivamente il capo, e gettando su di lui uno sguardo di supremo disprezzo, disse:

– I traditori hanno fortuna in questa vita, però lo si vedrà nell’altra. Assassino dei miei fratelli: compi la tua opera. La morte non fa paura ai signori di Ventimiglia.

– Voi avete voluto misurarvi con me, – riprese il vecchio, con tono freddo. – Avete perduta la partita e pagherete.

– Ebbene, fatemi appiccare, traditore!

– Non cosí presto.

– Cosa aspettate adunque?

– Non è ancora tempo. Avrei preferito appendervi a Maracaybo, ma giacché vi sono i vostri in quella città, offrirò lo spettacolo a quelli di Gibraltar.

– Miserabile!… Non t’è bastata la morte dei miei fratelli?…

Un lampo feroce guizzò negli occhi del vecchio duca.

– No, – disse poi, a mezza voce. – Voi siete un testimonio troppo pericoloso di ciò che è avvenuto nelle Fiandre, per lasciarvi la vita, e poi, se io non vi uccidessi, domani o un altro giorno sopprimereste me. Forse non vi odio quanto voi credete: mi difendo, ecco tutto, o meglio mi sbarazzo di un avversario che non mi lascerebbe vivere tranquillo.

– Allora uccidetemi, perché se io dovessi sfuggirvi di mano, riprenderei domani stesso la lotta contro di voi.

– Lo so, – disse il vecchio, dopo alcuni istanti di riflessione. – Eppure, volendo, potreste ancora sfuggire alla morte ignominiosa che vi aspetta nella vostra qualità di filibustiere.

– V’ho detto che la morte non mi fa paura, – disse il Corsaro, con suprema fierezza.

– Conosco il coraggio dei signori di Ventimiglia, – rispose il duca, mentre una nube gli offuscava la fronte. – Sí, ho avuto campo qui ed altrove di apprezzare il loro indomito valore ed il loro disprezzo per la morte.

Fece alcuni passi per il ponte della caravella collo sguardo tetro ed il capo chino, poi, tornando bruscamente verso il Corsaro, riprese:

– Voi non lo credete, cavaliere, eppure sono stanco della tremenda lotta che voi avete impegnata contro di me e sarei ben lieto se dovesse finalmente cessare.

– Sí, – disse il Corsaro Nero, con ironia. – E per terminarla, mi appiccate!…

Il duca alzò vivamente il capo e guardando fisso il Corsaro, gli chiese a bruciapelo:

– E se io vi lasciassi libero, che cosa fareste dopo?

– Riprenderei con maggior accanimento la lotta, per vendicare i miei fratelli, – rispose il signore di Ventimiglia.

– Allora mi costringete ad uccidervi. Vi avrei donata la vita per calmare i rimorsi che talvolta prendono il cuore, se voi aveste acconsentito a rinunciare per sempre alle vostre vendette e tornarvene in Europa; so però che voi non accettereste mai tali condizioni perciò vi appiccherò, come ho appiccato il Corsaro Rosso ed il Verde.

– E come avete assassinato, nelle Fiandre, mio fratello primogenito.

– Tacete!… – gridò il duca, con voce angosciata. – Perché rammentare il passato? Lasciate che dorma per sempre.

– Compite la vostra triste opera di traditore e di assassino, – continuò il Corsaro. – Sopprimete pure anche l’ultimo signore di Ventimiglia, ma vi avverto che con questo la lotta non sarà terminata, poiché un altro, ugualmente formidabile ed audace, raccoglierà il giuramento del Corsaro Nero e non vi accorderà quartiere, fino al giorno in cui cadrete nelle sue mani.

– E chi sarà costui? – chiese il duca con accento di terrore.

– L’Olonese.

– Ebbene, appiccherò anche costui.

– Purché non sia lui ad appiccare presto voi. Pietro muove su Gibraltar e fra pochi giorni egli vi avrà in sua mano.

