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Jolanda, la figlia del Corsaro Nero

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Aveva già percorsi cinque o seicento passi, quando vide uscire da un cespuglio un branco di grossi granchi di mare che fuggivano precipitosamente verso la laguna.

Erano dei brutti crostacei, che rassomigliavano per grandezza alle migali, colle branche adunche e robustissime ed il dorso rugoso.

«Fuggono!…» esclamò la fanciulla. «Che vi sia qualche carogna in mezzo a quel cespuglio?»

Allontanò con precauzione i rami e s’avanzò lentamente, tenendo la spada tesa, ma ad un tratto si fermò, poi indietreggiò mandando un grido d’orrore.

Steso fra le foglie secche, stava un corpo umano, che indossava ancora un vestito di grosso panno verde ed una corazza, ed il cui capo completamente scarnato o dai granchi o dalle termiti, era privo della più piccola particella di carne.

Anche i lunghi stivali di cuoio giallo, non stringevano che due stinchi e dalle maniche della giubba spuntavano delle falangi prive di pelle e di nervi.

A pochi passi stava uno spadone irruginito e snudato ed una fiaschetta di metallo, che pareva di stagno.

«Un morto!…» aveva esclamato la fanciulla, dopo il primo istante di spavento. «Chi avrà ucciso questo disgraziato? Gl’indiani o qualche belva?»

Lo guardò meglio e non scorse sulle vesti alcuna traccia di sangue, né alcun strappo che potesse indicare il passaggio d’una punta di freccia.

«Triste scoperta» mormorò la signora di Ventimiglia. «Sarà serbata anche a noi una sorte eguale?»

Stette qualche momento a contemplare quel disgraziato, uno spagnolo di certo, a giudicarlo dalle vesti; poi raccolse la spada e la fiaschetta, pensando che potevano essere di maggior utilità ai vivi che ai morti.

Stava per ritornare verso Morgan, quando i suoi sguardi si fermarono su alcuni segni che parevano delle lettere incise sulla fiaschetta con qualche punta, forse quella della spada.

Guardandoli attentamente, riuscì, non senza fatica, a decifrarli.

La mano di quel povero uomo aveva scritto in lingua spagnola:

«Smarrito nella foresta, muoio di fame».

Vi era sotto un R poi un Yup…

La morte doveva averlo sorpreso prima che potesse scrivere completamente il suo cognome.

La fanciulla, assai impressionata per quella lugubre scoperta, tornò lentamente verso l’accampamento, dove trovò Morgan seduto, che stava fasciandosi nuovamente la ferita.

«Come state, signor Morgan?» gli chiese con premura.

«Molto meglio di ieri, signora» rispose il filibustiere.

«La ferita comincia già a rimarginarsi un po’; mi sento però sempre debolissimo.

Toh!… Dove avete trovata quella spada?»

Jolanda lo informò della lugubre scoperta.

«Avete fatto bene a raccogliere quell’arma e quella fiaschetta» disse Morgan. «Chi sarà quel disgraziato? Che vi sia qualche colonia o qualche borgata spagnola non lungi da qui? Amerei meglio che non ve ne fossero».

«Nessuno sa chi noi siamo. Potremmo inventare qualche istoria».

«Gli spagnoli sono più da temersi degl’indiani, signora. Oh!… Avete udito?»

Verso la laguna era echeggiato un fischio, seguíto poco dopo da un tonfo, che sollevò un alto sprazzo di spuma.

Jolanda si alzò vivamente

«Armatevi, signora» disse Morgan.

«Prendo la vostra spada».

Ciò detto s’avanzò cautamente verso la laguna, aprendosi il passo attraverso i fusti di legno cannone che ingombravano la riva.

Capitolo ventitreesimo. Un’altra notte terribile

Un animale, o meglio un mammifero, di grosse dimensioni, era comparso fra le foglie delle mucumucù che coprivano buoa parte della laguna, e si divertiva a sollevare delle piccole ondate colla sua larga coda piatta, massacrando quelle piccole zattere galleggianti.

