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Il Corsaro Nero

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In poche battute la scialuppa giunse sotto il fianco del vascello di linea, il quale procedeva lentamente sulla scia della Folgore, tratto a rimorchio.

La giovane fiamminga giunta a bordo, invece di dirigersi verso il quadro, salí sul castello di prora e guardò attentamente verso il legno filibustiero.

A poppa, presso il timone, alla luce della luna, vide delinearsi nettamente la nera figura del Corsaro, colla sua lunga piuma ondeggiante alla brezza notturna.

Era là, immobile, con un piede sulla murata, colla sinistra appoggiata alla guardia della sua formidabile spada e la destra sul fianco, cogli occhi fissi sulla prora della nave spagnuola.

– Guardalo! È lui! – mormorò la giovane, curvandosi verso la mulatta che l’aveva seguita. – È il funebre gentiluomo d’oltremare!… Che strano uomo!…

CAPITOLO XIII. FASCINI MISTERIOSI

La Folgore procedeva lentamente verso settentrione, per giungere sulle coste di Santo Domingo e di là cacciarsi nell’ampio canale aperto fra quell’isola e quella di Cuba.

Ostacolata dalla grande corrente equinoziale o Gulf Stream che dopo avere attraversato l’Atlantico entra con grande impeto nel Mare delle Antille, correndo verso le spiagge dell’America centrale, per poi uscire, dopo un giro immenso, dal Golfo del Messico, presso le isole Bahama e le coste meridionali della Florida; ed anche impedita dal vascello di linea che era costretta a rimorchiare, non avanzava che con molto stento, essendo le brezze leggere.

Fortunatamente il tempo si manteneva sereno ed era questa una vera fortuna; diversamente sarebbe stata costretta ad abbandonare alla furia delle onde la grossa preda cosí a caro prezzo conquistata, poiché gli uragani che sconvolgono i mari delle Antille sono cosí tremendi, da non potersi fare un idea della loro potenza.

Quelle regioni che sembrerebbero benedette dalla natura, quelle isole opulente, d’una fertilità prodigiosa, poste sotto un clima che non ha confronti, e sotto un cielo che per purezza nulla ha da invidiare a quello tanto decantato dell’Italia, a causa dei venti dominanti dell’est e della corrente equinoziale, vanno troppo di sovente soggette a dei cataclismi spaventosi, che in poche ore le sconvolgono.

Tempeste spaventevoli le colpiscono di quando in quando, distruggendo le ricche piantagioni, sradicando intere foreste, abbattendo città e villaggi; orribili maremoti alzano talora bruscamente il mare e lo precipitano con impeto irresistibile verso le coste, spazzando via quanto trovano e trascinando le navi ancorate nei porti per le devastate campagne; formidabili convulsioni del suolo le scuotono improvvisamente, seppellendo talvolta fra le macerie migliaia di persone.

La buona stella però sorrideva ai filibustieri del Corsaro Nero, perché come si disse, il tempo si manteneva splendido, promettendo una tranquilla navigazione fino alla Tortue.

La Folgore veleggiava placidamente su quelle acque di smeraldo, terse quasi come un cristallo e cosí trasparenti da permettere di discernere, alla profondità di cento braccia, il letto bianchissimo del Golfo, cosparso di coralli.

La luce, rifrangendosi su quelle sabbie bianche, rendeva le acque ancor piú limpide, a segno da far venire le vertigini a chi, non abituato, avesse voluto guardare giú.

In mezzo a quella nitida trasparenza, pesci strani si vedevano guizzare in tutte le direzioni, giocherellando, inseguendosi e divorandosi, e non di rado si vedevano anche sorgere dal fondo e salire alla superficie, con un poderoso colpo di coda, quei terribili mangiatori di uomini chiamati zigaene, squali molto affini ai non meno feroci pescicani, lunghi talvolta venti piedi, colla testa raffigurante un martello, gli occhi grossi, rotondi, quasi vitrei piantati alle estremità e la bocca enorme ed armata di lunghi denti triangolari.

