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Il Corsaro Nero

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Il Corsaro, assicuratosi che non vi erano nemici, era già balzato su di un altro tetto, seguito dal conte di Lerma e da suo nipote.

Le scariche allora si succedevano alle scariche e dei vortici di fumo s’alzavano verso la viuzza, disperdendosi lentamente pei tetti. Pareva che gli archibugieri fossero decisi a crivellare la casa del notaio, prima di abbattere la porta, sperando forse di costringere i filibustieri alla resa.

Forse il timore che il Corsaro si decidesse a mettere in esecuzione la terribile minaccia, facendosi seppellire fra le macerie assieme ai quattro prigionieri, li tratteneva ancora dal tentare un assalto generale della casa.

I filibustieri, trascinando con loro il notaio, che non poteva piú reggersi sulle gambe, giunsero sull’orlo dell’ultima casa, presso il palmizio.

Sotto si estendeva un vasto giardino cinto da un alto muro, e che pareva si prolungasse in direzione della campagna.

– Io conosco questo giardino, – disse il conte. – Esso appartiene al mio amico Morales.

– Spero che non ci tradirete, – disse il Corsaro.

– Al contrario, cavaliere. Non ho ancora dimenticato che vi devo la vita.

– Presto, scendiamo, – disse Carmaux. – L’esplosione può lanciarci nel vuoto.

Aveva appena terminato quelle parole, quando vide un lampo gigantesco seguito subito da un orribile frastuono. I filibustieri ed i loro compagni sentirono tremare sotto i loro piedi il tetto, poi caddero l’uno sull’altro, mentre intorno piovevano pezzi di macigno, frammenti di mobilia e brandelli di stoffe fiammeggianti.

Una nube di fumo si estese sui tetti, tutto offuscando per qualche minuto, mentre verso la viuzza si udivano crollare muraglie e pavimenti fra urla di terrore e bestemmie.

– Tuoni! – esclamò Carmaux, che era stato spinto fino alla grondaia. – Un metro piú innanzi e piombavo nel giardino come un sacco di stracci.

Il Corsaro Nero si era prontamente alzato, barcollando tra il fumo che lo avvolgeva.

– Siete tutti vivi? – chiese.

– Lo credo, – rispose Wan Stiller.

– Ma… qualcuno è qui, immobile, – disse il conte. – Che sia stato ucciso da qualche rottame?

– È quel poltrone di notaio, – rispose Wan Stiller. – Rassicuratevi però, non è che svenuto per lo spavento provato.

– Lasciamolo lí, – disse Carmaux. – Si trarrà d’impiccio come potrà, se il dolore d’aver perduta la sua bicocca non lo farà morire.

– No, – rispose il Corsaro. – Vedo alzarsi delle vampe tra il fumo, e, lasciandolo qui, correrebbe il pericolo di venire arrostito. L’esplosione ha incendiate le case vicine

– È vero, – confermò il conte. – Vedo un’abitazione che brucia.

– Approfittiamo della confusione per prendere il largo, amici, – disse il Corsaro. – Tu, Moko, t’incaricherai del notaio.

Stava per cacciarsi in mezzo ad un viale che conduceva al muro di cinta, quando vide alcuni uomini, armati di archibugi, precipitarsi fuori da una macchia di cespugli, gridando:

– Fermi, o facciamo fuoco!…

Il Corsaro aveva impugnata la spada colla destra, mentre colla sinistra aveva estratta una pistola, deciso ad aprirsi il passo; il conte lo fermò con un gesto dicendo:

– Lasciate fare a me, cavaliere.

Poi, facendosi incontro a quegli uomini, aggiunse – Dunque non si conosce piú l’amico del vostro padrone?

– Il signor conte di Lerma!… – esclamarono gli uomini, attoniti.

– Abbasso le armi, o mi lagnerò col vostro padrone.

– Perdonate, signor conte, – disse uno di quei servi, – noi ignoravamo con chi avevamo da fare. Avevamo udito uno scoppio spaventoso e sapendo che, nelle vicinanze, dei soldati assediavano dei corsari, eravamo qui accorsi per impedire la fuga di quei pericolosi banditi.

– I filibustieri sono ormai fuggiti, quindi potete andarvene. Vi è qualche porta nella cinta?

– Sí, signor conte.

– Aprite a me ed ai miei amici e non occupatevi d’altro.

