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Jolanda, la figlia del Corsaro Nero

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Capitolo diciottesimo. Il tradimento

Quando l’alba sorse, la nave non si trovava in condizioni di rimettersi alla vela.

I carpentieri, quantunque avessero lavorato alacremente tutta la notte, non erano ancora riusciti a turare interamente la falla, che si era aperta presso la ruota di prora e che aveva delle dimensioni tali, da mettere in serio pericolo il veliero.

Anche il timone non era stato ancora finito, non avendo trovato nei depositi il legname adatto a quel genere di costruzioni, cosicché Morgan si vedeva costretto ad attender forse altre ventiquattro ore, prima di poter abbandonare quei paraggi che potevano diventare pericolosissimi, essendo frequentati dalle navi spagnole.

Durante la notte il veliero, quantunque non soffiasse vento, trascinato forse da qualche corrente, si era accostato alla costa venezuelana di tanto, che si poteva già scorgerla vagamente. Quale tratto della costa fosse, nessuno poteva saperlo, perché anche il capitano spagnolo, interrogato in proposito, non aveva data alcuna informazione precisa, affermando di non aver potuto fare il punto del mezzodì da quarantotto ore, in causa dell’uragano.

Anche il rottame, abbandonato a sé stesso, era stato trascinato verso il sud durante la notte e lo si poteva vedere, ad una distanza di dodici o quindici miglia, un po’ rovesciato sul babordo, ma sempre galleggiante.

Morgan, che aveva premura di mettersi alla vela e di rifugiarsi alla Tortue, anche per sapere se gli altri legni della squadra, che portavano buona parte delle ricchezze predate, si erano salvati, non aveva lasciata la cala, e continuava ad incoraggiare i carpentieri.

La riparazione non era facile, anche in causa dell’acqua che continuava ad entrare dal foro e che le pompe, quantunque energicamente manovrate, non riuscivano a vincere.

Perfino i prigionieri spagnoli della fregata erano stati occupati a formare una doppia catena, e si facevano passare con mastelli e buglioli, che venivano riempiti in sentina e vuotati in coperta.

Ciò malgrado calò la sera, senza che il duro lavoro fosse ancora stato ultimato, con grande apprensione dell’equipaggio, il quale cominciava a disperare di poter venire a capo di riuscire a mettere il veliero in grado di navigare.

«La va male» disse Carmaux, che era salito in coperta a respirare una boccata d’aria e che aveva appreso dai camerati quelle non liete notizie. «Si direbbe che qualche santo o qualche diavolo protegga il conte di Medina. Se la continua così, invece di andare alla Tortue, andremo a naufragare sulle coste del Venezuela».

«Lo credi compare?» chiese Wan Stiller, che si era fatto surrogare nella guardia da un amico.

«Stamane la costa era appena visibile, ed ora si distingue perfettamente. Vi è una maledetta corrente che ci trascina fatalmente verso il sud».

«Non si può dunque chiudere quella falla?»

«Pare invece che se ne sia aperta un’altra. Mi hanno detto or ora che altra acqua entra, scendendo dalla poppa».

«Non se n’erano accorti prima?»

«No».

«Come si spiega questa istoria?»

«Corrono dei sospetti».

«Quali?»

«Che qualche prigioniero spagnolo, approfittando della poca sorveglianza che esercitano i nostri uomini, troppo occupati alle pompe, abbia sabotato la nave da quel lato».

«Il capitano dovrebbe farlo impiccare».

«Va a cercarlo tu» disse Carmaux.

«Che cosa dice il signor Morgan?»

«È furibondo ed ha minacciato di far gettare in acqua tutti i prigionieri, se riesce a scoprirne qualcuno con qualche attrezzo da trapanare».

«Hai tenuto d’occhio il capitano?»

«Non ho cessato di sorvegliarlo e credo che si sia accorto che io ho dei sospetti su di lui».

«Che sia stato lui a sabotare la nave a poppa?»

«No, perché l’ho sempre veduto a pompare» rispose Carmaux.

«Che abbia qualche complice?»

«Chi può saperlo? Bah, non disperiamo» disse Carmaux.