Due giorni dopo la presa del vascello, essendosi alzato un vento piuttosto forte e favorevolissimo, la Folgore s’avventurava in quel tratto di mare compreso fra la Giamaica e la punta occidentale di Haiti, muovendo rapidamente verso le coste meridionali di Cuba.

Il Corsaro Nero, dopo essere stato quasi sempre rinchiuso nella sua cabina, udendo il pilota segnalare le alte montagne della Giamaica, era salito sul ponte.

Era però ancora in preda a quell’inesplicabile inquietudine, che l’aveva colto la sera stessa che aveva invitato nel quadro la giovane fiamminga.

Non stava un momento fermo. Passeggiava nervosamente per la passerella, sempre preoccupato, senza scambiare una parola con chicchessia, nemmeno col suo luogotenente Morgan.

Si trattenne mezz’ora sul ponte, guardando di tratto in tratto, ma distrattamente, le montagne della Giamaica che si disegnavano nettamente sul luminoso orizzonte, colle basi che parevano immerse nel mare; poi discese sulla tolda rimettendosi a passeggiare fra l’albero di trinchetto e quello maestro, colle ampie tese del suo feltro bene abbassate sulla fronte.

Ad un tratto, come fosse stato colto da qualche pensiero ed obbedisse ad una tentazione irresistibile, risalí sul ponte e ridiscese sul cassero, fermandosi presso la murata poppiera.

I suoi sguardi si fissarono subito sulla prora del vascello spagnuolo, lontano appena sessanta passi, tanto quanto era lunga la gomena che lo traeva a rimorchio.

Trasalí e fece atto di ritirarsi, ma s’arrestò subito, mentre il suo volto, cosí cupo, s’illuminava, ed il suo pallore si tramutava in una tinta leggermente rosea, tinta però che durò un solo istante.

Sulla prora del vascello spagnuolo, aveva veduto una forma bianca appoggiata all’argano. Era la giovane fiamminga, rinchiusa in un lungo accappatoio bianco e coi biondi capelli sciolti sulle spalle in pittoresco disordine e che la brezza marina, volta a volta, scompigliava.

Teneva il capo volto verso la filibusteria e gli occhi fissi sulla poppa, o meglio sul Corsaro Nero.

Conservava una immobilità assoluta, tenendo il mento appoggiato sulle mani in una posa meditabonda.

Il Corsaro Nero non aveva fatto alcun cenno, nemmeno di salutarla. Si era aggrappato alla murata con ambo le mani, come se avesse paura di venire strappato di là e teneva gli occhi fissi su quelli della giovane.

Pareva che fosse stato affascinato da quegli sguardi dal lampo dell’acciaio, poiché si sarebbe detto che non respirava nemmeno piú.

Un tale incanto, strano per un uomo della tempra del Corsaro, durò un minuto, poi parve che venisse bruscamente spezzato.

Il Corsaro, quasi si fosse pentito di essersi lasciato vincere dagli occhi della giovane, con un moto improvviso aveva staccate le mani e aveva fatto un passo indietro.

Guardò il timoniere che gli stava a due passi di distanza, poi il mare, e quindi la velatura della sua nave e fece altri passi indietro come se non sapesse decidersi a perderla di vista, poi tornò a guardare la giovane fiamminga.

Questa non si era mossa. Sempre appoggiata all’argano, col mento sulla destra, il biondo capo inclinato innanzi, fissava sempre il Corsaro coi suoi grandi occhi. Un lampo vivido, irresistibile, si sprigionava sempre dalle sue pupille che parevano essere diventate d’una immobilità vitrea.

Il comandante della Folgore indietreggiava sempre, ma lentamente, come fosse impotente a sottrarsi a quel fascino. Era diventato piú pallido che mai e un fremito scuoteva le sue membra.

Giunto all’estremità del cassero salí sempre indietreggiando sul ponte di comando dove si arrestò alcuni momenti, poi continuò finché andò a urtare contro Morgan, che stava terminando il suo quarto di guardia.

– Ah!… Scusate, – gli disse con fare imbarazzato, mentre un rapido rossore gli coloriva le guance.

– Guardavate anche voi la tinta del sole, signore? – gli chiese il luogotenente.

– Cos’ha il sole?…

– Guardatelo.