L’uomo che aveva parlato, con un cenno congedò gli armati, poi si diresse verso un viale laterale e giunti dinanzi ad una porticina ferrata, l’aprí.

I tre filibustieri ed il negro uscirono all’aperto preceduti dal conte e da suo nipote. Il servo, che teneva fra le braccia il notaio sempre svenuto, si era fermato assieme a quello del proprietario del giardino.

Il conte guidò i filibustieri per un duecento passi, inoltrandosi in una viuzza fiancheggiata solamente da muraglie, poi disse:

– Cavaliere, voi mi avete salvata la vita, sono lieto di avere potuto rendervi anch’io questo piccolo servigio. Uomini valorosi come voi non devono morire sulla forca, ma v’assicuro che il Governatore non vi avrebbe risparmiato, se avesse potuto avervi in mano. Seguite questa viuzza che conduce in aperta campagna e tornate a bordo della vostra nave.

– Grazie, conte, – rispose il Corsaro.

I due gentiluomini si strinsero cordialmente la mano e si lasciarono scoprendosi il capo.

– Ecco un brav’uomo, – disse Carmaux. – Se torneremo a Maracaybo non mancheremo di andarlo a trovare.

Il Corsaro si era messo rapidamente in cammino preceduto dall’africano, il quale conosceva, forse meglio degli stessi spagnuoli, tutti i dintorni di Maracaybo.

Dieci minuti dopo, senza essere stati disturbati, i tre filibustieri erano fuori della città, sul margine della foresta, in mezzo alla quale si trovava la capanna dell’incantatore di serpenti.

Guardando indietro videro alzarsi fra le ultime case una nuvola di fumo rossastro, sormontata da un pennacchio di scintille che il vento trasportava sopra il lago. Era la casa del notaio che finiva di consumarsi assieme forse a qualche altra.

– Povero diavolo, – disse Carmaux. – Morrà dal dispiacere: la casa e la sua cantina! È un colpo troppo grosso per un avaraccio come lui!

Si arrestarono alcuni minuti sotto la cupa ombra d’un gigantesco simaruba, temendo che nei dintorni si trovasse qualche banda di spagnuoli mandata ad esplorare le campagne; poi, rassicurati dal profondo silenzio che regnava nella foresta, si cacciarono sotto le piante marciando rapidamente. Venti minuti bastarono per attraversare la distanza che li separava dalla capanna. Già non distavano che pochi passi, quando ai loro orecchi giunse un gemito.

Il Corsaro si era arrestato, cercando di discernere qualche cosa fra la profonda oscurità proiettata dalle alte e fitte piante.

– Tuoni! – esclamò Carmaux. – È il nostro prigioniero che abbiamo lasciato legato al tronco dell’albero. Io mi ero dimenticato di quel soldato!

– È vero, – mormorò il Corsaro.

Si avvicinò alla capanna e scorse lo spagnuolo ancora legato.

– Volete farmi morire di fame? – chiese il poveraccio. – Allora dovevate appiccarmi subito.

– È venuto nessuno a ronzare in questi dintorni? – gli chiese il Corsaro.

– Non ho veduto che dei vampiri, signore.

– Và a prendere il cadavere di mio fratello, – disse il Corsaro, volgendosi verso 1’africano.

Poi avvicinandosi al soldato che si era messo a tremare, temendo che la sua ultima ora fosse per scoccare, lo liberò dalle corde che lo imprigionavano, dicendogli con voce sorda:

– Io potrei vendicare su di te, prima di tutti, la morte di colui che andrò a seppellire in fondo all’oceano, e dei suoi disgraziati compagni che sono ancora appesi sulla piazza di quella città maledetta; ma ti ho promesso di graziarti ed il Corsaro Nero mai ha mancato alla parola data. Tu sei libero; tu mi devi però giurare che appena giunto in Maracaybo ti recherai dal Governatore a dirgli a nome mio, che io, questa notte, al cospetto dei miei uomini schierati sul ponte della mia Folgore e della salma di colui che fu il Corsaro Rosso, pronuncerò tale giuramento da farlo fremere. Egli ha ucciso i miei due fratelli e io distruggerò lui e quanti portano il nome di Wan Guld. Dirai a lui che io l’ho giurato sul mare, su Dio e sull’inferno e che presto ci rivedremo.

