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Jolanda, la figlia del Corsaro Nero

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Capitolo ventunesimo. Il ferito

Il fiume si riversava in una vastissima laguna o savana che fosse, interrotta qua e là da banchi fangosi, su cui erano cresciuti rigogliosi mazzi di bambù, grossi quanto il corpo d’un uomo e di manghi, i quali immergevano nelle acque le loro radici contorte.

Le rive, quantunque assai lontane, apparivano coperte da boscaglie che dovevano essere foltissime, a giudicarle dalla enorme quantità di tronchi che si slanciavano a grandi altezze, stendono in tutte le direzioni delle foglie mostruose.

Nessun canotto scivolava fra le larghe foglie delle aninga e delle murici che coprivano vaste zone d’acqua. Volavano invece in grossi stormi dei martini pescatori, dei beccaccini e dei ciganas, specie di fagiani che difficilmente si allontanano dalle rive dei fiumi o delle paludi.

Dopo essersi assicurato che quel luogo era deserto e aver fatto legare il canotto, affinché la corrente, che si faceva sentire abbastanza forte, non lo portasse via, Morgan si sbottonò la casacca di grosso panno e la camicia di flanella, mettendo allo scoperto la spalla destra, dove appariva uno squarcio, prodotto dalla freccia, che dava sangue in abbondanza.

«Mio povero amico» disse Jolanda, che guardava con visibile commozione la ferita. «Quanto dovete soffrire!»

«Datemi la spada, signora» disse Morgan.

«Che cosa volete fare?»

«Allargare la ferita per estrarre la punta che è rimasta nella carne».

«Mio Dio!…»

«Bisogna levarla, signora, o produrrà un’infiammazione pericolosa».

«Soffrite assai».

«Non è la prima freccia che mi colpisce. Sulle rive dell’Orenoco ne ho ricevuta un’altra. Fortunatamente quest’indiani non hanno la triste abitudine d’avvelenarle, se no a quest’ora non sarei più vivo».

«Aspettate, signor Morgan» disse Jolanda.

«Che cos volete fare?»

«Non abbiamo nulla per fasciare la ferita».

«Ecco là una pianta di cotone. Troverete al suolo delle capsule ben fornite di peluria. Per fasciarla basterà una manica della mia camicia di lana.

«Andate, signora Jolanda; è tempo di arrestare il sangue».

La fanciulla aveva già osservata la pianta, che cresceva a cinquanta o sessanta passi dalla riva, sul margine dell’immensa foresta.

Mentre si allontanava, Morgan pulì la punta della spada sulla propria camicia, poi con coraggio straordinario la cacciò delicatamente nella ferita allargandola, finché trovò l’estremità inferiore della freccia. Afferrarla e strapparla violentemente colle dita, fu l’affare d’un istante.

Il dolore però era stato così intenso, che il disgraziato cadde all’indietro mezzo svenuto.

Quando la fanciulla ritornò colle mani piene di cotone, Morgan non si era ancora rimesso dall’atroce spasimo.

Giaceva disteso sull’erba, cogli occhi socchiusi, pallidissimo, mentre il sangue usciva a fiotti dalla ferita.

Nella mano sinistra stringeva ancora, colle dita raggrinzate, la punta della freccia, una spina d’ansara lunga un buon pollice, dalla punta acutissima e resistente quanto un ago d’acciaio.

Vedendolo in quello stato, la signora di Ventimiglia aveva mandato un grido d’angoscia:

«Signor Morgan!… Signor Morgan!…»

Il filibustiere, a quel grido aveva riaperti gli occhi ed aveva tentato di rialzarsi, senza riuscirvi. Le indicò la ferita, mormorando:

«Qui… arrestate… la vita fuggirà… Non spaventatevi…»

Jolanda si era inginocchiata presso di lui.

Con mano ferma pulì la ferita da cui il sangue sfuggiva sempre, riunì delicatamente le due labbra prodotte dalla spina, vi applicò una manata di bambagia, poi, strappato un lembo del fazzoletto di seta che portava sul capo per difendersi dagli ardori del sole, fasciò la piaga meglio che poté.

Morgan non aveva mandato un lamento. Anzi le labbra del fiero scorridore del mare si erano atteggiate ad un sorriso.