Il Corsaro alzò gli occhi e vide che l’astro diurno, poco prima sfolgorante, aveva assunta una tinta rossastra che lo faceva sembrare una lastra di ferro incandescente.

Si volse verso i monti della Giamaica e vide le loro cime spiccare con maggiore nitidezza sul fondo del cielo, come fossero illuminate da una luce ben piú viva di prima.

Una certa inquietudine si manifestò subito sul viso del Corsaro ed i suoi sguardi si volsero verso il vascello spagnuolo, arrestandosi ancora sulla giovane fiamminga, la quale non aveva abbandonato l’argano.

– Avremo un uragano, – disse poi con voce sorda.

– Tutto lo indica, signore, – rispose Morgan. – Non sentite quest’odore nauseante alzarsi dal mare?…

– Sí, e vedo che anche l’aria comincia ad intorbidirsi. Questi sono i sintomi dei tremendi uragani che imperversano nelle Antille.

– È vero, capitano.

– Dovremo perdere la nostra preda?

– Volete un consiglio, signore?

– Parlate, Morgan.

– Fate passare mezzo del nostro equipaggio sul vascello spagnuolo.

– Credo che abbiate ragione. Mi rincrescerebbe per il mio equipaggio che quella bella nave andasse a finire in fondo al mare.

– La duchessa la lascerete là?

– La giovane fiamminga… – disse il Corsaro aggrottando la fronte.

– Starà meglio sulla nostra Folgore, che sul vascello.

– Vi spiacerebbe che andasse a picco? – chiese il capitano, voltandosi bruscamente verso Morgan e guardandolo fisso.

– Penso che quella duchessa può valere parecchie migliaia di piastre.

– Ah!… È vero… Deve pagare il riscatto.

– Volete che la faccia trasbordare, prima che le onde ce lo impediscano?

Il Corsaro non rispose. Si era messo a passeggiare per il ponte come se fosse preoccupato da un grave pensiero.

Continuò cosí alcuni minuti, poi fermandosi improvvisamente dinanzi a Morgan, gli chiese a bruciapelo:

– Credete voi che certe donne siano fatali?…

– Che cosa volete dire?… – chiese il luogotenente con stupore.

 

– Sareste voi capace d’amare una donna senza paura?

– Perché no?

– Non credete che sia piú pericolosa una bella fanciulla che un sanguinoso abbordaggio?

– Talvolta sí, ma sapete, comandante, che cosa dicono i filibustieri ed i bucanieri della Tortue, prima di scegliersi una compagna tra le donne che i governi di Francia e d’Inghilterra mandano qui, per procurare loro un marito?

– Non mi sono mai occupato dei matrimoni dei nostri filibustieri, né di quelli dei bucanieri.

– Dicono loro queste precise parole: «Di ciò che hai fatto fin qui, o donna, non ti domando conto e te ne assolvo, ma dovrai rendermi ragione di quello che farai d’ora innanzi» e battono sulla canna del loro fucile, aggiungendo: «ecco chi mi vendicherà, e se fallirai tu, non potrà fallire questo».

Il Corsaro Nero alzò le spalle, dicendo:

– Eh! Io intendevo parlare di donne ben diverse da quelle che ci mandano a forza i governi d’oltremare.

Si fermò un istante, quindi indicando la giovane duchessa che era ancora allo stesso posto, continuò:

– Che cosa dite di quella fanciulla, luogotenente?

– Che è una delle piú splendide creature che si siano mai vedute in questi mari delle grandi Antille.

– Non vi farebbe paura?…

– Quella fanciulla?… No di certo.

– Ed a me sí, luogotenente.

– A voi? A colui che si chiama il Corsaro Nero? Volete scherzare, comandante?

– No, – rispose il filibustiere. – Leggo talvolta nel mio destino, e poi una zingara del mio paese mi predisse che la prima donna che io avessi amata mi sarebbe stata fatale.

– Ubbie, capitano.

– Ma che cosa direste se aggiungessi che quella zingara aveva predetto ai miei tre fratelli che uno sarebbe morto in un assalto per opera di un triste tradimento e gli altri due appiccati? Voi sapete se quella funebre predizione si è avverata.