– Lo credete? – chiese il duca, con ironia. – Gibraltar non è Maracaybo e la potenza dei filibustieri si spezzerà contro le poderose forze della Spagna. Venga l’Olonese ed avrà il suo conto.

Poi volgendosi verso i marinai, disse:

– Conducete i prigionieri nella stiva e si vegli rigorosamente su di loro. Voi avete guadagnato il premio che vi ho promesso e l’avrete a Gibraltar.

Ciò detto, volse le spalle al Corsaro e si diresse verso poppa per scendere nel quadro. Era già giunto presso la scala, quando il conte di Lerma lo arrestò, dicendo:

– Signor duca, siete risoluto ad appiccare il Corsaro?

– Sí, – rispose il vecchio, con tono risoluto. – Egli è un corsaro, egli è un nemico della Spagna, egli ha guidato, coll’Olonese, la spedizione contro Maracaybo e morrà.

– È un valoroso gentiluomo, signor duca.

– Cosa importa?…

– Rincresce veder morire simili uomini.

– È un nemico, signor conte.

– Pure io non lo ucciderei.

– E perché?

– Voi sapete, signor duca, che corre voce che vostra figlia sia stata catturata dai filibustieri della Tortue.

– È vero, – disse il vecchio, con un sospiro. – Però non abbiamo avuto ancora la conferma che la nave che montava sia stata predata.

– E se la voce fosse invece vera?

Il vecchio guardò il conte con uno sguardo pieno d’angoscia.

– Avete saputo qualche cosa voi? – chiese, con ansia indicibile.

– No, signor duca. Penso però che se vostra figlia fosse realmente caduta nelle mani dei filibustieri, si potrebbe scambiarla col Corsaro Nero.

– No, signore, – rispose il vecchio, con tono risoluto. – Con una grossa somma io potrei riscattare egualmente mia figlia, nel caso che essa potesse venire riconosciuta, ciò che io dubito, avendo prese tutte le precauzioni perché navigasse incognita; mentre liberando il Corsaro, io non sarei sicuro della mia vita. La lunga lotta che ho dovuto sostenere contro di lui e contro i suoi fratelli mi ha stremato ed è ora che debba cessare. Signor conte, fate imbarcare il vostro equipaggio, poi fate vela per Gibraltar.

Il conte di Lerma s’inchinò senza rispondere e si diresse a poppa, mormorando fra sé:

– Il gentiluomo manterrà la promessa.

Le scialuppe cominciavano allora a portare a bordo gli uomini che avevano preso parte all’attacco del cono, con quell’esito che ormai i lettori sanno.

Quando l’ultimo marinaio fu imbarcato, il conte ordinò di spiegare le vele; però, prima di far salpare l’ancora, indugiò parecchie ore, avendo fatto credere al duca, che si era impazientito di quel ritardo, che la caravella si era arenata su di un banco di sabbia e che quindi si doveva attendere l’alta marea per poter riprendere le mosse.

Fu solamente verso le quattro pomeridiane che il veliero poté lasciare l’ancoraggio.

La caravella, dopo aver bordeggiato lungo la spiaggia dell’isolotto, manovrò in modo da accostarsi alla foce del Catatumbo, dinanzi alla quale rimase quasi in panna, a circa tre miglia dalla costa.

Una calma quasi assoluta regnava in quella parte del vastissimo lago a causa anche della grande curva che descriveva in quel luogo la spiaggia.

Il duca, che era salito piú volte in coperta, impaziente di giungere a Gibraltar, aveva ordinato al conte di spingere la caravella al largo o almeno di farla rimorchiare dalle scialuppe, senza però nulla ottenere, essendogli stato risposto che l’equipaggio era stanchissimo e che i bassifondi impedivano di manovrare liberamente.

Verso le sette della sera la brezza cominciò finalmente a soffiare ed il veliero poté riprendere le mosse, senza però scostarsi molto dalla spiaggia.