«Grazie… signora…» mormorò, respirando a lungo. «Mi avete bendato… meglio d’un… medico».

«Soffrite molto?»

«Cesserà… poi… la perdita del sangue… mi ha indebolito…»

«Riposatevi, signor Morgan, io veglio su di voi…»

Il filibustiere accennò col capo di sì e si abbandonò fra le erbe. Si sentiva estremamente spossato e provava negli orecchi un ronzìo doloroso.

La febbre non doveva tardare a sopraggiungere. Già le sue gote si colorivano d’una tinta infuocata ed il suo respiro diventava affannoso.

La fanciulla, temendo che prendesse qualche colpo di sole, colla spada tagliò alcune gigantesche foglie di banano, piantò al suolo alcuni rami ed improvvisò una minuscola tettoia, sufficiente a riparare il ferito.

«Ah, mio Dio!» mormorava la povera fanciulla, che si era seduta presso il filibustiere ormai assopito. «Se vi fosse qui Carmaux. Che i selvaggi l’abbiano ucciso? Che cosa farò io, su questa laguna, con un ferito?…»

Morgan cominciava a vaneggiare. Dalle sue labbra, arse dai primi assalti della febbre, uscivano parole tronche e sconclusionate.

Parlava della Tortue, della sua Folgore, di Pierre le Picard, di Carmaux.

Ad un tratto un nome giunse agli orecchi della fanciulla, facendola sussultare.

«Jolanda» aveva mormorato il ferito, con un tono di voce dolcissima. «Brava fanciulla…»

«Sogna di me» disse la figlia del Corsaro.

Un rapido rossore le aveva inporporate le gote e i suoi sguardi si erano fissati sui fieri lineamenti del filibustiere, che né il dolore prodotto dalla ferita, né la febbre avevano alterati.

«Sogna» mormorò per la seconda volta. «E sogna di me…»

D’improvviso Morgan si scosse e aprì gli occhi, balbettando con voce rantolosa:

«Acqua… acqua… la sete mi divora».

Aveva fatto cenno di rialzarsi, ma la fanciulla gli pose una mano sulla fronte, dicendo:

«No, signor Morgan, non muovetevi. Vi porterò da bere».

«Ah!… Siete voi, signora Jolanda… quanto siete buona… Vegliate su di me… maledetto selvaggio!…»

«Non irritatevi. Nessuno ci minaccia».

«E Carmaux?… E Carmaux?»

«Non ho veduto più nessuno. Speriamo che siano riusciti a sfuggire all’inseguimento degli Oyaculè».

«Voi… sola…»

«Ho la spada e anche una palla nella pistola. Non ho sparato che un solo colpo. Attendetemi, signor Morgan».

Raccolse una foglia di banano, ne staccò un pezzo che arrotolò in forma di cornetto e si avviò verso il fiume, essendosi accorta che l’acqua della laguna era salmastra.

La foce del rapido corso d’acqua non era lontana che tre o quattrocento passi.

La coraggiosa fanciulla vi si diresse, costeggiando il bosco, e giunta presso la riva, si curvò per riempire il cornetto.

Stava per immergerlo, quando s’arrestò, guardando con ispavento verso la riva opposta, che non distava più di quindici passi.

Su un albero che si curvava sul fiume, adagiato su un ramo trasversale che radeva quasi l’acqua, stava un animale lungo oltre un metro, colla testa piuttosto grossa, il corpo robusto, coperto da un pelame fitto e morbido, grigiastro sul dorso con macchie e striscie nere, e bianco sotto il ventre.

Guardava attentamente la corrente e lasciava pendere dal ramo la coda, sfiorando dolcemente l’acqua coll’estremità di essa.

«Che sia un giaguaro?» mormorò la fanciulla, gettandosi prontamente dietro una macchia di legno cannone.

Il fiume che la divideva dalla fiera, come dicemmo, era poco largo in quel punto e quell’animale poteva, con un salto, varcarlo e piombarle addosso.

Pareva però che non si fosse nemmeno accorto della presenza della fanciulla, poiché continuava la sua misteriosa manovra senza staccare gli sguardi dalla corrente.

«Ho commessa un’imprudenza a non prendere con me né la spada, né la pistola» mormorò Jolanda. «Eppure bisogna che porti dell’acqua a Morgan».