– E poi?…

– Che sarei morto in mare, lontano dalla mia patria, per opera della donna amata.

– By Good!… – mormorò Morgan, rabbrividendo. – Ma quella zingara può ingannarsi sul quarto fratello.

– No, – rispose il Corsaro con voce tetra.

Scosse il capo, stette un istante meditabondo, quindi aggiunse:

– E sia!…

Scese dal ponte di comando, andò a prora dove aveva veduto l’africano discorrere con Carmaux e Wan Stiller e gridò loro:

– In acqua la gran scialuppa. Conducete a bordo del mio legno la duchessa di Weltendrem e il suo seguito.

Mentre i due filibustieri e l’africano s’affrettavano ad ubbidire, Morgan sceglieva trenta marinai per mandarli di rinforzo a quelli che si trovavano già sul vascello di linea, prevedendo che ben presto sarebbe stato necessario il taglio della gomena di rimorchio.

Un quarto d’ora dopo Carmaux ed i suoi compagni erano di ritorno. La duchessa fiamminga, le sue donne e i due paggi salirono a bordo della Folgore, sulla cui scala li attendeva il Corsaro.

– Avete qualche urgente comunicazione da farmi, cavaliere? – chiese la giovane, guardandolo negli occhi.

– Sí, signora, – rispose il Corsaro, inchinandosi dinanzi a lei.

– E quale se non vi rincresce?

– Che saremo costretti ad abbandonare il vascello alla sua sorte.

– Per qual motivo? Siamo forse inseguiti?…

– No, è l’uragano che ci minaccia e che mi costringe a fare tagliare la gomena di rimorchio. Voi forse non conoscete le furie tremende di questo Gran Golfo, quando il vento lo scuote.

– E vi preme non perdere la vostra prigioniera, è vero, cavaliere? – disse la fiamminga, sorridendo.

– La mia Folgore è piú sicura del vascello.

– Grazie della vostra gentilezza, cavaliere.

– Non ringraziatemi, signora, – rispose il Corsaro con aria meditabonda. – Forse quest’uragano può essere fatale a qualcuno.

– Fatale!… – esclamò la duchessa con sorpresa. – E a chi?

– Lo si vedrà!

– Ma perché?…

– Tutto è nelle mani del destino.

– Temete anche per la vostra nave?

Un sorriso apparve sulle labbra del Corsaro.

– La mia Folgore è tale legno da sfidare le folgori del cielo e le ire del mare, ed io sono tale uomo da guidarla attraverso le onde ed i venti.

– Lo so, ma…

– È inutile che insistiate per avere una maggiore spiegazione, signora. A questo penserà la sorte.

Le additò il quadro di poppa e levandosi il cappello continuò:

– Accettate l’ospitalità che vi offro, signora. Io vo’ a sfidare la morte ed il mio destino.

Si rimise il cappello in capo e salí sul ponte di comando, mentre la calma che fino allora regnava sul mare si rompeva bruscamente, come se dalle Piccole Antille venissero cento trombe di vento.

Le scialuppe che avevano condotti a bordo del vascello di linea i trenta marinai, erano tornate e l’equipaggio stava issandole sulle grue della Folgore.

Il Corsaro, salito sul ponte di comando, dove già lo aveva preceduto Morgan, s’era messo ad osservare il cielo dalla parte di levante.

Una grande nuvola assai oscura, coi margini tinti d’un rosso di fuoco, saliva rapidamente sull’orizzonte, spinta senza dubbio da un vento irresistibile, mentre il sole, quasi prossimo al tramonto, diventava sempre piú oscuro, come se una nebbia si fosse frapposta fra la terra ed i suoi raggi.

– Ad Haiti l’uragano di già infuria, – disse il Corsaro a Morgan.

– E le Piccole Antille a quest’ora sono forse devastate, – aggiunse il luogotenente. – Fra un’ora anche questo mare diverrà spaventoso.

– Che cosa fareste voi nel mio caso?

– Cercherei un rifugio alla Giamaica.

– La mia Folgore fuggire dinanzi all’uragano!… – esclamò il Corsaro con fierezza. – Oh!… Mai!…

– Ma voi sapete, signore, quanto siano formidabili gli uragani delle Antille.