Nelle forme rassomigliava un po’ ad una foca, essendo anche munito di pinne somiglianti a delle braccia, la testa invece di essere rotonda era piuttosto allungata, fornita all’estremità di peli ruvidi e lunghi che parevano dei baffi.

Sul petto aveva due grosse mammelle che ricordavano quelle delle famose sirene dell’antichità.

Doveva pesare un paio di quintali di certo, a giudicarlo dalla sua lunghezza che superava i due metri e mezzo e dalla sua rotondità.

Jolanda, nascosta in mezzo ai legni cannone, lo guardava con curiosità, chiedendosi che specie di mammifero potesse essere, non avendone mai visto uno simile, né potendo ammettere che delle foche si trovassero nelle calde acque equatoriali.

Si rovesciava ora sul dorso ed ora sul ventre, sbattendo vigorosamente l’acqua colle sue lunghe pinne, si lasciava affondare, poi con una brusca spinta si slanciava fuori più che mezzo, mandando dei lunghi fischi.

Jolanda, sempre nascosta, si domandava come avrebbe potuto impadronirsi di quella grossa preda, che avrebbe assicurato cibo a lei e a Morgan per parecchio tempo.

Aveva bensì la pistola, ma dubitava con una sola palla di poter abbattere un animale così enorme. Se Morgan non fosse stato ferito, forse avrebbero potuto raggiungerlo col canotto e assalirlo a colpi di spada.

Stava per ritornare onde consigliarsi col filibustiere, quando vide il mammifero accostarsi alla riva e frugare col muso fra le erbe acquatiche che crescevano abbondanti in quel luogo.

«Se mi provassi a dargli un colpo di spada?» si chiese Jolanda. «L’arma è solida e la punta aguzza, mentre quell’animale non mi sembra che debba avere la pelle dura, non avendo squame».

Si gettò a terra e allontanando dolcemente i fusti dei legni cannone, si mise a strisciare verso la riva.

Udiva il mammifero grugnire proprio sotto le erbe acquatiche che tappezzavano il margine della laguna, quindi doveva essere a buona portata anche per un colpo di spada.

La speranza di poter offrire al filibustiere un bel pezzo di carne, di cui aveva tanto bisogno per rimettersi del sangue perduto, la spingeva a tentare la sorte.

D’altronde non poteva correre pericolo alcuno, non avendo quell’abitante delle acque, né un aspetto feroce, né armi di difesa d’alcuna specie.

Giunta sulla riva la brava fanciulla scostò lentamente le erbe, che erano assai alte e si spinse dolcemente innanzi, impugnando con mano ferma la spada del filibustiere.

Il mammifero era lì sotto, occupato a mangiare le radici delle erbe e pareva che non si fosse ancora accorto del pericolo che lo minacciava.

Si agitava appena e continuava a grugnire come un maialetto.

Jolanda si rizzò di colpo sulle ginocchia e affondò il ferro nel dorso dell’animale, cacciandovelo dentro quasi fino alla guardia.

Udì un rapido fischio, poi uno spruzzo di spuma l’avvolse, facendola cadere indietro e costringendola ad abbandonare la spada che era rimasta nella ferita.

Quando poté rialzarsi vide il mammifero a dibattersi furiosamente, a quindici passi dalla riva. Aveva la spada ancora infitta nel dorso e dalla ferita colava un rivoletto di sangue che arrossava l’acqua.

«Signor Morgan!… È preso!… È preso!…» gridò Jolanda, con voce trionfante.

«Chi, signora?» chiese il filibustiere che faceva sforzi disperati per alzarsi.

La fanciulla, certa ormai che l’animale era agonizzante, si era slanciata verso la tettoia, per armarsi della spada dello spagnolo.

«È nostro!… E nostro!…» gridò, accostandosi a Morgan. «Avremo quanta carne vorremo».