Ahimè!… Pareva che la sfortuna, unita forse al tradimento, avesse giurato di non lasciar tregua ai vincitori di Maracaybo e di Gibraltar.

I carpentieri, alla mezzanotte, quando già speravano di poter dare gli ultimi colpi alle tavole e alle lastre di rame adoperate per chiudere la falla, erano stati bruscamente scacciati dalla sentina da un’improvvisa irruzione d’acqua che colava da babordo e così rapidamente che in meno di dieci minuti aveva coperto il paramezzale.

Quasi nell’istesso tempo, come se quella nuova disgrazia non bastasse, si era levato un forte vento dal nord, spingendo la nave, con maggior velocità, verso la costa venezuelana, che doveva essere ormai vicina.

Al grido di allarme dei carpentieri, Morgan era prontamente accorso con Pierre le Picard ed aveva dovuto, suo malgrado, constatare che, questa nuova via d’acqua, apertasi improvvisamente, non era possibile vincerla colle pompe di bordo, tanto più che l’equipaggio era completamente prostrato da quell’incessante e faticosa manovra che durava da ventiquattr’ore.

«Tanto valeva rimanere sul rottame» disse a Pierre le Picard, che si asciugava alcune stille di sudore freddo. «Nel cambio non abbiamo fatto alcun guadagno».

«Era dunque un crivello lo scafo di questa dannata nave?» disse il secondo, con ira. «O che una mano colpevole, malgrado le tue minacce, abbia sabotata nuovamente la chiglia? Se avessimo urtato contro qualche roccia, il colpo si sarebbe ripercosso anche sulla coperta».

«Sì» disse Morgan, «qui è stato commesso un infame tradimento. Mentre i nostri uomini cercavano di otturare la falla, una mano colpevole ne ha aperta un’altra».

«A quale scopo?»

«Per impedirci di tornare alla Tortue; la cosa è spiegabilissima».

«Che il governatore avesse qualche amico fra i prigionieri della fregata?»

«Può darsi, Pierre» rispose Morgan.

«Avresti dovuto gettarli tutti in mare, come io ti avevo consigliato» disse il piccardo.

«La signora di Ventimiglia non ci avrebbe mai perdonata una simile crudeltà, che suo padre mai avrebbe permessa».

«È vero» rispose Pierre le Picard, con un po’ di malumore però. «Che fare ora?»

«Non ci rimane altro che far arenare la nave su qualche banco e tentare poi di chiudere le falle».

«Il mare monta, Morgan, ed il vento di tramontana soffia forte».

«Cercheremo di arenarci su di una costa piana. Orsù, spieghiamo qualche vela e cerchiamo di approdare, prima che la nave si riempia d’acqua».

Quando salirono in coperta, trovarono Jolanda, la quale avvertita da Carmaux del pericolo che correva il veliero, aveva lasciata subito la cabina.

«Affondiamo, signor Morgan?» chiese colla sua solita voce tranquilla.

«Non ancora, signora» rispose il filibustiere. «Prima che la nave sia piena d’acqua passeranno almeno due ore ed a noi ne basta una per toccare la costa. La scorgete laggiù verso il sud!»

«Non si spezzerà il veliero? Vedo le onde a formarsi e precipitarsi all’assalto».

«Sì, il mare diventa cattivo» rispose Morgan, «Tuttavia spero di trovare un buon punto per arenare la nave».

Poi, alzando la voce gridò:

«In coperta anche la guardia franca e issate le vele!»

Tutti salirono sulla tolda, compresi Carmaux e Wan Stiller, i quali ritenevano inutile la guardia al governatore in un simile momento.

Il mare in pochi minuti, forse per la vicinanza della costa e per la presenza di scogliere e di bassifondi, oltre che per il vento, era diventato cattivo.

Enormi cavalloni che si formavano sotto gli occhi dell’equipaggio, investivano poderosamente la nave, scrollandola brutalmente.

Pierre le Picard, per dare al veliero un po’ di stabilità e anche per aumentarne la corsa, aveva già fatto spiegare le due vele latine e qualche fiocco sul bompresso.

La costa venezuelana non doveva essere molto lontana. Si udiva il fragore formidabile delle onde rompentisi contro la spiaggia o contro le scogliere, e si vedeva estendersi dinanzi alla nave un immenso lenzuolo biancastro prodotto dalla spuma.