– Lo so, ed io sfiderò anche questo. Sarà il vascello di linea che andrà a cercare salvezza su quelle coste, ma non la mia Folgore. Chi comanda i nostri uomini imbarcati sulla nave spagnuola?…

– Mastro Wan Horn.

– Un brav’uomo, che un giorno diverrà un filibustiere di buona fama. Saprà trarsi d’impiccio senza perdere la preda.

Scese sul cassero, tenendo in mano un portavoce e, salito sulla murata poppiera, gridò con voce tonante.

– Tagliate la gomena di rimorchio!… Mastro Wan Horn, poggiate sulla Giamaica!… Noi vi aspetteremo alla Tortue!…

– Sta bene comandante, – rispose il mastro, che si trovava sulla prora del vascello, in attesa degli ordini.

S’armò di una scure e con un solo colpo recise la gomena di rimorchio, poi, volgendosi verso i suoi marinai, gridò levandosi il berretto:

– Alla grazia di Dio!…

Il vascello spiegò le sue vele sul trinchetto e sulla mezzana, non potendo piú contare sul maestro e virò di bordo, allontanandosi verso la Giamaica, mentre la Folgore s’inoltrava arditamente fra le coste occidentali d’Haiti e quelle meridionali di Cuba, nel cosiddetto canale di Sopravvento.

L’uragano si avvicinava rapido. La calma era stata bruscamente spezzata da furiosi colpi di vento, che venivano dalla parte delle Piccole Antille, mentre le onde si formavano rapidamente assumendo un aspetto pauroso.

yPareva che il fondo del mare ribollisse, poiché si vedevano formarsi alla superficie come dei gorghi spumeggianti, mentre sprazzi d’acqua s’alzavano impetuosamente in forma di colonne liquide, le quali poi ricadevano con grande fracasso.

La nuvola nera intanto saliva rapida, invadendo il cielo, intercettando completamente la luce crepuscolare, e le tenebre piombavano sul mare tempestoso, tingendo i flutti d’un colore quasi nero, come se a quelle acque si fossero mescolati torrenti di bitume.

Il Corsaro, sempre tranquillo e sereno, non sembrava che si occupasse dell’uragano. I suoi sguardi seguivano invece il vascello di linea, che si vedeva capeggiare fra le onde e che stava per sparire sul fosco orizzonte, in direzione della Giamaica.

Forse era un po’ inquieto per quella nave, che sapeva trovarsi in cattive condizioni, per potere affrontare i tremendi colpi di vento dell’uragano, ma non di certo per la sua Folgore.

Quando il vascello scomparve, scese sul cassero e allontanò il pilota, dicendo:

– A me la barra!… La mia Folgore voglio guidarla io!…

CAPITOLO XIV. GLI URAGANI DELLE ANTILLE

L’uragano, devastate le Piccole Antille, che sono le prime a ricevere quei tremendi urti, facendo argine alle onde dell’Atlantico, che i venti di levante scagliano, con foga irresistibile, contro il continente americano e quindi addosso a Portorico e ad Haiti, si rovesciava allora nel canale di Sopravvento, con quella foga ben nota ai naviganti del Golfo del Messico e del Mar Caraybo.

Alla luce chiara e brillante della zona equatoriale era successa una notte cupa, poiché nessun lampo ancora la illuminava, una di quelle notti che mettono paura ai piú audaci naviganti. Non si vedeva che la spuma dei marosi, la quale pareva fosse diventata fosforescente.

Un fulmine d’acqua e di vento spazzava il mare, con impeto irresistibile. Raffiche furiose si succedevano le une alle altre, con mille fischi e mille ruggiti paurosi, facendo crepitare le vele della nave e curvando perfino la solida alberatura.

In aria si udiva un fracasso strano che cresceva di momento in momento. Pareva che mille carri carichi di ferraglie corressero pel cielo, tirati a corsa precipitosa, o che dei pesanti convogli filassero a tutto vapore sopra dei ponti metallici.