Il conte di Lerma, dopo aver cenato in compagnia del duca, si era messo alla barra del timone con a fianco il pilota, chiacchierando sommessamente con questi. Pareva che avesse da dare lunghe istruzioni sulla manovra notturna, per non dare dentro ai numerosi bassifondi che, dalla foce del Catatumbo, si estendono fino a Santa Rosa, piccola località che si trova a poche ore da Gibraltar.

 

Quella conversazione, un po’ misteriosa, durò fino alle dieci di sera, cioé fino a quando il duca si fu ritirato nella sua cabina per riposare, poi il conte abbandonò la barra ed approfittando dell’oscurità scese nel quadro, senza essere scorto dall’equipaggio, passando poi nella stiva.

– A noi, ora, – mormorò. – Il conte di Lerma pagherà il suo debito, poi accadrà ciò che vorrà!

Accese una lanterna cieca che aveva nascosta nella larga tromba d’uno dei suoi stivali, poi passò sotto il quadro proiettando la luce su alcune persone che pareva sonnecchiassero tranquillamente.

– Cavaliere, – disse, sottovoce.

Uno di quegli uomini s’alzò a sedere, quantunque avesse le braccia strettamente legate.

– Chi viene ad importunarmi? – chiese con stizza.

– Sono io, signore.

– Ah!… Voi conte, – disse il Corsaro. – Venite a tenermi compagnia, forse?…

– Vengo a far di meglio, cavaliere, – rispose il castigliano.

– Volete dire?…

– Che vengo a pagare il mio debito.

– Non vi comprendo.

– Carrai!… – disse il conte, sorridendo. – Avete dimenticato l’allegra avventura nella casa del notaio?

– No, conte.

– Allora vi rammenterete pure voi che quel giorno mi risparmiaste la vita.

– È vero.

– Ora vengo a mantenere la promessa fattavi. Oggi non sono piú io in pericolo, bensí voi, quindi spetta a me rendervi un favore che certamente apprezzerete.

– Spiegatevi meglio, conte.

– Vengo a salvarvi, signore.

– A salvarmi!… – esclamò il Corsaro, con stupore. – E non avete pensato al duca?…

– Dorme, cavaliere.

– Domani sarà sveglio.

– E cosí? – chiese con voce tranquilla.

– Se la prenderà con voi, vi farà imprigionare e poi appiccare in vece mia. Avete pensato a questo, conte?… Voi sapete che Wan Guld non scherza.

– E voi credete, cavaliere, che egli possa sospettare di me?… Il fiammingo è astuto, lo so, credo però che non oserà incolparmi. D’altronde la caravella è mia, l’equipaggio mi è devoto e se vorrà tentare qualche cosa contro di me, perderà il tempo ed il fiato.

Credetelo, il duca non è troppo amato qui, per la sua alterigia e per le sue crudeltà, ed i miei compatrioti lo soffrono malvolentieri. Forse farò male a liberarvi, specialmente in questo momento, in cui l’Olonese sta per piombare su Gibraltar, ma io sono un gentiluomo innanzi tutto e devo mantenere le mie promesse.

Voi mi avete salvata la vita, io ora salverò la vostra e saremo pari. Se piú tardi il destino ci farà incontrare a Gibraltar voi farete il vostro dovere di Corsaro, io quello di spagnuolo e ci batteremo come due accaniti nemici.

– Non come due accaniti nemici, conte.

– Allora ci batteremo come due gentiluomini che militano sotto diverse bandiere, – disse il castigliano, con nobiltà.

– Sia, conte.

– Partite cavaliere. Ecco qui una scure che vi servirà per rompere le traverse di legno del babordo ed eccovi un paio di pugnali per difendervi contro le fiere, quando sarete a terra. Una delle scialuppe segue la caravella a rimorchio; raggiungetela coi vostri compagni, tagliate la fune ed arrancate verso la costa. Né io, né il pilota, vedremo nulla. Addio, cavaliere: spero di rivedervi sotto le mura di Gibraltar e d’incrociare ancora la spada con voi.