Morgan si era messo al timone, volendo dirigere la nave di suo pugno ed aveva pregato Jolanda di non allontanarsi da lui, onde essere pronto a soccorrerla, ignorando se la nave avrebbe potuto resistere all’urto, e Carmaux si era unito a loro, mentre l’amburghese scandagliava il fondo assieme a Pierre le Picard.

I colpi di mare, man mano che il veliero si accostava alla terra, si succedevano con maggior frequenza. Dei cavalloni enormi varcavano di quando in quando le murate e si rompevano in coperta, minacciando di trascinare via i prigionieri della fregata e anche gli uomini dell’equipaggio.

Il fracasso prodotto da quella terribile risacca, in certi momenti era tale, che non si udivano quasi più i comandi di Morgan e di Pierre le Picard.

A mezzanotte la costa non era più che a cinquecento passi, ma l’oscurità era così fitta da non poter discernere se esistesse qualche rifugio o se vi erano delle scogliere da evitare.

«Dove andiamo noi?» si chiedeva Carmaux, che teneva con una mano la signora di Ventimiglia, onde sorreggerla. «Ci fracasseremo contro le scogliere o la nave affonderà prima di toccare?»

Il timore che la nave s’inabissasse da un momento all’altro, non era ingiustificato. La falla o le falle aperte dal traditore, dovevano essersi rapidamente allargate sotto gli urti poderosi ed incessanti delle onde, poiché il veliero, in meno di mezz’ora, si era immerso d’un paio di metri e l’acqua cominciava a trapelare attraverso i sabordi della batteria, quantunque Morgan avesse fatti chiudere tutti gli sportelli onde ritardare la sommersione.

Si udiva giù nella stiva l’acqua muggire cupamente e rompersi contro le tramezze della batteria e del frapponte, ogni qualvolta la nave, investita dalle onde, si piegava su un fianco o sull’altro.

Morgan, temendo che i prigionieri della nave morissero annegati là dentro, li aveva già fatti salire, compreso il conte di Medina che era stato condotto a prora, e affidato a Wan Stiller, affinché la fanciulla che si trovava a poppa, non potesse vederlo.

 

Alle dodici ed un quarto la nave si trovava fra la risacca, la quale si faceva sentire fortemente. Morgan era sempre al timone e faceva sforzi prodigiosi per mantenere il veliero in rotta.

Quell’intrepido uomo di mare, quantunque non ignorasse che la tolda da un momento all’altro poteva mancargli sotto i piedi, conservava anche in quel terribile frangente una calma ammirabile ed impartiva i comandi con voce calma e limpida.

Solo i suoi sguardi tradivano una profonda emozione, quando si fissavano su Jolanda, quantunque la fanciulla si sfrozasse di non dimostrare alcuna ansietà, né alcuna apprensione e avesse già tre volte detto:

«Non preoccupatevi per me, signor Morgan. Questo naufragio non m’impressiona».

La nave, urtata da tutte le parti, scrollata furiosamente, si dibatteva fra un mare di spuma, non obbedendo quasi più all’azione del timone, né alla spinta delle vele che il vento gonfiava.

S’avanzava, poi indietreggiava, rovesciandosi violentemente ora su un fianco e ora sull’altro, inalberandosi bruscamente, quasi verticalmente, per ricadere subito dopo.

Sotto quelle scosse l’acqua che la riempiva si precipitava come un torrente attraverso il frapponte, alle corsìe della batteria e alla stiva e sfondava con muggiti orribili le porte delle cabine, tutto travolgendo nella sua corsa.

Già la costa non era che a qualche centinaio di metri, quando a prora si udì Pierre le Picard urlare:

«Frangenti dinanzi a noi!… Poggia tutto, Morgan!…»

Il filibustiere che non aveva lasciata la ribolla, orzò alla banda con tutte le forze, sperando di gettare la nave fuori dalla rotta, quando un’onda spaventevole si rovesciò sulla poppa attraversandola da parte a parte.

Morgan s’era precipitato verso Jolanda, afferrandola stretta fra le braccia, mentre Carmaux veniva spinto sopra la murata.