Il mare era diventato orrendo. Le onde, alte come montagne, correvano da levante a ponente, rovesciandosi le une addosso alle altre con cupi muggiti e con scrosci formidabili, schizzando in alto cortine di spuma fosforescente. S’alzavano tumultuosamente, come se subissero una spinta immensa dal basso in alto, poi tornavano a scendere, scavando dei baratri cosí immensi, che pareva dovessero toccare il fondo del Golfo.

La Folgore, colla velatura ridotta a minime proporzioni, non avendo conservato che i fiocchi e le due vele di trinchetto e di maestra, con tre mani di terzaruoli, aveva impegnata valorosamente la lotta.

Pareva un fantastico uccello che radesse le onde. Ora saliva intrepidamente quelle montagne mobili, scorrendo fra due fasce di spuma gorgogliante, come se volesse speronare la nera massa delle nubi, ed ora scendeva fra quelle pareti limpide, come se volesse giungere fino nel fondo del mare.

Rollava disperatamente, tuffando talora la estremità dei suoi pennoni di trinchetto e di maestra nella spuma, ma i suoi fianchi poderosi non cedevano all’urto formidabile dei cavalloni.

Attorno ad essa, perfino sulla sua tolda, cadevano, ad intervalli, rami d’alberi, frutta d’ogni specie, canne da zucchero ed ammassi di foglie che volteggiavano sulle ali del turbine, strappate dai boschi e dalle piantagioni della vicina isola di Haiti, mentre veri zampilli d’acqua precipitavano scrosciando dalle tempestose nubi, scorrendo a furia per il tavolato e sfogandosi a gran pena attraverso gli ombrinali.

Ben presto però alla notte cupa successe una notte di fuoco. Lampi abbaglianti rompevano le tenebre, illuminando il mare e la nave d’una luce livida, mentre fra le nubi scrosciavano tremendi tuoni, come se lassú si fosse impegnato un duello fra cento pezzi d’artiglieria.

L’aria era diventata cosí satura d’elettricità che centinaia di scintille sprizzavano dalle gomene della Folgore, mentre il fuoco di Sant’Elmo scintillava sulle punte degli alberi, alla estremità dei mostraventi.

L’uragano toccava allora la sua massima intensità.

Il vento aveva acquistata una velocità fulminea, forse di quaranta metri al minuto secondo e ruggiva tremendamente, sollevando vere trombe d’acqua, che poi travolgevano vertiginosamente, e vere cortine che poi polverizzava.

I fiocchi della Folgore, strappati dal vento, erano stati portati via e la vela di trinchetto, sventrata di colpo, terminava di sbrindellarsi, ma quella maestra resisteva tenacemente.

La nave, travolta dai flutti e dalle raffiche, fuggiva con una velocità spaventosa, in mezzo ai lampi ed alle trombe d’acqua.

Pareva che ad ogni istante dovesse venire subissata e cacciata a fondo; invece si risollevava sempre, scuotendo i marosi che le urlavano d’intorno e la spuma che la copriva.

Il Corsaro Nero, ritto a poppa, alla barra, la guidava con mano sicura. Irremovibile fra le furie del vento, impassibile fra l’acqua che lo inondava, sfidava intrepidamente la collera della natura cogli occhi accesi ed il sorriso sulle labbra.

La sua nera figura spiccava fra i lampi, assumendo in certi momenti proporzioni fantastiche.

Le folgori scherzavano a lui intorno tracciando le loro linee di fuoco; il vento lo investiva, strappando pezzo a pezzo la lunga piuma del suo cappello; la spuma volta a volta lo copriva, tentando di abbatterlo; i tuoni sempre piú formidabili l’assordavano, ma egli rimaneva impavido al suo posto, guidando sempre la sua nave attraverso le onde e le raffiche.

 

Pareva un genio del mare, sorto dagli abissi del Gran Golfo, per misurare le proprie forze contro quelle della natura scatenata.

I suoi marinai, come la notte dell’abbordaggio, quando lanciava la Folgore addosso al vascello di linea, lo guardavano con superstizioso terrore, e si chiedevano se quell’uomo era veramente un mortale al pari di loro od un essere soprannaturale, che né le mitraglie, né le spade, né gli uragani potevano abbattere. Ad un tratto, quando i marosi irrompevano con maggior rabbia sui bordi del veliero, si vide il Corsaro scostarsi un istante dalla barra, come se avesse voluto precipitarsi verso la scaletta di babordo del cassero e fare un gesto di sorpresa e fors’anche di terrore.