Stava per uscire dalla macchia, quando vide l’animale fare un brusco movimento, quindi lo udì mandare un rauco ruggito.

Aveva ritirata rapidamente la coda a cui erasi attaccato qualche cosa d’informe, che a prima vista Jolanda non comprese che cosa potesse essere, poi curvatosi innanzi afferrò colle zampe anteriori quel corpo che si dibatteva.

«Una testuggine» disse Jolanda. «Che abile pescatore!»

L’animale soddisfatto della sua presa, con un salto immenso si era slanciato sulla riva, scomparendo rapidamente fra i cespugli.

«Forse quel povero rettile mi ha salvata la vita» pensò la fanciulla.

Riempì d’acqua il cornetto e fuggì verso la laguna, guardandosi alle spalle per paura che quell’animale si fosse deciso a varcare il fiume per procurarsi una preda più grossa.

Quando giunse presso la piccola tettoia, Morgan era ricaduto in un profondo torpore e giaceva, in mezzo alle foglie di banano, colle braccia allargate e la testa rovesciata.

Jolanda stava per chiamarlo, quando retrocesse vivamente mandando un grido d’orrore.

Sul petto del ferito, fra la camicia e la casacca, stava accovacciato un ragno mostruoso, dal corpo peloso e nero, le zampe lunghissime, pure pelose e rigate in giallo, armate alle loro estremità di branche formidabili.

Aveva otto occhi, brillanti come carbonchi, di grandezza ineguale, disposti gli uni vicini agli altri in forma d’un X.

L’orribile bestia pareva che si disponesse a rimuovere la fasciatura della ferita.

Jolanda, inorridita, era rimasta immobile, mentre il ragno, accortosi della sua presenza, la fissava coi suoi numerosi occhi, dardeggiando su di lei degli sguardi feroci.

Ad un tratto si volse, raccolse la spada e vibrò un colpo di punta, gettando il mostruoso ragno a tre passi di distanza, poi con un fendente lo spaccò in due.

«Ah!… L’orribile mostro!…» esclamò. «Se tardavo a sopraggiungere, dissanguava Morgan!…»

In quel momento vide il ferito riaprire gli occhi e tentare di alzarsi.

«Voi… signora» mormorò, mentre un lampo gli illuminava gli sguardi.

 

«Avete sete, signor Morgan?» chiese la fanciulla.

«Sì,.... ho la gola arsa… è la febbre che sopraggiunge e sotto questo clima non manca mai di visitare i feriti».

Jolanda si curvò su di lui, l’aiutò ad alzarsi un po’ e gli accostò alle labbra il cornetto che era ancora quasi pieno di acqua.

Il ferito la trangugiò avidamente fino all’ultima stilla, mandando un sospiro di soddisfazione.

«Grazie, signora» disse.

Ad un tratto fece colle mani un gesto, come di stupore.

«Che cosa avete, signora?» chiese. «Siete pallidissima e le vostre braccia tremano. Avete veduti gl’indiani?»

«No, signor Morgan, rassicuratevi. Guardate là quella brutta bestia che agita ancora le sue zampe. Si era accoccolata sul vostro petto».

«Una migale» disse Morgan. «L’odor del sangue l’aveva attirata. Sono ben brutti quei ragni».

«Uccidono?»

«Oh no, non sono capaci di tanto le migale. È bensì vero che talvolta, se riescono a trovare qualche bambino addormentato, lo dissanguano aprendogli una ferita al collo, ma non sono pericolose per gli uomini. Avete veduto nessuno sulle rive del fiume?»

«Solo un animale che pescava le testuggini e che, ve lo confesso, mi spaventò non poco dapprima, essendomi recata colà senza la spada».

«Grosso molto?» chiese Morgan, che aveva provato un fremito di spavento, non già per sé, bensì per la valorosa fanciulla.

«Pareva una giovane tigre col pelame grigio, bruno e bianco, e striscie nere sul dorso».

«Doveva essere invece un maracaya od un pardino, grandi predatori sì, ma che non assalgono mai l’uomo. Ricordatevi di prendere sempre la spada o la pistola, se sarete costretta ad allontanarvi. Io sono ora impotente a difendervi! Vi fosse qui almeno Carmaux!…»

«Che cosa sarà avvenuto di lui, signor Morgan?» chiese Jolanda, con voce commossa. «Che quei selvaggi lo abbiano ucciso?»