«Chi avete ucciso?» chiese il filibustiere.

«Non so, una bestia assai grossa, una specie di foca».

«Una foca!… È impossibile, signora; qui non se ne trovano».

«Ne ha almeno le forme».

«Quello che avete ucciso non può essere che un manato o meglio un lamantino, una preda squisita, la cui carne può gareggiare, per gusto e delicatezza, con quella dei giovani vitelli».

«Salgo nel canotto e vado a finirlo» disse la fanciulla. «Devo anche ricuperare la vostra spada».

«Badate che non vi rovesci in acqua. I manati non sono pericolosi, tuttavia hanno della forza nella coda».

«Sarò prudente:»

Impugnò lo spadone dello spagnolo e si diresse verso il canotto che era legato alla riva.

Lo staccò, vi balzò dentro, prese le pagaie e si spinse al largo.

Il lamantino si dibatteva presso un banco di fango e pareva agli estremi. L’acqua tutt’intorno al suo corpo era rossa di sangue.

Jolanda, con pochi colpi di remo lo raggiunse, e, alzato lo spadone dello spagnolo, si mise a tempestarlo, specialmente sulla testa, né cessò finché non lo vide esalare l’ultimo respiro.

Essendo su un bassofondo, era rimasto col dorso fuori dall’acqua.

Jolanda si provò a levare la spada di Morgan e, sentendo che resisteva, passò nella guardia una liana per rimorchiare la grossa preda alla riva.

Non fu impresa facile, poiché il lamantino era grosso assai e tendeva ad affondare; nondimeno, dopo un quarto d’ora, riusciva a tirarlo presso un mango che tuffava nelle acque le sue radici contorte.

Morgan, che da lontano aveva seguíto cogli sguardi e non senza una certa ansietà, le diverse fasi della caccia, o meglio della pesca, salutò il ritorno della valorosa ed intraprendente fanciulla con un fragoroso urrà.

«Un momento ancora, signor Morgan» disse Jolanda «e vi offrirò una buona colazione, se è vero che la carne di questi mammiferi è così squisita come mi avete detto».

Dopo reiterati sforzi trasse dal corpo del lamantino l’arma del filibustiere; poi, servendosi dello spadone spagnolo che era più largo e più pesante, quindi meglio adatto per servire da coltello, tagliò dal dorso una fetta enorme che portò presso la capannuccia, dove ardevano ancora i due falò.

Con dei sassi improvvisò alla meglio un fornello, infilzò la carne nel ferro del filibustiere e ravvivò con alcuni rami il fuoco.

«Eccomi diventata cuoca» disse Jolanda, che era assai di buon umore, per la splendida riuscita di quell’impresa. «Fra breve assaggerete un pezzo della mia preda».

 

«Sì, apprezzerete fra poco la delicatezza della sua carne».

«Signor Morgan, lasciate che completi la colazione».

«Che cosa volete aggiungere ancora?»

«Ho veduto poco fa, mentre tornavo da quella lugubre scoperta, un banano che aveva un grappolo enorme».

«Eccellenti quelle frutta, specialmente se cucinate sotto la cenere. Possono surrogare il pane».

«Manca però il sale».

«Vi sono in questo paese delle piante che possono fornirne; non so dove si troveranno. «Gli indiani non adoperano che quello».

«Come fanno ad estrarlo?»

«Bruciano i rami, fanno bollire la cenere, poi la filtrano e trovano sempre dei cristalli di sale».

«Noi però possiamo farne a meno».

«E come, signor Morgan?»

«M’avete detto che l’acqua della laguna è salata. Aspargete un po’ l’arrosto ed ecco trovato il rimedio».

«Che pessima cuciniera sarei io! Rinuncio fin d’ora alla carica cui aspiravo a bordo della vostra Folgore».

Anche scherzando, la brava fanciulla non perdeva però il suo tempo e badava che l’arrosto si cucinasse a perfezione.