Ciò detto il conte gli recise i legami, gli diede le armi, gli strinse la mano e s’allontanò a rapidi passi, scomparendo su per la scala del quadro.

Il Corsaro rimase alcuni istanti immobile, come se fosse immerso in profondi pensieri o fosse ancora stupito dell’atto magnanimo del castigliano, poi, quando non udí alcun rumore, scosse Wan Stiller e Carmaux, dicendo:

– Partiamo amici.

– Partiamo! – esclamò Carmaux, sbarrando gli occhi. – Per dove, capitano?… Siamo legati come salami e volete andarvene?…

Il Corsaro prese un pugnale e con pochi colpi tagliò le corde che imprigionavano i suoi due compagni.

– Tuoni! – esclamò Carmaux.

– E lampi! – aggiunse l’amburghese.

– Noi siamo liberi? Cos’è accaduto, signore? Che quel furfante di governatore sia diventato improvvisamente cosí generoso da lasciarci andare?

– Silenzio, seguitemi!

Il Corsaro aveva impugnata la scure e si era diretto verso uno dei babordi, il piú largo di tutti e che era difeso da grosse sbarre di legno. Approfittando del momento in cui i marinai di guardia facevano del fracasso, dovendo virare di bordo, con quattro colpi poderosi sfondò due traverse, ottenendo uno spazio sufficiente per lasciar passare un uomo.

– Badate di non farvi sorprendere, – disse ai due filibustieri. – Se vi preme la vita siate prudenti. Passò attraverso il babordo e si lasciò penzolare nel vuoto, tenendosi attaccato alla traversa inferiore. Il bordo era cosí basso che si trovò immerso fino alle reni.

Attese che un’ondata venisse ad infrangersi contro il fianco del veliero, poi si lasciò andare, mettendosi subito a nuotare lungo il bordo onde non farsi scorgere dai marinai di guardia. Un istante dopo Carmaux e l’amburghese lo raggiungevano, tenendo fra i denti i pugnali del castigliano.

Lasciarono che la caravella passasse, poi vedendo la scialuppa, la quale era attaccata alla poppa con una funicella assai lunga, in quattro bracciate la raggiunsero ed aiutandosi l’un l’altro per mantenerla in equilibrio, vi salirono entro.

Stavano per afferrare i remi, quando la funicella, che univa la scialuppa della caravella, cadde in mare, tagliata da una mano amica.

Il Corsaro alzò gli occhi verso la poppa del veliero e sul cassero scorse una forma umana, che gli fece colla mano un gesto d’addio.

– Ecco un cuore nobile, – mormorò, riconoscendo il castigliano. – Dio lo protegga dalla collera di Wan Guld.

La caravella, con tutte le sue vele spiegate, aveva proseguita la sua corsa verso Gibraltar, senza che un grido solo si fosse alzato fra gli uomini di guardia. La si vide ancora per alcuni minuti correre bordate, poi scomparve dietro un gruppo d’isolette boscose.

– Tuoni, – esclamò Carmaux, rompendo il silenzio che regnava nella scialuppa. – Io non so ancora se sia sveglio o se sia lo zimbello d’un sogno. Trovarsi legati nella cala d’una caravella con tutte le probabilità di venire appiccati allo spuntar del sole, ed essere invece ancora liberi, non è cosa facilmente credibile. Che cosa dunque è avvenuto, mio capitano? Chi ci ha forniti i mezzi per sfuggire a quel vecchio antropofago?

– Il conte di Lerma, – rispose il Corsaro.

– Ah!… il bravo gentiluomo! Se lo incontreremo a Gibraltar lo risparmieremo, è vero Wan Stiller?

– Lo tratteremo come un fratello della costa, – rispose l’amburghese.

– Ora andiamo, capitano?