Poi, afferrando il prigioniero che era rimasto stupito, e spingendolo per le spalle, aggiunse.

– Và, e non volgerti indietro, perché potrei pentirmi d’averti donata la vita.

– Grazie, signore, – disse lo spagnuolo, fuggendo precipitosamente, per paura di non uscire piú vivo dalla foresta.

Il Corsaro lo guardò allontanarsi, poi quando lo vide sparire in mezzo all’oscurità si volse verso i suoi uomini, dicendo:

– Partiamo: il tempo stringe.

CAPITOLO IX. UN GIURAMENTO TERRIBILE

Il piccolo drappello, guidato dall’africano che conosceva a menadito tutti i passaggi della foresta, camminava rapidamente per giungere presto sulla riva del golfo e prendere il largo prima che l’alba spuntasse.

Erano tutti inquieti per la nave che doveva incrociare all’entrata del lago, avendo appreso dal prigioniero che il Governatore di Maracaybo aveva mandato dei messi a Gibraltar, per chiedere aiuto all’ammiraglio Toledo.

Temeva che le navi di questi, formanti una vera squadra, formidabilmente armata e montata da parecchie centinaia di valorosi marinai, per la maggior parte biscaglini, avessero già attraversato il lago per piombare sulla Folgore e distruggerla.

Il Corsaro non parlava, ma tradiva la sua inquietudine. Di tratto in tratto faceva cenno ai compagni di arrestarsi e tendeva gli orecchi, temendo di udire qualche lontana detonazione, poi affrettava ancora piú la marcia già rapidissima, mettendosi quasi in corsa.

Qualche altra volta invece faceva come dei gesti d’impazienza, specialmente quando si trovava improvvisamente o dinanzi a qualche gigante della foresta, caduto per decrepitezza o atterrato dal fulmine, o dinanzi a qualche bacino d’acqua stagnante, ostacoli che costringevano i filibustieri a fare dei giri, perdendo del tempo che per loro era diventato troppo prezioso.

Fortunatamente l’africano conosceva la boscaglia e faceva prendere loro delle scorciatoie e dei sentieruzzi, che permettevano di procedere piú speditamente e di guadagnare via.

 

Alle due del mattino, Carmaux, che camminava innanzi al negro, udí un lontano fragore che indicava la vicinanza del mare. Il suo udito acuto aveva raccolto il rumore del rompersi delle onde contro i paletuvieri della spiaggia.

– Se tutto va bene, fra un’ora noi saremo a bordo della nostra nave, signore, – disse al Corsaro Nero che lo aveva raggiunto.

Questi fece col capo un cenno affermativo, ma non rispose.

Carmaux non si era ingannato. Il rompersi delle onde diventava sempre piú distinto e si udivano anche ad intervalli le grida fragorose delle bernacle, specie di oche selvatiche, assai mattiniere, dalla schiena variegata di nero e la testa bianca, guazzanti presso la riva del golfo.

Il Corsaro fece cenno di affrettare ancora pochi minuti, e poco dopo giungevano su di una spiaggia bassa, ingombra di paletuvieri e che si prolungava a perdita d’occhio verso il nord ed il sud, formando delle curve capricciose.

Essendo il cielo coperto dalla nebbia alzatasi dalle immense paludi costeggianti il lago, l’oscurità era profonda, ma il mare era qua e là interrotto come da linee di fuoco che s’incrociavano in tutte le direzioni.

Le creste delle onde pareva che mandassero scintille e la spuma che si distendeva sulla spiaggia, in forma di frangia, era cosparsa di superbi bagliori fosforescenti. Certi momenti, degli ampi tratti di mare, poco prima neri come se fossero d’inchiostro, tutto ad un tratto s’illuminavano, come se una lampada elettrica di grande potenza fosse stata accesa in fondo al mare.

– La fosforescenza! – esclamò Wan Stiller.

– Il diavolo se la porti, – disse Carmaux. – Si direbbe che i pesci si sono alleati agli spagnuoli per impedirci di prendere il largo.

– No, – rispose Wan Stiller con voce misteriosa, additando il cadavere che il negro portava. – Le onde s’illuminano per ricevere il Corsaro Rosso.

– È vero, – mormorò Carmaux.

Il Corsaro Nero guardava intanto il mare, spingendo lontano lo sguardo. Voleva, prima d’imbarcarsi, accertarsi se la squadra dell’ammiraglio Toledo navigava sulle acque del lago.