«Carmaux non è uomo da lasciarsi ammazzare come un coniglio e poi era coi due caraibi».

«Che vengano a cercarci?»

«Non ne dubito. Gl’indiani sanno trovare una traccia anche in mezzo alle boscaglie e, non vedendo più il canotto, s’immagineranno che noi ci siamo messi al sicuro in questa savana.

«Ecco la febbre che torna. Passerete una brutta notte, signora».

«Voi, non io».

«Allora, insieme» disse Morgan, cercando di sorridere. «Ah!…» Infilò una mano in una tasca della casacca e aveva estratto una scatoletta di latta. «L’esca e l’acciarino di Carmaux» disse con voce lieta. «È stata una vera fortuna che me l’abbia data».

«Volete che accenda il fuoco?»

«Questa sera, signora. Le belve temono la fiamma e non oseranno accostarsi».

«Vado a fare raccolta di legna».

«E cercate qualche frutto per voi, signora. Non avete nulla per la cena».

«Se permettete tornerò al fiume onde questa notte non vi manchi dell’acqua».

«Siete troppo buona, signora. Se poteste trovare una cuiera sarei lieto».

«Conosco quelle piante» rispose Jolanda «e so come fanno gl’indiani per avere dei buoni recipienti. Non sarà difficile trovarne.

«Addio, signor Morgan, non inquietatevi».

La brava fanciulla prese la spada e si diresse verso la boscaglia, coll’intenzione di attraversare il lembo che copriva una specie di promontorio, dietro a cui doveva scorrere il fiume.

S’inoltrò dunque coraggiosamente fra le enormi piante, che crescevano in tale numero e così vicine da non permettere al sole di attraversare la vôlta di verzura.

Ve n’erano di tutte le specie, mescolate confusamente: saponieri, così chiamati perché le loro corteccie e le loro bacche messe in acqua danno una schiuma densa che ha le proprietà del sapone; cedri, che erano privi di frutta; formaggieri; cotonieri; simaruba; palmizi e maot dalle foglie immense.

La fanciulla ascoltò dapprima, per tema che vi fosse qualche carnivoro nei dintorni, poi, non udendo che le note monotone dell’onorato, si cacciò in mezzo alle piante, raccogliendo qua e là dei rami morti, che riuniva in piccoli fasci, legandoli con dei pezzi di liana.

Non dimenticava anche la cena e faceva raccolta di manghi, che abbondavano sul suolo, staccatisi perché troppo maturi, e anche dei grossi aranci, che faceva cadere dai rami più bassi servendosi della spada.

Continuò così ad avanzarsi attraverso il promontorio, affrettando il passo, perché vedeva ormai il sole declinare rapidamente e l’oscurità addensarsi sotto le macchie.

Udiva già il mormorìo del fiume, quando scoperse la cuiera che cercava; una pianta enorme con larghe foglie e numerosi rami, avvolti da piante parassite ed il tronco coperto di muschio. Portava un numero infinito di grosse zucche, lucentissime, di color verde-pallido, di forma sferica e assai più grosse dei poponi.

Ne staccò una, la spezzò in due legandola forte con una liana e la vuotò della polpa bianca che conteneva.

«Ecco due ottimi vasi che riempirò d’acqua per il signor Morgan» disse.

E s’avviò rapidamente verso il fiume, passando fra enormi cespugli, in mezzo ai quali scorgeva, non senza un profondo senso di ribrezzo, numerose migali pelose che la guardavano coi loro occhi lucentissimi, come se cercassero di affascinarla.

Alcune stavano invece semi-nascoste in mezzo alle folte erbe, occupate certo a digerire gli uccelli che avevano sorpresi nei loro nidi e le vedeva asciugarsi sul dorso peloso le loro zampe ancora lorde di sangue.

Riempì in fretta le due metà della cuiera, poi tornò nel bosco che attraversò più presto di prima.

Morgan era sempre coricato e aveva gli occhi aperti, fissi sulle acque nerastre della laguna. La febbre però lo aveva ripreso ed il suo viso, rosso come la luna piena quando s’alza in certi tramonti d’estate, sudava copiosamente.