Quando lo vide quasi pronto, lo asperse con poche goccie d’acqua salata, poi andò a far raccolta di banane e di manghi, e ficcò le prime sotto la cenere calda.

«Signor Morgan» disse ad un certo momento. «Siete servito».

Avendo deposto l’arrosto su una bella foglia di banano, appena tagliata, e si era seduta presso il ferito, il quale aspirava con visibile soddisfazione il delizioso profumo che esalava l’enorme fetta del lamantino.

La colazione, non variata è vero, ma assai abbondante, fu molto gustata tanto dal ferito quanto da Jolanda, ed entrambi, che dal mattino innanzi non avevano mangiato che qualche frutto, vi fecero molto onore.

«Signor Morgan» disse la fanciulla quand’ebbero finito. «Consigliamoci un po’ per cercare di uscire da questa situazione. Quando potrete, a vostro giudizio, riprendere le vostre forze?»

«Fra due o tre giorni noi lascieremo questo luogo» rispose il filibustiere. «Le mie gambe sono sane e anche solide».

«E dove andremo noi? Che cosa faremo? La vita dei Robinson non nego che abbia dei lati belli, ma voi non siete uomo da vivere sempre sotto queste foreste».

«E nemmeno voi, suppongo» rispose Morgan. «Il vostro posto non è qui».

«Dunque?»

«Ascoltatemi, signora. Se questa laguna ha l’acqua salata, io m’immagino che comunichi col mare per qualche canale o direttamente. Appena io sarò guarito, noi c’imbarcheremo sul canotto e cercheremo di raggiungere le rive del golfo del Messico. Solo là noi potremo trovare la nostra salvezza. Ed ora, signora, coricatevi e riposate; ne avete bisogno. Io intanto veglierò».

«Obbedisco al vostro consiglio».

La fanciulla andò a tagliare parecchie foglie di palmizio, per prepararsi un giaciglio e si coricò all’ombra di un simaruba, che s’alzava a qualche passo dalla capannuccia.

Morgan, messosi accanto lo spadone dello spagnolo, s’immerse in profondi pensieri.

Di quando in quando però si scuoteva e guardava la fanciulla che dormiva profondamente, con un braccio ripiegato sotto la testa, in una posa graziosa, ed ascoltava il suo respiro regolare e tranquillissimo.

«Bella e valorosa» mormorava, con un sospiro. «Ecco una donna che farà felice l’uomo cui vorrà bene».

Il sonno di Jolanda durò molte ore. Il sole già precipitava all’orizzonte, quando riaprì gli occhi e Morgan vegliava ancora.

Era più bella che mai, con quei neri capelli che le scendevano sulle spalle, in disordine, e che le incorniciavano graziosamente il fresco visino leggiermente roseo.

«Quanto ho dormito!» esclamò, alzandosi in fretta. «Vi sarete molto annoiato, signor Morgan?»

«No signora Jolanda» rispose il filibustiere. «I volatili della laguna mi hanno distratto, e poi provavo un vero piacere nel vedervi riposare».

«Mi dispiace però, avendo molto da fare».

«E che cosa, signora?»

«Rinnovare la provvista d’acqua e la legna. Tornerà anche questa notte il giaguaro?»

«Speriamo che abbia fatto buona caccia e che non venga a disturbarci. Quando i carnivori si sono satollati, non inquietano nessuno».

«Al lavoro» disse la fanciulla.

Si armò e si diresse verso il fiume. Desiderava vivamente di giungere su quelle rive, colla speranza di riveder comparire, se non Carmaux, almeno qualcuno degl’indiani.

Attraversò il bosco, non incontrando che alcuni gruppi di scimmie barrigudo che la salutavano con degli strepitosi escke!… escke!… e raggiunse felicemente il corso d’acqua, ma non vide alcun essere umano aggirarsi su quelle rive.

Riempì le cuie, poi s’affrettò a ritornare. Fatta la provvista d’acqua, s’occupò della legna.