«Aggrappatevi a me, signora!» aveva gridato.

Aveva appena pronunciate quelle parole che si sentì sollevare dall’enorme cavallone assieme alla fanciulla e portare via.

Sprofondò in un avvallamento, senza abbandonare la signora di Ventimiglia, fu coperto da un’onda, poi rimontò alla superficie.

Quando poté aprire gli occhi, scorse la nave ad una gomena di distanza, che veniva ributtata al largo da una contro-ondata.

«Tenetevi stretta a me, signora» disse. «La costa non è che a pochi passi e la nave fra poco naufragherà!»

Jolanda gli si era invece abbandonata fra le braccia, come se fosse svenuta.

«A me!… A me!…» gridò Morgan, spaventato.

Una voce che non era lontana, aveva risposto a quella chiamata disperata:

«Vengo, capitano!…»

Una testa umana era apparsa fra un fiotto di spuma, librandosi sulla cresta di un’onda, poi subito scomparve.

Morgan, vedendo che la fanciulla era inerte, cercava di tenerle la bocca fuori dall’acqua onde sottrarla all’asfissia e si era messo a nuotare disperatamente.

Uomo gagliardo e abituato a sfidare i flutti, quantunque la signora di Ventimiglia lo imbarazzasse non poco, non temeva di annegare. Altre volte si era sottratto alla morte, gettandosi audacemente fra le onde prima che la nave affondasse.

Ciò che invece lo preoccupava era, oltre alla violenza dei cavalloni, la vicinanza della costa. Se questa rappresentava la salvezza, poteva anche offrire dei gravi pericoli, con quella risacca furiosa che tutto sconvolgeva.

Ripeté la chiamata e udì la medesima voce di prima a rispondere:

«Un momento, signor Morgan, auff!… Vengo!…»

Un grido di gioia era sfuggito al filibustiere:

«Carmaux!…»

«Sì, sono io, signor Morgan».

«Affrettati».

«Maledette onde!…»

«La signora di Ventimiglia è svenuta!…»

Il bravo marinaio con un’ultima bracciata era giunto dietro a Morgan.

«Qui… appoggiatevi, capitano… ho strappato un salvagente nel momento in cui l’onda mi spazzava via…

«Tuoni d’Amburgo, come dice l’amico Wan… la signora qui…»

Morgan, vedendo presso di sé il marinaio che s’appoggiava all’anello di sughero, si era voltato, allungando la mano che aveva libera, mentre colla sinistra alzava la fanciulla che non era ancora tornata in sé.

«Grazie, Carmaux» disse, mentre un’altra onda li portava via spingendoli maggiormente verso la spiaggia.

«Avete urtato, capitano?» chiese il marinaio.

«Io no».

«La signora è svenuta?»

«Forse l’onda l’avrà sbattuta sul capo di banda. Aiutami, Carmaux, e facciamole scudo, quando verremo scaraventati contro la spiaggia».

«Riceverò io il primo urto, capitano» rispose Carmaux, passando un braccio attorno alla vita di Jolanda.

«E la nave, dov’è andata che non si scorge più?»

«L’ho veduta respinta al largo… Badiamo!… Ho toccato… siamo addosso alla riva».

«Non lasciate la signora… Carmaux!»

«No… signor Morgan…»

Le onde li travolgevano, sbattendoli in tutti i versi. Il frastuono prodotto dalla risacca era diventato tale che non potevano più udirsi. Morgan faceva sforzi sovrumani per tenere la testa della fanciulla fuori dall’acqua, però, di quando in quando, una massa di spuma li copriva tutti e tre obbligandoli a bere.

Già due volte avevano toccato, quando un cavallone che si avanzava muggendo, li sollevò a prodigiosa altezza, spingendoli innanzi con rapidità straordinaria.

«Non lasciare!…» ebbe appena il tempo di gridare Morgan.

Sentirono le loro gambe impigliarsi in qualche cosa e come imprigionarli. La cresta del cavallone passò sopra le loro teste frangendosi contro i tronchi d’alcuni alberi, che apparivano confusamente fra le tenebre, poi la massa liquida si ritrasse verso il mare, cercando di trascinare seco i tre naufraghi, ma gli ostacoli che li avevano imprigionati non avevano ceduto.