«Avete fatto nessun incontro?» chiese.

«No, signor Morgan. Ecco l’acqua e delle frutta. Vado a raccogliere la legna per il fuoco di questa notte» rispose la fanciulla.

«Affrettatevi, la sera cala rapida».

«Le fascine non sono lontani, signor Morgan».

La fanciulla che non si sentiva affatto stanca, ritornò nella foresta e riportò alcune fascine. Ne aveva però lasciati altri più innanzi e, temendo che la provvista non bastasse per tenere acceso il fuoco tutta la notte, quantunque il sole in quel momento fosse scomparso, fece una seconda gita.

Si era già caricata degli altri fastelli, quando in mezzo ad una folta macchia di passiflore, udì un miagolìo rauco che terminò in una specie di ululato.

«Un’altra bestia» mormorò la signora di Ventimiglia. « Che brutta notte si prepara».

Si mise a correre e scese la costa senza essersi sbarazzata dei fastelli.

Trovò Morgan seduto che stringeva nella destra la pistola. Pareva in preda ad una viva agitazione.

«Ah!… Grazie, signora!» esclamò, vedendo la fanciulla. «Ho tremato per voi».

«Perché, signor Morgan?» chiese Jolanda.

«Avete udito quell’urlo?»

«Sì».

«Era d’un giaguaro».

«Temevate che mi assalisse?»

«Non hanno paura degli uomini quelle belve e, quando sono affamate, non esitano a gettarsi anche contro i cacciatori. L’avete veduto?»

«No, però non doveva essere molto lontano dal luogo ove mi ero fermata a raccogliere la legna».

«Accendete subito il fuoco, signora».

«Che venga a ronzare attorno al nostro accampamento?»

«Avete paura?»

«Per ora no, signor Morgan» rispose la valorosa fanciulla.

«Il giaguaro si mostrerà, ne sono sicuro. E non sono in grado di difendervi! La febbre fra poco m’atterrerà, lo sento».

«La vostra pistola ha ancora una palla e se quella brutta bestia verrà, le farò fuoco addosso.

Jolanda fece due mucchi di legna e li accese a pochi passi di distanza l’uno dall’altro, poi si sedette presso il ferito, che era ricaduto sul suo giaciglio, mostrando in apparenza una calma ammirabile.

Nel medesimo istante, nella tenebrosa foresta s’alzava un altro urlo, più prolungato del primo.

Il giaguaro certamente stava per scendere verso la laguna.

Capitolo ventiduesimo. Il giaguaro

La notte, sulle rive di quella deserta laguna, al margine di un bosco vicino infestato probabilmente da belve affamate, s’annunciava terribile per la valorosa fanciulla, tanto più che Morgan, ripreso dalla febbre, che sotto quei climi assume rapidamente dei sintomi gravissimi, ricominciava a vaneggiare.

Si era accoccolata sotto la piccola tettoia, presso il ferito e dietro ai due fuochi che mandavano bagliori sinistri sulle piante vicine. Si era messa dinanzi la spada e la pistola e spiava ansiosamente il margine della foresta, dove udiva, di quando in quando, echeggiare il lugubre ululato del giaguaro.

Mille rumori cominciavano ad alzarsi, sia sugli isolotti e sui banchi della laguna ingombri di legni cannone e di manghi, sia fra le folte macchie che proiettavano le loro cupe ombre sulla riva.

Erano gracidii di batraci o di quegli enormi rospi chiamati pipa, sibili di rettili acquatici e terrestri, urla acute che si ripercuotevano senza posa sotto le vôlte di verzura, mandate dalle scimmie rosse e dai cebi, a cui facevano di quando in quando eco gli u-uh! rauchi dei coguari e dei maracaya.

Jolanda si sforzava di mostrarsi tranquilla, tuttavia ad ogni ululato del giaguaro si stringeva presso Morgan e rabbrividiva, credendo sempre di vedersi dinanzi quei formidabili predatori che la fame doveva, presto o tardi, spingere verso il piccolo accampamento.

«Come finirà questa notte?» si chiedeva con angoscia. «Avessi almeno delle munizioni, mentre non ho che un solo colpo da sparare e che può anche andare a vuoto».