I rami secchi e anche resinosi abbondavano sul margine della foresta, sicché poté formare, senza alcuna fatica, parecchi fastelli che portò all’accampamento.

«Ora possiamo attendere tranquillamente la notte» disse a Morgan.

«Avete fatto alcun incontro?» chiese il filibustiere.

«Nessuno»

Cenarono con un pezzo di lamantino avanzato dalla colazione ed alcuni manghi e banani, poi Jolanda accese i due fuochi e ne preparò un terzo verso la riva, essendosi ricordata che il giaguaro aveva cercato di girare intorno all’accampamento.

Aveva appena terminati quei preparativi, quando il sole scomparve. Gli uccelli si erano già ritirati nei loro nidi e soli volavano per l’aria, con dei bruschi zig zag, quegli schifosi pipistrelli chiamati vampiri, dal corpo peloso e le ali grandissime.

Morgan si era a poco a poco assopito, dopo essersi fatto promettere dalla fanciulla, che più tardi lo avrebbe svegliato perché montasse il suo quarto di guardia, se la febbre non lo prendeva.

Jolanda si sedette fra i due fuochi, come la notte precedente, sorvegliando il margine della foresta, perché solo da quella parte poteva giungere qualche pericolo.

Erano passate due o tre ore senza che si udisse alcun grido od un urlo sotto le folte piante, quando, non senza una certa inquietudine, vide due ombre scendere cautamente la costa e dirigersi verso la laguna.

Tuttavia pareva che non avessero alcun desiderio di accostarsi all’accampamento, che i due falò illuminavano come in pieno giorno.

Certo, il fuoco li teneva in distanza.

Jolanda si alzò per vedere quale specie di animali fossero e trasalì nello scorgere degli occhi fosforescenti.

«Due felini» mormorò. «Eppure non rassomigliano al giaguaro che è qui venuto ieri sera».

E infatti erano più piccoli, di forme più svelte ed eleganti, ed avevano il pelame differente, d’un colore rosso-giallastro, che si oscurava sul dorso e diventava bianco-rossiccio sotto il ventre.

“Che siano due coguari?” si chiese Jolanda. “Mi hanno detto che anche quegli animali, se non sono feroci come i giaguari, non sono tuttavia meno pericolosi.”

Le due belve passarono a dieci passi dai due fuochi, voltando la testa verso la fanciulla e mandando un rauco u… u!… poi continuarono a scendere verso la laguna.

Ad un tratto, Jolanda li vide spiccare un gran salto e piombare su qualche cosa che dapprima non seppe che cosa fosse.

«Che abbiano sorpreso qualche animale?» mormorò la fanciulla, guardando con maggior attenzione.

Un’esclamazione di collera le sfuggì dalle labbra e si accostò rapidamente a Morgan, svegliandolo bruscamente.

«Che cosa avete, signora?» chiese il filibustiere, alzandosi a sedere. «È il mio quarto?»

«Divorano le nostre provviste?»

«Chi?»

«Non so, vi sono due animali sbucati dalla foresta che cenano col nostro lamantino».

«Che bestie sono?»

«Mi sembrano due coguari» rispose la fanciulla.

«Non commettete l’imprudenza di andarli a scacciare, signora» rispose Morgan. «Sono pericolosi quanto i giaguari e non esiterebbero ad assalirvi».

«Se provassi a scaricare contro di loro la pistola?»

«Non sprecate la nostra ultima palla. Potremmo più tardi rimpiangerla.

«Lasciateli cenare; qualche cosa rimarrà anche per noi, essendo il lamantino assai grosso».

Morgan s’ingannava nelle sue speranze, poiché quando i due coguari, pieni da scoppiare, se ne andarono, giunsero quasi subito per prendere parte al banchetto, due coppie di maracaya, poi alcuni yaguarabundi chiamati anche gati de monte, i quali divorarono gli ultimi avanzi del mammifero.