«Siamo a terra!…» aveva urlato Carmaux con voce tuonante. «Siamo salvi!…»

Il cavallone li aveva trascinati in mezzo ad un caos di paletuvieri ed i rami contorti di quelle piante li avevano non solo trattenuti, ma avevano anche smorzata la violenza dell’urto.

«Fuggiamo, prima che l’onda ritorni» aveva gridato Morgan.

Lasciò andare il salvagente, che ormai non gli era più d’alcuna utilità, con un braccio si strinse al petto la fanciulla, e passando di ramo in ramo, raggiunse il margine della boscaglia.

Fortunatamente, il secondo cavallone non fu così enorme come l’altro e si era sfasciato contro le prime file delle rizofore.

«Ecco un approdo veramente fortunato» disse Carmaux, che era stato lesto a seguire Morgan. «Cerchiamo di far tornare in sé la signora di Ventimiglia».

«Speriamo che non abbia riportata alcuna ferita» ripose Morgan, la cui voce era un po’ alterata. «Ci vorrebbe del fuoco, innanzi tutto».

«Ho l’acciarino e l’esca chiusi in una scatola di metallo impenetrabile all’umidità! Vediamo se tutto è asciutto».

«Sbrigati, Carmaux. Sono inquieto».

«Batte il suo cuore?»

«Sì».

«Non sarà nulla, signor Morgan. l’esca è ben secca e non è entrata una sola goccia d’acqua nella scatoletta».

«Raccogli dei rami secchi mentre io preparo un giaciglio».

Morgan depose dolcemente la fanciulla, poi, avendo ancora al fianco la spada, tagliò otto o dieci foglie di banano e ne formò uno strato, che rese più soffice con dei muschi strappati dal tronco d’un albero enorme.

Carmaux intanto aveva raccolto a tentoni delle foglie secche e dei rami ed aveva improvvisato un piccolo falò, accendendolo senza troppa fatica.

Appena la fiamma s’alzò, rompendo le tenebre, fu vista la fanciulla alzare un braccio, come se cercasse di allontanare qualche cosa.

Morgan aveva mandato un grido di gioia:

«Ritorna in sé!… Signora Jolanda!… Signora di Ventimiglia!…»

La fanciulla aveva ancora gli occhi chiusi ed il suo bel viso era pallidissimo, però la respirazione da qualche istante era diventata più libera.

«Signora… signora… siete salva» ripeteva Morgan, che le stava curvo sopra, spiando ansiosamente ogni suo minimo movimento. «Siamo sulla costa!…»

A un tratto la fanciulla si scosse ed i suoi begli occhi si aprirono, fissandosi su Morgan.

«Voi… signore…» mormorò.

«Sì, sono io, Morgan…»

Un sorriso sfiorò le labbra della figlia del Corsaro Nero e la sua destra strinse quella del filibustiere.

«L’onda… me la ricordo… ma sono ancor viva?…»

«Siete ferita, signora?»

«No… ho urtato… è vero… quando l’onda mi trascinava via… e la nave? e gli altri?…»

«Non pensate al veliero» disse Morgan. «Suppongo che si sia arenato in qualche luogo».

«Ah!…» esclamò la fanciulla, vedendo presso di sé il francese. «Siete voi, Carmaux?»

«Dove si trova la figlia del mio capitano, mi trovo sempre anch’io» rispose il marinaio, sorridendo.

«Ma dunque tu non sei stato trascinato dall’onda?» disse Morgan.

«Mi ero già aggrappato alle griselle di babordo dell’albero maestro, quando vidi voi fuori dal bordo colla signora di Ventimiglia ed allora mi sono lasciato andare anch’io, pensando di potervi essere utile, tanto più che avevo potuto staccare un salvagente».

«Grazie, vecchio mio» disse Morgan con voce commossa. «Tu sei un marinaio impareggiabile».

«Sono un marinaio del Corsaro Nero» rispose modestamente Carmaux.

Capitolo diciannovesimo. I naufraghi

Per il resto della notte, i due filibustieri e la signora di Ventimiglia, che si era prontamente rimessa, non avendo riportata alcuna ferita, lo passarono accanto al fuoco per asciugarsi le vesti, non osando allontanarsi dalla costa.