Il Corsaro non rispose. Egli si era bruscamente alzato e guardava attentamente verso il settentrione, interrogando ansiosamente la linea dell’orizzonte.

– Amici, – disse, con una certa emozione. – Non scorgete nulla laggiú?

I due filibustieri si erano levati in piedi, guardando nella direzione indicata. Là dove la linea dell’orizzonte pareva che si confondesse colle acque del vasto lago, dei punti luminosi, simili a piccolissime stelle, si vedevano scintillare. Un uomo di terra li avrebbe forse scambiati per astri prossimi al tramonto, ma un uomo di mare non poteva ingannarsi.

– Dei fuochi brillano laggiú, – disse Carmaux.

– E sono fuochi di legni avanzantisi sul lago, – aggiunse l’amburghese.

– Che sia Pietro che muove su Gibraltar? – si chiese il Corsaro, mentre un lampo vivido gli balenava negli sguardi. – Ah! se fosse vero, potrei ancora vendicarmi dell’uccisore dei miei fratelli.

– Sí, capitano, – disse Carmaux. – Quei punti luminosi sono fanali di barche e di bastimenti. È l’Olonese che si avanza, ne sono certo.

– Presto, alla spiaggia ed accendiamo un falò onde vengano a raccoglierci.

Carmaux e Wan Stiller afferrarono i remi, e si misero ad arrancare con gran vigore, spingendo la scialuppa verso la costa, la quale non era lontana piú di tre o quattro miglia.

Mezz’ora dopo i tre corsari prendevano terra entro una calanca abbastanza vasta per poter ricevere una mezza dozzina di piccoli velieri, e che si trovava ad una trentina di miglia da Gibraltar.

Arenata la scialuppa, fecero raccolta di rami secchi e foglie ed accesero un falò gigantesco, capace di essere scorto a quindici chilometri.

I punti luminosi allora erano vicinissimi e continuavano ad avanzarsi rapidamente.

– Amici, – gridò il Corsaro, che era salito su d’una roccia. – È la flottiglia dell’Olonese.

CAPITOLO XXXIV. L’OLONESE

Verso le due del mattino quattro grosse barche, attirate da quel fuoco che continuava ad ardere sulla spiaggia, entravano nella calanca, gettando gli ancorotti.

Erano montate da centoventi corsari, guidati dall’Olonese e formavano l’avanguardia della flottiglia incaricata di espugnare Gibraltar.

Il famoso filibustiere rimase assai sorpreso nel vedersi comparire improvvisamente dinanzi il Corsaro, non avendo sperato di poterlo rivedere cosí presto. Lo credeva ancora nei grandi boschi o fra le paludi dell’interno, occupato a dare la caccia al governatore, ed aveva anzi perduta la speranza di averlo a compagno nell’espugnazione della poderosa cittadella.

Quand’ebbe apprese le straordinarie avventure toccate all’amico ed ai suoi compagni, disse:

– Mio povero cavaliere, tu non hai fortuna con quel dannato vecchio, ma per le sabbie d’Olonne! questa volta io spero di poterlo catturare, poiché cercheremo di circondare Gibraltar in modo da impedirgli di prendere il largo. Noi lo appiccheremo sull’alberetto della tua Folgore, te lo prometto.

– Io dubito, Pietro, di poterlo trovare a Gibraltar, – rispose il Corsaro. – Egli sa che noi muoviamo verso la città, decisi ad espugnarla; sa che io lo cercherò di casa in casa, per vendicare i miei poveri fratelli e per questo temo di non trovarlo colà.

– Non l’hai tu veduto dirigersi verso Gibraltar, colla caravella del Conte?

– Sí, Pietro, però tu sai quanto egli sia astuto. Può piú tardi aver cambiato rotta, onde non farsi prendere fra le mura della città.

– È vero, – disse l’Olonese, che era diventato pensieroso. – Quel dannato duca è piú furbo di noi e forse può aver evitato Gibraltar per mettersi in salvo sulle coste orientali del lago.