Una donna era uscita allora dal quadro e saliva sul cassero, aggrappandosi alla branca della scala con suprema energia, onde non venire rovesciata dalle scosse disordinate della nave.

Era tutta avvolta in un pesante vestito di panno di Catalogna, però aveva il capo scoperto ed il vento faceva volteggiare in aria i superbi capelli biondi!

– Signora! – gridò il Corsaro, che aveva subito riconosciuta in quella donna la giovane fiamminga. – Non vedete che qui vi è la morte?

La duchessa non rispose, gli fece un cenno della mano che pareva volesse dire:

– Non mi fa paura.

– Ritiratevi, signora, – disse il Corsaro, che era diventato piú pallido del solito.

Invece di obbedire la coraggiosa fiamminga si issò sul cassero, lo attraversò tenendosi aggrappata alla barra della randa e si rincantucciò fra la murata e la poppa della grande scialuppa la quale era stata calata dalle gru per impedire alle onde di portarla via.

Il Corsaro le fece cenno di ritirarsi, ma ella fece col capo un energico gesto di diniego.

– Ma qui vi è la morte!… – le ripeté. – Tornate nel quadro, signora!

– No, – rispose la fiamminga.

– Ma che cosa venite a fare qui?

– Ad ammirare il Corsaro Nero.

– Ed a farvi portar via dalle onde.

– Che importa a voi?…

– Ma io non voglio la vostra morte, mi capite, signora! – gridò il Corsaro, con un tono di voce, nel quale si sentiva vibrare per la prima volta un impeto appassionato.

La giovane sorrise, però non si mosse. Rannicchiata in quel cantuccio, colle mani strette attorno al suo pesante vestito, coi capelli svolazzanti, si lasciava bagnare dall’acqua che irrompeva sul cassero, senza staccare gli occhi dal Corsaro.

Questi, avendo compreso che tutto sarebbe stato inutile, e forse lieto di vedersi quasi vicina quella coraggiosa giovane, che era salita lassú sfidando la morte, per ammirare la sua audacia, non le aveva piú ripetuto l’ordine di abbandonare il cassero. Quando l’uragano lasciava alla sua nave un istante di tregua, volgeva gli occhi verso la duchessa e forse involontariamente le sorrideva. Certo si ammiravamo entrambi.

Tutte le volte che la guardava, i suoi occhi s’incontravano subito in quelli di lei, che avevano acquistata una immobilità quasi vitrea, come al mattino quand’ella si trovava sulla prora del vascello di linea.

Quegli occhi però, dai quali emanava un fascino misterioso, mettevano indosso all’intrepido filibustiere un turbamento, che egli non sapeva spiegarsi. Anche quando non la guardava, sentiva che essa non lo perdeva di vista un solo istante e provava un desiderio irresistibile di volgere il capo verso quell’angolo della nave.

Vi fu anzi un momento, in cui le onde si rovesciavano con maggior impeto sulla Folgore, che ebbe paura di quello sguardo, poiché le gridò:

– Non guardatemi cosí, signora!… Giuochiamo la vita!

Quel fascino inesplicabile subito cessò. La giovane chiuse gli occhi ed abbassò il capo, coprendosi il volto colle mani.

La Folgore si trovava allora presso le sponde di Haiti. Alla luce dei lampi eransi vedute delinearsi delle alte coste fiancheggiate da pericolose scogliere, contro le quali poteva frantumarsi la nave. La voce del Corsaro echeggiò tosto fra i muggiti delle onde e gli urli del ventaccio.

– Una vela di ricambio sul trinchetto!… Fuori i fiocchi!… Attenti a virare!…

Il mare, quantunque il vento lo spingesse verso le coste meridionali di Cuba, era spaventoso anche presso quelle di Haiti. Ondate di fondo, alte quindici o sedici metri, si formavano attorno alle scogliere, provocando delle contro-ondate terribili.