D’altronde, prima di prendere una qualche decisione, volevano sapere che cosa era avvenuto del veliero, che era scomparso fra le tenebre e non si era più vista. Non credevano che fosse andato a picco, quantunque ormai quasi pieno d’acqua; era più probabile che si fosse arenato in qualche altro punto della costa o sui bassifondi che Pierre le Picard aveva segnalati, pochi minuti prima che quel terribile colpo di mare si rovesciasse sulla poppa.

Se il veliero si fosse spaccato a breve distanza, certo le grida dei naufraghi sarebbero giunte agli orecchi di Morgan e del suo compagno, malgrado l’incessante frastuono delle onde.

Un ardente desiderio di conoscere la sorte toccata alla disgraziata nave aveva tormentato incessantemente Morgan ed il francese, sicché, appena i primi albori ebbero fugate le tenebre, furono lesti a dirigersi verso i paletuvieri, colla speranza di scoprirla.

Fu un crudele disinganno: la nave era scomparsa!…

«Che sia andata a picco?» chiese Carmaux, che pensava al suo amico Wan. «Che cosa ne dite, signor Morgan?»

«Se fosse naufragata si vedrebbero dei rottami» rispose il filibustiere, che osservava attentamente le onde che si accavallavano ancora violentemente, rovesciandosi verso la spiaggia. «Vedi tu delle casse, dei barili, dei pennoni o dei pezzi di murata?»

«No, signore».

«E nemmeno io» disse Jolanda che li aveva raggiunti. «Vedo laggiù una punta che si protende verso il nord-est» disse Morgan. «Può darsi che le onde l’abbiano spinta dietro quel capo».

«Mi rincrescerebbe che il mio amico Wan Stiller si fosse sommerso senza di me».

«Appena potremo, ci spingeremo verso quella punta» disse Morgan.

«Capitano» disse Jolanda, «sapete dove siamo naufragati?»

«Sulla costa venezuelana, signora, ma dove precisamente, non ve lo saprei dire».

«Hanno delle città qui gli spagnoli?»

«Sì, e non poche, quantunque assai lontane le une dalle altre. Preferisco però evitarle con somma cura».

«Come farete allora a tornare alla Tortue?»

«Non lo so, signora; per ora non pensiamo a ciò. In qualche modo ce la caveremo, è vero Carmaux?»

«Un filibustiere trova sempre il modo di tornarsene a casa».

«Potresti intanto offrirci qualche cosa, vecchio mio. Le foreste del Venezuela non mancano di risorse».

«Non ho che il mio coltello di manovra, signor Morgan».

«Ed io la spada e la mia pistola che non prenderà certamente fuoco. Magro armamento, se troveremo gli indiani».

«Ve ne sono qui?» chiese Jolanda.

«I Caraibi sono numerosi su queste coste e vi sono anche delle tribù che hanno ancora l’usanza di divorare i prigionieri di guerra. Dovremo guardarci da loro.

Convinti di poter ben presto ritrovare i loro camerati, lasciarono la spiaggia e si avviarono verso il margine della foresta, che formava come una immensa muraglia di verzura e che, a prima vista, sembrava impenetrabile.

Quelle terre bagnate dalle acque del golfo del Messico, irrigate da fiumi giganti e benedette dal sole, sono di una fertilità prodigiosa e lo sviluppo che viprendono le piante è straordinario.

 

Basta che una piantagione venga trascurata per poche settimane, perché sia subito invasa da un caos di piante che crescono quasi a vista d’occhio. Dopo un anno, una vera boscaglia copre ogni cosa e fa sparire ogni traccia di coltivazione.

La foresta che copriva tutta la costa, e che, molto probabilmente, si estendeva per un tratto immenso anche nell’interno, esistendo in quell’epoca un gran numero di foreste vergini nell’America Meridionale, pareva che fosse costituita, almeno sul margine, da due sole qualità di piante: da palmizi e da bombax.

Infatti, fin dove si estendeva lo sguardo, non si scorgevano che le foglie verdi cupe dei primi, disposte come immensi ciuffi all’estremità di fusto non molto alti né molto grossi e assai diritti, e quelle più chiare e meno lunghe dei secondi, che avevano tronchi più grossi e biancastri ed i rami coperti di frutta irte di spine, che sono poi così dure da potersi adoperare come chiodi.