– Io ho saputo che egli ha parenti e ricchi possessi nell’Honduras, a Porto Cavallo, e potrebbe aver cercato di uscire dal lago per rifugiarsi colà.

– Vedi, Pietro, come la fortuna protegge quel vecchio!

– Si stancherà, cavaliere. Eh!… Se io un giorno potessi avere la certezza che egli si fosse rifugiato a Porto Cavallo, non esiterei ad andarlo a scovare. Quella città merita una visita e sono certo che tutti i filibustieri della Tortue mi seguirebbero per mettere le mani sulle incalcolabili ricchezze che vi si trovano. Se noi non lo troveremo a Gibraltar, penseremo poi sul da farsi. Io ti ho promesso di aiutarti, e tu sai che l’Olonese non ha mai mancato alla sua parola.

– Grazie, vi conto. Dov’è la mia Folgore?

– L’ho mandata all’uscita del Golfo, assieme alle due navi di Harris onde impedire ai vascelli di linea spagnuoli d’importunarci.

– Quanti uomini hai condotti con te?

– Centoventi, ma questa sera giungerà il Basco con altri quattrocento e domani mattina daremo l’assalto a Gibraltar.

– Speri di riuscire?

– Ne ho la convinzione, quantunque abbia saputo che gli spagnuoli, radunati ottocento uomini risoluti, abbiano rese impraticabili le vie della montagna che conducono alla città, ed abbiano alzato numerose batterie. Avremo un osso duro da rodere e che ci farà perdere molta gente, noi però riusciremo, amico.

– Sono pronto a seguirti, Pietro.

– Contavo sul tuo poderoso braccio e sul tuo valore, cavaliere. Vieni a bordo della mia barcaccia, a cenare, poi va’ a riposarti. Credo tu ne abbia bisogno.

Il Corsaro che si manteneva in piedi per un miracolo di energia, lo seguí, mentre i filibustieri sbarcavano sulla spiaggia, accampandosi sul margine del bosco, in attesa del Basco e dei suoi compagni.

Quella giornata non doveva però andare perduta perché buona parte di quella gente instancabile si era messa quasi subito in marcia per esplorare le vicinanze, onde piombare addosso alla forte cittadella spagnuola, possibilmente, di sorpresa. Arditi esploratori si erano spinti molto innanzi, fino già in vista dei poderosi forti di Gibraltar; per rendersi un concetto chiaro delle misure difensive prese dai nemici, ed altri avevano osato perfino di interrogare alcuni, fingendosi pescatori colà naufragati.

 

Quelle audaci perlustrazioni avevano però dato dei risultati tali da non incoraggiare gli intrepidi scorridori del mare, quantunque fossero abituati a superare le piú tremende prove.

Dappertutto avevano trovate le vie tagliate da trincee armate di cannoni, la campagna inondata ed enormi palizzate irte di spine. Di piú avevano saputo che il comandante della cittadella, uno dei piú valenti e dei piú coraggiosi soldati che in quel tempo la Spagna avesse in America, aveva fatto giurare ai suoi soldati che si sarebbero fatti uccidere fino all’ultimo, piuttosto d’ammainare lo stendardo della patria.

Dinanzi a cosí cattive informazioni, una certa ansietà si era fatta strada anche nei cuori dei piú fieri corsari, temendo che quella spedizione terminasse in un disastro.

L’Olonese, informato subito di quanto avevano narrato i perlustratori, non si era perduto d’animo, e alla sera, radunati tutti i capi, pronunciò quelle famose parole tramandateci dalla storia e che dimostrano quanta confidenza egli avesse in se stesso e quanto contasse sui suoi corsari.