Nulla scorgendo, guardò verso il nord, e sul mare fiammeggiante distinse una gran macchia nera, che spiccava nettamente fra la fosforescenza.

– La Folgore è là, – disse. – Cercate la scialuppa e prendiamo il largo.

Carmaux e Wan Stiller si orizzontarono alla meglio, non sapendo su quale punto della spiaggia si trovavano, poi si allontanarono frettolosamente salendo la costa verso il nord e guardando attentamente fra i paletuvieri, che bagnavano le loro radici e le loro foglie ingiallite nelle onde luminose.

Percorso un chilometro, riuscirono a scoprire il canotto, che la bassa marea aveva lasciato fra le piante. S’imbarcarono lestamente e lo spinsero verso il luogo ove li attendevano il capitano e il negro.

Collocarono il cadavere, avvolto nel mantello nero, fra le due panchine, nascondendogli il viso, poi presero il largo arrancando con vigore.

Il negro era seduto a prora, tenendo fra le ginocchia il fucile del prigioniero spagnuolo, ed il Corsaro si era seduto a poppa, di fronte alla salma dell’appiccato.

Era ricaduto nella sua tetra melanconia. Col capo stretto fra le mani ed i gomiti appoggiati sulle ginocchia, non staccava gli occhi un solo istante dal cadavere, le cui forme si disegnavano sotto il funebre drappo.

Immerso nei suoi tristi pensieri, pareva che avesse tutto dimenticato: i suoi compagni, la sua nave che sempre piú spiccava sul mare scintillante come un grande cetaceo galleggiante su di una superficie d’oro fuso, e la squadra dell’ammiraglio Toledo. Era diventato cosí immobile, da credere che nemmeno piú respirasse.

Intanto il canotto scivolava rapidamente sulle onde, allontanandosi sempre piú dalla spiaggia. L’acqua fiammeggiava attorno ad esso ed i remi levavano spruzzi di spuma iridescente, che talora parevano getti di vere scintille.

Sotto i flutti, strani molluschi ondeggiavano in gran numero, giocherellando fra quell’orgia di luce. Apparivano le grandi meduse; le palegie simili a globi luminosi danzanti ai soffi della brezza notturna; le graziose melitee irradianti bagliori di lava ardente e colle loro strane appendici foggiate come croci di Malta; le acalefe, scintillanti come se fossero incrostate di veri diamanti; le velelle graziose, sprigionanti, da una specie di crosta, dei lampi di luce azzurra d’una infinita dolcezza, e truppe di beroe dal corpo rotondo e irto di pungiglioni irradianti riflessi verdognoli.

Pesci d’ogni specie apparivano e scomparivano, lasciandosi dietro delle scie luminose, e polipi d’ogni forma s’incrociavano in tutte le direzioni, mescendo le loro luci variopinte, mentre a fior d’acqua nuotavano dei grossi lamantini, in quei tempi ancora assai numerosi, sollevando colle loro lunghe code e colle loro pinne foggiate a braccia ondate sfolgoranti.

La scialuppa, spinta innanzi dalle vigorose braccia dei due filibustieri, filava rapida su quei flutti fiammeggianti, facendo spruzzare in alto, sotto i colpi dei remi, miriadi di punti luminosi.

La sua nera massa, al pari della nave, spiccava nettamente fra tutti quei bagliori, offrendo un ottimo bersaglio ai cannoni della squadra spagnuola, se l’ammiraglio Toledo si fosse trovato in quelle acque.

I due filibustieri, pure non cessando di arrancare con lena disperata, giravano all’intorno sguardi inquieti, temendo sempre di vedere apparire le temute navi nemiche. Si affrettavano perché si sentivano anche invadere da vaghe superstizioni. Quel mare fiammeggiante, quel morto che portavano nella scialuppa, la presenza del Corsaro Nero, di quel tetro e malinconico personaggio che avevano sempre veduto indossare quelle funebri vesti, metteva indosso a loro delle paure misteriose e non vedevano l’istante di trovarsi a bordo della Folgore, fra i loro camerati.

Già non distavano che un miglio dalla nave, la quale si avanzava incontro a loro correndo piccole bordate, quando un grido strano, che pareva un acuto gemito terminante in un lugubre singhiozzo, giunse ai loro orecchi.

Entrambi si erano subito arrestati girando intorno sguardi paurosi.