Quando finalmente il sole riapparve, la povera fanciulla dovette constatare che dell’enorme massa di carne non rimanevano che poche ossa triturate.

«Signor Morgan» disse, tornando verso il ferito «dovremo accontentarci di sola frutta. Quei ghiottoni hanno fatto scomparire tutta la nostra riserva».

«Me lo immaginavo» rispose il ferito.

«Mi rincresce per voi, non avendo quasi nulla da offrirvi per la colazione di stamane».

«Non inquietatevi per me, signora. Nella mia vita avventurosa, della fame ne ho sofferto e molta e nemmeno questa volta morirò. Fra tre o quattro giorni sarò in grado di alzarmi e vedrete che in due riusciremo a scovare qualche animale ed ucciderlo. Queste foreste devono essere assai ricche di selvaggina».

«Ma no» disse a un tratto la fanciulla, la quale da qualche istante teneva agli occhi fissi sulle isolette che ingombravano la palude, «la colazione non ci mancherà! Anzi mi stupisco come non abbia pensato prima ai trampolieri.

«E come volete cacciare quei volatili? Sapete bene che non abbiamo che un solo colpo da sparare».

«Penso alle uova dei trampolieri, signor Morgan. Sceglierò le più fresche e saranno cento volte più nutritive dei manghi e dei banani».

«Siete veramente una donna impareggiabile, signora di Ventimiglia.».

«Il bisogno aguzza la fantasia e le idee, signor Morgan. Avete bisogno di me?»

«No, signora. Lasciatemi una spada e non preoccupatevi di me. D’altronde nessun pericolo mi minaccia e poi le belve raramente lasciano di giorno i loro covi».

«Tornerò subito, signor Morgan».

Capitolo ventiquattresimo. L’isola galleggiante

La brava fanciulla, certa che nessuno potesse minacciare il ferito e rassicurata dal silenzio che regnava nella vicina foresta, scese la riva, portando con sé lo spadone dello spagnolo, giacché poteva esserci qualche jacarè nella palude e s’imbarcò sul canotto, spingendolo al largo.

Come abbiamo detto, su quella savana sommersa si estendevano numerosi banchi melmosi, che le piante palustri avevano subito ricoperto e che servivano di rifugio ad un numero infinito di trampolieri chiassosi.

Jolanda, avendone osservato uno che pareva vastissimo e che era ingombro di canne altissime, si diresse verso quello, colla speranza di fare un’ampia provvista d’uova.

Non era lontano che mezzo miglio dall’accampamento ed essendo una canottiera abbastanza abile, in meno d’un quarto d’ora lo raggiunse.

Fu però non poco sorpresa, nel salirvi sopra, sentendolo muoversi ed abbassarsi lievemente, come se quell’isolotto non posasse sul fondo della laguna.

«È strana» mormorò. «Si direbbe che galleggia come una zattera. Che mi sia ingannata?»

Si provò ad avanzare fra le canne e si convinse che quell’isolotto doveva essere formato da un’amalgama di rami, arrestatisi là forse intorno a qualche ostacolo e poi intrecciatisi strettamente, in modo da formare una di quelle zattere rassomiglianti a quelle che si scorgono sulle acque del lago del Messico.

«Purché mi sostenga, non occupiamoci ad indagare come sia formato questo isolotto» mormorò la fanciulla.

Legò il canotto ad una delle canne, sfondò una linea di paletuvieri che formavano come l’orlo della zattera e s’inoltrò cautamente, sollevando intorno a sé una vera nuvola di trampolieri.

«I nidi non mancheranno di certo» disse Jolanda. «La raccolta sarà abbondante».

Si mise a costeggiare l’isolotto e con viva soddisfazione s’avvide di non essersi ingannata nelle sue previsioni.

In mezzo alle canne, posate entro piccole buche col fondo coperto di foglie, vi erano delle uova in gran numero, alcune piccole ed altre grosse quasi quanto quelle delle galline.