La Folgore però non cedeva. La vela di ricambio era stata spiegata sul pennone di trinchetto ed i fiocchi erano stati ricollocati sul bompresso, e filava sotto la costa come uno steamer lanciato a tutto vapore.

Di quando in quando i marosi la rovesciavano impetuosamente, ora sul babordo ed ora sul tribordo, tuttavia il Corsaro con un vigoroso colpo di barra la risollevava, rimettendola sulla buona via.

Fortunatamente l’uragano, dopo aver raggiunta la sua massima intensità, accennava a diminuire di violenza poiché ordinariamente quelle tempeste tremende non durano che poche ore.

Le nubi cominciavano qua e là a rompersi, lasciando intravvedere qualche stella ed il vento non soffiava piú colla violenza primiera. Nondimeno il mare si manteneva burrascosissimo e molte ore dovevano trascorrere prima che quelle grandi ondate, scagliate dall’Atlantico entro il Grande Golfo, si calmassero e si livellassero. Tutta la notte, la nave corsara lottò disperatamente contro i marosi, che l’assalivano da tutte le parti, riuscendo a superare vittoriosamente il canale di Sopravvento ed a sboccare in quel tratto di mare compreso fra le Grosse Antille e l’Isola di Bahama.

All’alba, quando il vento era girato da levante a settentrione, la Folgore si trovava quasi di fronte al capo haitiano.

Il Corsaro Nero, che doveva essere affranto da quella lunga lotta, e che aveva le vesti inzuppate d’acqua, quando poté discernere il piccolo faro della cittadella del capo, rimise la ribolla del timone a Morgan, poi si diresse verso la grande scialuppa, presso la cui poppa si trovava ancora rannicchiata la giovane fiamminga e le disse:

– Venite, signora: vi ho ammirato anch’io e credo che nessuna donna avrebbe affrontata la morte come avete fatto voi per vedere la mia Folgore lottare coll’uragano.

La giovane si era alzata, scuotendosi di dosso l’acqua che le aveva inzuppate le vesti non solo, ma anche i capelli. Guardò il Corsaro negli occhi, sorridendo poi gli disse:

– Può darsi che nessuna donna avrebbe osato salire in coperta, ma posso dire che io sola ho veduto il Corsaro Nero guidare la sua nave, in mezzo ad uno dei piú tremendi uragani, ed ho ammirato la sua forza e la sua audacia.

Il filibustiere non rispose. Era rimasto dinanzi a lei guardandola con due occhi ardenti mentre la sua fronte pareva che fosse diventata cupa.

– Siete una valorosa, – mormorò poi, ma cosí sommessamente da venire udito solamente da lei.

Poi sospirando aggiunse:

– Peccato che la triste profezia della zingara faccia di voi una donna fatale.

– Di quale profezia volete parlare?… – chiese la giovane con stupore.

Il Corsaro invece di rispondere scosse tristamente il capo, mormorando:

– Sono follie!

– Sareste superstizioso, cavaliere?…

– Forse.

– Voi?

– Ehi!… Le predizioni talora s’avverano, signora.

Guardò le onde che venivano ad infrangersi contro i fianchi della nave con cupi muggiti e mostrandole alla giovane, disse con voce triste:

– Domandatelo a loro, se lo potete… entrambi erano belli, giovani, forti ed audaci e dormono sotto quelle onde, in fondo al mare. La funebre profezia si è avverata e forse si avvererà anche la mia perché sento che qui, nel cuore, una fiamma s’alza gigante, senza che io la possa ormai piú spegnere.

Sia!… Si compia il fatale destino se cosí è scritto: il mare non mi fa paura e dove dormono i fratelli miei potrò trovar posto anch’io, ma piú tardi, quando il traditore mi avrà preceduto.

Alzò le spalle, fece con ambe le mani un gesto di minaccia, poi scese dal cassero lasciando la giovane fiamminga piú stupita che mai, per quelle parole che non poteva ancora comprendere.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Tre giorni dopo, quando il mare era ormai diventato tranquillo, la Folgore, spinta da venti favorevoli, giungeva in vista della Tortue, il formidabile nido dei filibustieri del gran golfo.