Sotto quelle vôlte di verzura, strette le une alle altre, ritte o aggrovigliate come serpenti, o giacenti al suolo, si scorgevano ammassi di piante parassite, di liane, di racchette che danno una specie di fichi di Barberia e di gambi sarmentosi di niku, dalla scorza bruna e lucente.

Fra i rami strillavano a piena gola dei macachi, scimmie voracissime e ghiottissime, e svolazzavano dei tucani dal becco enorme e dei cassichi che facevano dondolare i loro nidi in forma di borse.

In lontananza un onorato, appollaiato sulla cima del più alto palmizio, lanciava con una monotonìa noiosa le sue note musicali: do… mi… sol… do…

«La colazione non mancherà» disse Carmaux, dopo d’aver dato uno sguardo alle piante.

«Forse quelle frutta spinose?» chiese Jolanda.

«Buone appena per le scimmie quelle, signora». rispose Morgan. «I formaggeri non sono d’alcuna utilità per gli uomini e sopratutto per gli affamati».

Quelle piante dalla scorza biancastra si chiamano anche così e non già perché producano del formaggio, ma per il loro legno che è bianco e poroso»

«E gli altri?» chiese Jolanda.

«Sono cavoli palmisti, è vero, Carmaux?»

«Sì, signore, ed è un vero peccato non avere qualche animale da mettere allo spiedo, avendo il pane ormai assicurato».

Anche l’arrosto stava per offrirsi da sé».

Un grido strano, che pareva emesso da una trombetta, era echeggiato a breve distanza.

«Che cos’è?» chiese Jolanda, stupita.

«Un segnale degl’indiani?» chiese Morgan, sfoderando rapidamente la spada.

«È arrosto che si annuncia» disse Carmaux ridendo. «Buon uccello l’agami. Rincresce ucciderlo, ma il ventre non ragiona. Signor Morgan, datemi la vostra spada».

Un bel volatile, grosso come un gallo, colle gambe lunghissime, colle penne nere sul collo e sulle ali, a riflessi azzurro dorati sotto il ventre e rossastri sul dorso, era balzato fuori da un cespuglio, salutando i naufraghi con un allegro strombetto.

Quel grazioso uccello non dimostrava alcun timore per la vicinanza di quelle tre persone, anzi le guardava a testa alta, starnazzando le ali e continuando la sua rumorosa fanfara.

«Non scappa no quel bravo uccello» disse Carmaux, vedendo che Morgan cercava qualche pezzo di ramo per lanciarglielo addosso, colla speranza di abbatterlo.

«Lasciate fare a me, capitano».

Vedendo a qualche passo un calupo diavolo, pianta che produce dei semi che si ritengono ottimi contro i morsi dei serpenti, specialmente se messi in infusione coll’acquavite, sgusciò alcuni di quei granelli e li gettò al volatile, il quale si mise a beccarli tranquillamente.

«Vedete come si familiarizza subito colle persone» disse Carmaux. «Mi rincresce, lo ripeto, ma non abbiamo di meglio».

Mentre con una mano continuava a gettare semi, coll’altra aveva impugnata la spada datagli da Morgan e, lentamente, s’accostava al povero uccello, il quale non si accorgeva del pericolo.

A un tratto la lama scintillò in aria e l’agami, decapitato di colpo, stramazzò fra le foglie secche, sbattendo le ali.

«Ah! Poveretto!» esclamò Jolanda. «Tradire così la sua fiducia».

«Combattiamo la lotta per l’esistenza, signora» rispose Morgan. «Occupati del pane ora, vecchio mio, mentre io preparo l’arrosto».

Aiutato dalla fanciulla fece raccolta di rami e riaccese il fuoco, poi si mise a spennacchiare il volatile, mentre Carmaux, aiutandosi colle liane, dava la scalata ad uno dei più grossi palmizi.

Pochi minuti dopo un rumore di fronde scosse e di rami schiantati annunciava a Morgan che anche il pane era assicurato.