– È d’uopo, uomini del mare, che domani combattiamo da forti, – disse. – Perdendo, oltre alla vita, perderemo i nostri tesori, che pur ci costano tante pene e tanto sangue. Abbiamo vinti nemici ben piú numerosi di quelli che sono rinchiusi in Gibraltar, e maggiori ricchezze guadagneremo colà. Guardate il vostro capo e ne seguirete l’esempio.

Alla mezzanotte le barcacce di Michele il Basco, montate da circa quattrocento uomini, giungevano su quella spiaggia.

Tutti i filibustieri dell’Olonese avevano già levato il campo, pronti a partire per Gibraltar, presso i cui forti contavano di giungere al mattino, non volendo cimentarsi in un assalto notturno.

Appena i quattrocento uomini del Basco furono sbarcati, si incolonnarono, ed il piccolo esercito, guidato dai tre capi, si mise tosto in marcia attraverso le foreste, dopo di aver lasciato una ventina d’uomini a guardia delle scialuppe.

Carmaux e Wan Stiller, ben riposati e ben pasciuti, si erano messi dietro al Corsaro, non volendo mancare all’assalto ed essendo ansiosi di prendere Wan Guld.

– Amico Stiller, – diceva l’allegro filibustiere, – speriamo questa volta di mettere le zampe su quel furfante e di consegnarlo al comandante.

– Appena espugnati i forti correremo in città per impedirgli di prendere il largo, Carmaux. So che il comandante ha dato ordine a cinquanta uomini di precipitarsi subito nei boschi per tagliare la via ai fuggiaschi.

– E poi vi è il catalano che non lo perderà di vista.

– Credi che sia già entrato a Gibraltar?

– Ne sono certo. Quel diavolo d’uomo lo ritroveremo, se non si farà uccidere.

In quell’istante si senti battere sulle spalle, mentre una voce ben nota gli diceva.

– È vero, compare.

Carmaux e Wan Stiller si volsero vivamente e videro l’africano.

– Tu compare sacco di carbone!… – esclamò Carmaux. – Da dove sei sbucato?…

– Sono dieci ore che vi cerco, correndo lungo la spiaggia come un cavallo. È vero che il vecchio governatore vi aveva fatti prigionieri?

– Chi te l’ha detto?

– L’ho udito raccontare da alcuni filibustieri

– È vero compare, ma come vedi, gli siamo sfuggiti di mano coll’aiuto di quel bravo conte di Lerma.

– Del nobile castigliano che avevamo fatto prigioniero nella casa del notaio di Maracaybo?…

– Sí, compare. E dei due feriti che ti avevamo lasciati, cosa è avvenuto?…

– Sono morti ieri mattina, – rispose il negro.

– Poveri diavoli!… Ed il catalano?…

– A quest’ora deve essere già a Gibraltar.

– Opporrà una resistenza accanita la città, compare!…

– Temo che questa sera un buon numero dei nostri non ceneranno. Il comandante della piazza è un uomo che si difenderà con furore e che ha tagliate tutte le vie, piantonando dovunque trincee e batterie.

– Speriamo di non essere nel numero dei morti e d’appiccare invece Wan Guld.

Intanto le quattro lunghe colonne s’inoltravano tacitamente attraverso le folte foreste, che in quell’epoca contornavano Gibraltar, facendosi precedere da piccole bande di esploratori, composte per lo piú da bucanieri.

Ormai tutti sapevano che gli spagnuoli, avvertiti dell’avvicinarsi dei loro implacabili nemici, li attendevano ed era probabile che il vecchio comandante della cittadella avesse preparato degli agguati, per decimarli, prima che tentassero l’assalto dei forti.

Alcuni colpi di fucile, echeggiati in testa alle piccole bande, avvertirono le colonne d’assalto che la città non era lontana.

L’Olonese, il Corsaro Nero ed il Basco, credendo si trattasse di qualche imboscata, s’affrettarono a raggiungere gli esploratori con un centinaio d’uomini; ma furono tosto informati che non si trattava d’un vero attacco da parte degli spagnuoli, bensí d’un semplice scambio di fucilate fra avamposti.