– Hai udito?… – chiese Wan Stiller che si era sentito bagnare la fronte da un sudore freddo.

– Sí, – rispose Carmaux con voce malferma.

– Che sia stato qualche pesce?

– Non ho mai udito un pesce mandare un grido simile.

– Chi vuoi che sia stato?

– Io non lo so, ma ti dico che sono impressionato.

– Che sia il fratello del morto?

– Silenzio, camerata.

Guardavano entrambi il Corsaro Nero, ma questi pareva che nulla avesse udito, perché era sempre immobile col capo stretto fra le mani e gli occhi fissi sul cadavere del fratello.

– Andiamo e che Dio ci assista, – mormorò Carmaux, facendo segno a Wan Stiller di riprendere i remi.

Poi, curvandosi presso il negro, gli chiese:

– Hai udito quel grido, compare?

– Sí, – rispose l’africano.

– Chi credi che sia stato?

– Forse un lamantino.

– Uhm!… – brontolò Carmaux. – Sarà stato un lamantino ma…

S’interruppe bruscamente ed impallidí.

Proprio in quel momento dietro la poppa della scialuppa, fra un cerchio di spuma luminosa, una forma oscura, ma indecisa, era comparsa, sprofondando subito negli abissi del golfo.

– Hai visto?… – chiese a Wan Stiller, con voce strozzata.

– Sí, – rispose questi battendo i denti.

– Una testa, è vero?

– Sí, Carmaux, d’un morto.

– È il Corsaro Verde che ci segue per attendere il Corsaro Rosso.

– Mi fai paura, Carmaux.

– Ed il Corsaro Nero, nulla ha udito né visto?

– È il fratello dei due morti!

– E tu, compare, non hai visto nulla?

– Sí, una testa, – rispose l’africano.

– Di che?…

– D’un lamantino.

– Il diavolo porti via te ed i tuoi lamantini, – brontolò Carmaux. – Era una testa di morto, negro senz’occhi.

In quell’istante una voce, partita dalla nave, echeggiò sul mare.

– Ohé!… Del canotto! Chi vive?…

– Il Corsaro Nero!… – urlò Carmaux.

– Accosta!…

La Folgore s’avanzava rapida come una rondine di mare, fendendo le acque sfolgoranti col suo acuto sperone. Pareva, tutta nera come era, il leggendario vascello fantasma dell’olandese maledetto, od il vascello feretro navigante sul mare ardente. Lungo le murate si vedevano schierati, immobili come statue, i filibustieri formanti l’equipaggio, tutti armati di fucili, e sul cassero di poppa, dietro i due cannoni da caccia, si scorgevano gli artiglieri colle micce accese in mano, mentre sul picco della randa ondeggiava la grande bandiera nera del Corsaro, con due lettere d’oro bizzarramente incrociate da un fregio inesplicabile.

La scialuppa abbordò sotto l’anca di babordo, mentre il legno si metteva attraverso il vento, e si ormeggiò con una gomena gettata dai marinai dalla coperta.

– Giú i paranchi!… – si udí gridare una voce rauca. Due boscelli muniti d’arpioni furono calati dal pennone di maestra. Carmaux e Wan Stiller li assicurarono ai banchi, e la scialuppa, ad un fischio del mastro dell’equipaggio, fu issata a bordo assieme alle persone che la montavano.

Quando il Corsaro Nero udí la chiglia urtare contro la coperta della nave, parve che si risvegliasse dai suoi tetri pensieri.

Si guardò attorno come se fosse stupito di trovarsi a bordo del suo legno, poi si curvò presso il cadavere, lo prese fra le braccia e lo depose ai piedi dell’albero maestro. Tutto l’equipaggio, schierato lungo le murate, vedendo la salma, s’era scoperto il capo.

Morgan, il comandante in seconda, era sceso dal ponte di comando ed era andato incontro al Corsaro Nero.

– Sono ai vostri ordini, signore, – gli disse.

– Fate ciò che sapete, – gli rispose il Corsaro, scuotendo tristemente il capo.

Attraversò lentamente la tolda, salí sul ponte di comando e si arrestò lassú immobile come una statua, colle braccia incrociate sul petto.

Cominciava allora ad albeggiare verso oriente. Là dove il cielo pareva si confondesse col mare, una pallida luce saliva tingendo le acque di riflessi color dell’acciaio.