Pane veramente non era, poiché i cavoli palmisti non hanno nulla a che fare cogli artocarpi che danno una pasta, che se non somiglia precisamente a quella che si ricava dalla farina, ne fa benissimo le veci, quantunque abbia un gusto che la fa piuttosto rassomigliare a quello di certe specie di zucche e del gambo dei carcioffi.

I palmisti producono invece una mandorla mostruosa, lunga talvolta quasi un metro e grossa anche come la gamba d’un uomo, bianca, liscia, di sapore eccellente e che per gl’indiani fa le veci della cassava, ossia delle gallette di manioca, quando questo tubero manca.

Carmaux, che era disceso, si era subito messo a scortecciare la mandorla, quando ai suoi orecchi giunse un rumore di foglie e di rami, come se qualcuno cercasse di aprirsi il passo fra le piante.

«Signor Morgan, all’erta!» gridò, balzando in piedi e porgendogli la spada. «Pare che qualcuno si avvicini».

«Qualche animale?» chiese il filibustiere, gettandosi prontamente dinanzi a Jolanda.

«Non lo so, signore» rispose il marinaio, raccogliendo da terra un grosso ramo che poteva servirgli da randello. «Mi pareva che qualcuno corresse fra le piante».

«Io non odo nulla; e voi, signora Jolanda?»

«Nemmeno» rispose la fanciulla.

In quel momento i rami d’un folto cespuglio s’erano aperti e due indiani erano comparsi improvvisamente, impugnando un lungo arco di due metri e delle freccie pure lunghissime, munite all’estremità d’una spina acutissima.

Erano quasi nudi, di statura piuttosto alta, colla pelle bruno-rossiccia, solcata da strane pitture fatte col succo di genipa, i capelli neri, grossolani e lunghissimi, e gli occhi assai foschi.

Attorno alle reni portavano un piccolo gonnellino di fibre vegetali ed al collo ed ai polsi collane e braccialetti di denti d’animali feroci e di artigli di giaguaro o di coguaro, con qualche scaglietta di tartaruga.

Vedendo i naufraghi, si erano arrestati guardandoli con una certa curiosità, senza però manifestare, almeno per il momento, alcuna intenzione ostile, poi uno dei due che portava infisso nei capelli il becco d’un tucano, fece qualche passo, dicendo in cattivo spagnolo:

«Che cosa fanno qui gli uomini bianchi?»

«Siamo naufragati la scorsa notte» rispose Morgan, che copriva sempre, col proprio corpo, Jolanda. «E voi chi siete?»

«Caraibi» disse l’indiano.

«Come mai conosci lo spagnolo, tu?»

L’indiano prese un atteggiamento fiero, poi con un gesto maestoso disse:

«Io sono Kumara, il più valente guerriero della tribù, che ha uccisi molti nemici e che ha veduto la grande città degli uomini venuti colle grandi piroghe dalla parte ove il sole si leva. Io conservo nella mia capanna la collana di metallo bianco che mi ha dato il capo dei volti bianchi. Kumara è un grande guerriero».

L’indiano, terminata la sua presentazione, si era appoggiato all’arco, sporgendo il petto e alzando la testa più che poteva in una posa eroicomica, che fece sorridere i naufraghi.

«Signor Morgan», disse Carmaux «aspetta la nostra risposta».

«T’incarico di fare la mia presentazione» rispose il filibustiere.

«Sarà tremenda».

Fece a sua volta due passi innanzi e alzando minacciosamente il randello come se volesse spaccare il groppone a qualcuno, gridò con voce tuonante, indicando Morgan:

«L’uomo che tu vedi è il capo d’una immensa tribù, che non è stata mai vinta nemmeno dagli spagnoli. Ha un numero infinito di grandi piroghe, di tubi che scatenano il fulmine e che uccidono a grandi distanze e può dominare, con un gesto, i venti e le tempeste. Il suo braccio è invincibile e la spada che stringe ha tagliate più teste di quanti sono gli alberi di questa foresta. Egli è il più grande guerriero dei paesi dove il sole si leva».

«Non mancava altro che mi proclamasse un nume» disse Morgan, ridendo.

I due indiani avevano ascoltato in silenzio le spacconate di Carmaux, conservando una serietà assoluta.