Il filibustiere pareva che non udisse nulla. Dormiva o meglio era assopito dalla febbre che abbatteva la sua vigorosa fibra, però di quando in quando si agitava violentemente, sbarrava gli occhi e pronunciava parole che non avevano senso.

Jolanda si sforzava di calmarlo, ma il disgraziato pareva che non udisse neanche la voce della fanciulla. Pareva anzi che si fosse perfino scordato di averla vicina.

Solo a lunghi intervalli, acquistava qualche istante di lucidità e allora la prima parola che gli sfuggiva dalle labbra arse dalla febbre era per chiedere acqua.

Fortunatamente le due mezze zucche erano molto capaci e Jolanda non aveva timore che la provvista si consumasse prima dell’alba.

Verso la mezzanotte però, la febbre essendo forse cessata, Morgan tornò completamente in se stesso. Il suo primo sguardo fu per la fanciulla che gli stava vicino.

«Vegliate?» chiese egli, con dolcezza. «Povera signora!… Fate la guardia, mentre io dormo».

«Non ho sonno, signor Morgan» rispose Jolanda. «E poi mi preme che non si spenga il fuoco».

«Eppure dovete essere stanca».

«Mi riposerò quando si alzerà il sole. Io sto bene, mentre voi siete ferito e avete perduto tanto sangue».

«Sì, quella maledetta freccia!» esclamò Morgan, con rabbia.

«Nessuno ci minaccia per ora».

«La notte nasconde mille pericoli».

A un tratto, con uno sforzo supremo, si alzò a sedere, fissando sulla fanciulla due occhi smarriti.

Aveva udito in quel momento echeggiare il rauco ululato del giaguaro.

«Dite che nessuno vi minaccia?» esclamò. «Avete scordata quella belva?»

«Non si è ancora mostrata presso di noi e poi non ho la spada e la pistola?» rispose la fanciulla.

«Può piombarvi addosso».

«I fuochi ci proteggono».

«Sì, ma non sono tranquillo, signora. Se vi dilaniasse? Aiutatemi ad alzarmi. Voglio difendervi».

«Non avete la forza di affrontare un simile carnivoro, signor Morgan. Rimanete coricato o la vostra ferita invece di rimarginarsi s’inasprirà maggiormente».

«Divorerà almeno me, invece di voi. Non voglio che voi cadiate fra gli artigli di quella fiera».

«Vi ripeto che non si è ancora mostrata. Orsù, ricoricatevi, ve ne prego. Ecco la febbre che vi riprende».

«La febbre» disse Morgan, con un brivido. «Acqua… la Tortue è sempre lontana? Non vedo qui più la mia Folgore… Che quel cane d’un conte l’abbia affondata?»

«Che cosa dite, signor Morgan?» chiese Jolanda.

«Sì, è stato lui, sai, Carmaux? Bisogna impiccarlo affinché non faccia del male alla signora di Ventimiglia… Vuol riaverla in sua mano… Prepara una buona fune… lassù… sul pennone di parrocchetto…»

Morgan tornava a vaneggiare, mentre l’ululato del giaguaro si faceva udire sempre più vicino.

Jolanda lo costrinse a ricoricarsi, poi afferrò la pistola e la spada e guardò con profonda ansietà verso il margine della foresta.

L’urlo del giaguaro era risuonò così vicino, da far credere che si trovasse solo a pochi passi.

E infatti in mezzo ad un folto cespo di passiflore che si alzava a metà costa, Jolanda vide scintillare fra le tenebre due punti verdastri, simili agli occhi di un gatto.

 

«È là che mi spia» mormorò la fanciulla, mentre si sentiva bagnare la fronte di freddo sudore. «Potrò io resistergli o ci sbranerà tutti e due?»

Gettò su Morgan uno sguardo disperato. Il filibustiere aveva rinchiusi gli occhi, però continuava ad agitare le braccia e a pronunciare parole sconnesse.

Colla punta della spada riattizzò il fuoco più vicino, poi vi gettò sopra un fastello di legna resinosa.

La fiamma s’alzò altissima, illuminando tutto il declivio della costa e gettando in aria numerose scintille.

Il giaguaro, senza dubbio spaventato o irritato da quell’improvvisa fiammata, si era slanciato fuori dalla macchia di passiflore, ululando spaventosamente.

La luce proiettata dalle fiamme lo illuminava pienamente.