Pareva però che anche quella luce avesse qualche cosa di tetro, poiché non aveva la tinta rosea consueta; era quasi grigia, ma d’un grigio ferreo e quasi opaco.

Intanto la grande bandiera del Corsaro era stata calata a mezz’asta in segno di lutto ed i pennoni dei pappafichi e dei contropappafichi, che non portavano vele, erano stati disposti in croce.

Il numeroso equipaggio della nave corsara era salito tutto in coperta schierandosi lungo le murate. Quegli uomini dai volti abbronzati dai venti del mare e dal fumo di cento abbordaggi, erano tutti tristi e guardavano con vago terrore la salma del Corsaro Rosso che il mastro dell’equipaggio aveva rinchiusa in una grossa amaca insieme a due palle di cannone.

La luce cresceva, ma il mare sfolgoreggiava sempre intorno alla nave, rumoreggiando sordamente contro i neri fianchi e frangendosi contro l’alta prora.

Quelle ondulazioni avevano in quel momento degli strani sussurrii. Ora parevano gemiti d’anime, ora rauchi sospiri, ora flebili lamenti.

D’un tratto il tocco d’una campana echeggiò sul quadro di poppa.

Tutto l’equipaggio si era inginocchiato, mentre il mastro, aiutato da tre marinai, aveva sollevata la salma del povero Corsaro, deponendola sulla murata di babordo.

Un funebre silenzio regnava allora sul ponte della nave che era rimasta immobile sulle acque luminose; perfino il mare taceva e non mormorava piú.

Tutti gli occhi si erano fissati sul Corsaro Nero, la cui figura spiccava stranamente sulla linea grigiastra dell’orizzonte.

Pareva che in quel momento, il formidabile scorridore del gran golfo avesse assunto forme gigantesche. Ritto sul ponte di comando, colla lunga piuma nera svolazzante alla brezza mattutina, con un braccio teso verso la salma del Corsaro Rosso, sembrava che fosse lí lí per scagliare qualche terribile minaccia.

La sua voce metallica e robusta ruppe improvvisamente il silenzio funebre che regnava a bordo della nave.

– Uomini del mare! – gridò, – uditemi!… Io giuro su Dio, su queste onde che ci sono fedeli compagne e sulla mia anima, che io non avrò bene sulla terra, finché non avrò vendicato i fratelli miei spenti da Wan Guld. Che le folgori incendino la mia nave; che le onde m’inghiottano assieme a voi; che i due Corsari che dormono sotto queste acque, negli abissi del gran golfo, mi maledicano; che la mia anima sia dannata in eterno, se io non ucciderò Wan Guld e sterminerò tutta la sua famiglia come egli ha distrutto la mia!… Uomini del mare!… Mi avete udito?…

 

– Sí! – risposero i filibustieri, mentre un fremito di terrore passava sui loro volti.

Il Corsaro Nero si era curvato sulla passerella e guardava fisso le onde luminose.

– In acqua la salma!… – gridò con voce cupa.

Il mastro d’equipaggio ed i tre marinai alzarono l’amaca contenente il cadavere del povero Corsaro e la lasciarono andare.

La salma precipitò fra le onde, alzando un grande spruzzo che pareva un getto di fiamme.

Tutti i filibustieri si erano curvati sulle murate.

Attraverso l’acqua fosforescente si vedeva nettamente il cadavere scendere in fondo ai misteriosi abissi del mare, con delle larghe ondulazioni, poi tutto d’un tratto scomparve.

In quell’istante, al largo, si udí echeggiare ancora il grido misterioso che aveva spaventato Carmaux e Wan Stiller.

I due filibustieri, che stavano sotto il ponte di comando, si guardarono in viso pallidi come due cenci lavati.

– È il grido del Corsaro Verde che avverte il Corsaro Rosso, – mormorò Carmaux.

– Sí, – rispose Wan Stiller, con voce soffocata. – I due fratelli si sono incontrati in fondo al mare.

Un colpo di fischietto interruppe bruscamente le loro parole.

– Bracciate a babordo! – gridò il mastro. – All’orza la barra!…

La Folgore aveva virato di bordo e volteggiava fra gl’isolotti del lago, fuggendo verso il gran golfo, le cui acque s’indoravano sotto i primi raggi del sole, mentre la fosforescenza si spegneva bruscamente.