L’Olonese, vedendosi ormai scoperto, comandò alle colonne di arrestarsi in attesa dell’alba, volendo prima accertarsi dei mezzi di difesa di cui disponevano gli avversari e della qualità del terreno, avendo notato che questo accennava a diventare pantanoso.

Alzandosi sulla destra una collina boscosa, s’affrettò a farne la salita in compagnia del Corsaro Nero, certo di poter dominare parte del paese circostante.

Quando giunsero sulla vetta, cominciava ad albeggiare.

Una luce bianca, che diventava rapidamente rossa verso le sponde orientali del lago, invadeva il cielo e tingeva le acque di riflessi rosei, annunciando una splendida giornata.

L’Olonese ed il Corsaro avevano subito volti gli sguardi verso una montagna che stava loro di fronte, sulla quale si ergevano due grandi forti merlati, sormontati dallo stendardo di Spagna; mentre dietro a loro si estendevano gruppi di abitazioni dalle bianche pareti ed attruppamenti di tettoie e di capanne.

L’Olonese aveva aggrottata la fronte.

– Per le sabbie d’Olonne!… – esclamò. – Sarà un affare serio espugnare quei due forti, senza artiglierie e senza scale. Bisognerà fare prodigi di valore, o noi prenderemo tale battuta da farci levare la voglia, per molto tempo, d’inquietare gli spagnuoli.

– Tanto piú che la via della montagna è stata resa impraticabile, Pietro, – disse il Corsaro. – È stata rotta e vedo invece delle batterie e delle palizzate che saremo costretti ad espugnare sotto il fuoco dei cannoni dei forti.

– E quel pantano che ci sta dinanzi e che costringerà i nostri uomini a costruire dei ponti volanti, lo vedi?…

– Sí, Pietro.

– Se fosse possibile girarlo, e gettarci nella pianura, ma che!… La pianura è stata inondata!… Guarda come l’acqua si avanza rapida!…

– Abbiamo da fare con un comandante che conosce tutte le astuzie della guerra, Pietro.

– Lo vedo.

– Cosa pensi di fare?

– Tentare la sorte, cavaliere. A Gibraltar vi sono maggiori tesori di quelli che aveva Maracaybo, e faremo una grossa raccolta. Che cosa si direbbe di noi se retrocedessimo? Non si avrebbe piú fiducia né dell’Olonese, né del Corsaro, né di Michele il Basco.

– È vero, Pietro, e la nostra fama di corsari audaci ed invincibili sarebbe finita; e poi pensa che tra quei forti vi è il mio mortale nemico.

– Sí, e io voglio farlo prigioniero. A te ed al Basco affido la partita piú grossa dei filibustieri e v’incaricherete di far loro attraversare la palude per forzare la via della montagna; io giro sul margine estremo e, tenendomi al riparo delle piante, tenterò di giungere inosservato sotto le mura del primo forte.

– E le scale, Pietro?

– Ho il mio piano. Incaricati di tenere occupati gli spagnuoli e lascia fare il resto a me. Se fra tre ore Gibraltar non sarà in nostra mano, io non sarò piú l’Olonese. Abbracciamoci, cavaliere, poiché chissà se ci rivedremo ancora vivi.

I due formidabili corsari si strinsero affettuosamente l’un l’altro; poi, ai primi raggi del sole nascente, scesero rapidamente la collina.

I filibustieri si erano accampati momentaneamente sul margine della foresta, dinanzi alla palude che aveva loro impedito di avanzarsi ed alla cui estremità, sopra un poggio isolato, avevano scorto un piccolo ridotto difeso da due cannoni.

Carmaux e Wan Stiller, unitamente ad alcuni altri, avevano cercato di provare la solidità di quel fango, ma si erano subito accorti che non vi era da fidarsi, poiché cedeva sotto i piedi, minacciando d’inghiottire coloro che avessero osato affrontarlo.