Era un superbo animale, grosso quanto una tigre di mezza età, di forme tozze ed un po’ pesanti, lungo quasi due metri, con un mantello corto, fitto e morbido, dalla tinta giallo-rossiccia a macchie nere orlate di rosso ed il ventre biancastro.

Vedendo la fanciulla ritta dinanzi ai due fuochi, in un atteggiamento risoluto, colla spada in pugno che scintillava alla luce dei due falò, si era arrestato, raggrinzando il muso e mostrando i suoi formidabili denti.

La sua coda spazzava dolcemente le erbe, sollevando le foglie secche con uno scrosciare ruvido. Non ululava più: coi baffi irti ringhiava sordamente, dardeggiando sulla signora di Ventimiglia, che pareva che lo sfidasse, uno sguardo ripieno d’ardente bramosìa.

La fame doveva tentarlo, però i due fuochi lo trattenevano ancora e non osava slanciarsi verso la piccola tettoia sotto la quale Morgan, in preda alla febbre, continuava a vaneggiare.

Si leccò con quella mossa che è familiare ai felini, le zampe anteriori, si lisciò le spalle ed il petto, sbadigliò due o tre volte, poi fece qualche passo innanzi con un rom-rom che non era certo di buon augurio.

Stette un momento immobile, continuando a lisciarsi il pelame, poi fece alcuni passi ancora, sempre fissando la fanciulla ed accostandosi al fuoco.

Si muoveva lentamente, quasi avesse paura di spaventarla, rivoltandosi di frequente su se stesso per leccarsi i fianchi. La signora di Ventimiglia, quantunque non conoscesse le abitudini traditrici di quei formidabili animali, non si lasciava sedurre da quelle dimostrazioni pacifiche.

Ritta sempre dietro ai due fuochi, colla spada tesa e la pistola nella sinistra, lo fissava intrepidamente, risoluta ad opporre la più fiera resistenza. Non tremava più: si era irrigidita ed i suoi muscoli in quel momento si sentivano capaci di sostenere qualsiasi urto, pur di difendere il filibustiere che dormiva dietro di lei.

Il giaguaro ebbe un po’ di esitazione, poi cercò di girare attorno ai due fuochi, prima quello di destra, poi quello di sinistra.

Jolanda, comprendendo il pericolo che correva se l’animale riusciva a compiere quella manovra, s’abbassò rapidamente deponendo per un momento la spada, raccolse un grosso ramo resinoso e glielo gettò contro colpendolo sul muso.

L’animale, sentendosi bruciare i baffi, mandò un ululato spaventevole, poi fuggì a rompicollo facendo balzi di tre o quattro metri sul margine della foresta s’arrestò guardando coi suoi occhi fosforescenti e minacciosi il piccolo accampamento.

Jolanda trasse un profondo respiro di sollievo. Il pericolo per il momento era scongiurato.

«Non resisterei però ad un’altra simile prova» mormorò, asciugandosi il sudore che le bagnava la fronte. «Non avevo mai veduta la morte così vicina».

Guardò Morgan e vide che dormiva tranquillo. La febbre doveva avergli concessa un po’ di tregua.

«Non si è accorto che la belva stava per assalirci» disse. «Meglio così. Anche ferito si sarebbe alzato per difendermi e forse avrebbe commessa qualche pazzia e provocato lo slancio del giaguaro».

Alzò gli occhi verso il margine della foresta e vide ancora il maledetto animale, ritto fra due cespugli, che la osservava, seguendo attentamente tutti i movimenti che essa faceva.

Pareva di pessimo umore, perché lo si udiva brontolare. Quell’accoglienza che gli era costata la perdita dei baffi non l’aveva certo soddisfatto.

«Pare che non abbia voglia di ritentare la prova» disse la fanciulla, gettando sui fuochi due altri fastelli di legna.

In quel momento udì Morgan chiamare:

«Signora… acqua… brucio».

«Avete sempre la febbre, è vero, signor Morgan?» chiese Jolanda, presentandogli la zucca ed aiutandolo ad alzarsi.

«Ne avrò fino all’alba» rispose il filibustiere. «E voi non avete preso ancora un istante di riposo? Vi ammalerete, signora».

«Non pensate a me. Avrò tempo per riposarmi».

«Ah!…»

«Che cosa avete, signor Morgan?»

«Ed il giaguaro?»

«L’ho fatto fuggire».

«Voi!…» esclamò Morgan.

«Guardate, non gira più attorno a noi. Si era bensì accostato il briccone, e gli ho accarezzato il muso con un tizzone acceso e ci ha lasciati tranquilli».

«Siete ben la figlia del Corsaro Nero voi» disse il filibustiere, guardandola con ammirazione. «Così giovane, affrontare una simile fiera!… Nemmeno Carmaux l’avrebbe osato».

«Eppure la cosa è stata facilissima e non ho nemmeno sacrificato l’ultimo colpo di pistola».

«Quanto vi dovrò, signora!»

«Sì, un po’ d’acqua» disse Jolanda scherzando.

«No, la vita, poiché se io fossi stato solo, assopito dalla febbre come ero, il giaguaro mi avrebbe divorato. È lontana l’alba? Io ho perduta la nozione del tempo».

«Abbiamo ancora parecchie ore di oscurità. Cercate di riposare, signor Morgan; il sonno fa bene agli ammalati. E la vostra ferita vi addolora?»

«Non troppo, signora. Sotto questi climi si cicatrizzano rapidamente. È la febbre che può diventare pericolosa».

«Ricoricatevi, mentre io vado a riattizzare il fuoco».

Morgan, che si sentiva effettivamente assai spossato, un po’ in causa dell’eccessiva perdita di sangue e un po’ per la febbre, obbedì.

Jolanda, che temeva sempre qualche altra sorpresa da parte del giaguaro, si accostò ai fuochi che riattizzò sprigionando un nembo di scintille che fecero fuggire tre o quattro grossi vampiri che volteggiavano in quel momento al di sopra della piccola tettoia, forse colla speranza di sorprendere Morgan e dissanguarlo colle loro trombe a ventosa, armate di papille perforanti.

Guardò verso il margine del bosco e fu ben lieta di non vedere più il giaguaro.

O l’animale, disperando di saziarsi colle delicate carni della fanciulla, aveva perduta la pazienza e se n’era tornato nella sua tana, oppure aveva potuto sorprendere qualche altra preda più facile da abbattere e se l’era portata più lontana per divorarsela tranquillamente.

La fanciulla, rassicurata, e vedendo che Morgan aveva ripreso nuovamente il sonno, si sedette presso i due fuochi, aspettando pazientemente che il sole spuntasse.

Nella foresta non si udivano più né ululati, né ringhii, né fischi di rettili. Le sole scimmie davano ancora dei concerti spaventevoli, facendo rimbombare le vôlte di verzura coi loro formidabili hon… hon.

Finalmente le tenebre cominciarono a diradarsi verso oriente e le acque della laguna si tinsero dei primi riflessi dell’alba.

Gli uccelli si destavano. L’onorato riprendeva le sue note musicali, do… mi… sol… do; i tucani mandavano le loro grida discordi e dure, somiglianti al cigolare d’una ruota priva di grasso; i craci gorgogliavano imitando i tacchini; i pappagalli schiamazzavano sulle più alte cime dei formaggieri od in mezzo alle sipe.

Jolanda si era alzata avvicinandosi a Morgan. Il filibustiere dormiva ancora ed era tranquillissimo.

La febbre doveva essere cessata.

«Se approfittassi del suo sonno per cercare la colazione?» si chiese Jolanda. «Con un colpo di pistola potrei uccidere qualche animale. Ho udito raccontare che i cervi non mancan nelle foreste del Venezuela».

Mise accanto a Morgan una cuia onde potesse dissetarsi nel caso che si svegliasse, poi, dopo d’aver ravvivati i due falò cogli ultimi fastelli, sapendo ormai per prova che erano sufficienti a proteggere il piccolo accampamento, prese la spada e la pistola e si mise a costeggiare la laguna, le cui rive erano coperte da foltissime macchie di legno cannone e di passiflore.

Non aveva già intenzione di allontanarsi troppo, per paura che il giaguaro approfittasse della sua assenza per gettarsi sul ferito e dilaniarlo.

Si mise a rasentare le macchie, frugandole colla punta della spada, colla speranza di sorprendere qualche animale, volgendosi di quando in quando per guardare la tettoia.