La fanciulla scartò quelle passate, raccolse quelle che dalla loro trasparenza le parevano più fresche e le mise nella sottana, che aveva doppiata attorno alla cintola.

Stava per ritornare al canotto, lieta di essersi procurata una colazione sostanziosa e tutt’altro che cattiva, quando sentì l’isolotto inclinarsi dolcemente verso il margine opposto, come se qualche grosso animale tentasse di salirvi.

Dapprima provò un vago senso di terrore, trovandosi così lontana da Morgan; poi, ricordandosi di avere lo spadone dello spagnolo, un’arma poderosa e di buon filo, non ostante la ruggine che la ricopriva, la impugnò solidamente e fece una prudente ritirata verso il canotto.

 

«Con pochi colpi di remo raggiungerò la riva» si era detta.

Riaprì i paletuvieri e subito un grido d’angoscia le sfuggì.

Il canotto, che pochi minuti prima aveva legato ad una grossa canna, se ne andava lentamente alla deriva, girando dolcemente su se stesso.

«Ah!… Mio Dio!…» esclamò la disgraziata fanciulla. «Sono perduta!… Come farò ora ad abbandonare questo isolotto?»

Gettò all’intorno uno sguardo smarrito, e non vide alcuno aprirsi il passo fra le canne ed i paletuvieri. Eppure l’isolotto subiva di quando in quando delle leggiere oscillazioni, specialmente verso il margine opposto.

Qualcuno doveva, per qualche segreto scopo, aver lasciato allontanare il canotto, affinché la fanciulla rimanesse prigioniera sull’isolotto.

«Che vi sia qualche indiano nascosto fra questi vegetali?» si chiese Jolanda. «Eppure non ne abbiamo veduto. Che si tratti di quei terribili selvaggi?» si domandò, retrocedendo fino sul margine dell’isolotto. «Che cosa potrei fare io se mi assalissero in parecchi?»

Si era fermata, coi piedi quasi in acqua, scrutando attentamente le canne e sembrandole ad ogni istante di udire il sibilo di qualche freccia. Invece nulla; anzi, l’isolotto non si agitava più e si manteneva perfettamente immobile.

Un po’ rassicurata, guardò il canotto. La debole corrente l’aveva spinto verso un banco pantanoso emergente dall’acqua di qualche palmo, lontano un centinaio di metri.

«Non potrò mai raggiungerlo» mormorò. «Non oserei immergermi fra queste acque, che possono nascondere dei voraci caimani: chissà anzi che non mi spiino in questo momento, in attesa di divorarmi.

«Cerchiamo di avvertire il signor Morgan, poi vedrò come potrò fare per raggiungere il canotto».

Colle mani fece portavoce e gridò con quanto fiato aveva:

«Signor Morgan!…»

Il filibustiere, che si trovava a meno di mezzo miglio, udì distintamente la chiamata, poiché si sollevò più che poté, gridando a sua volta:

«Che cosa desiderate, signora di Ventimiglia?»

«Hanno tagliata la liana del mio canotto e non so come fare a ritornare».

«È affondato?»

«No, si è arenato a cento metri da me».

«E chi ha recisa la corda?»

«Non lo so, eppure temo che qualcuno si sia accostato all’isolotto».

«Non potete costruire una zattera?»

«Non vi sono che delle canne, qui».

Il filibustiere fece un gesto di disperazione.

«E non poterla aiutare in modo alcuno!» gridò. «Signora, sapete nuotare?»

«Sì».

«Gettatevi in acqua senza indugio e raggiungete il canotto».

«E gli alligatori?»

«È vero, non vi avevo pensato» rispose Morgan. «Cercherò io di venire verso di voi».

«Ve lo proibisco. La vostra ferita s’inasprirebbe, e poi chissà se voi potreste riuscire nell’intento».

L’isolotto si era nuovamente piegato verso il margine opposto, con degli scricchiolii sordi.

«Non spaventiamo inutilmente il signor Morgan, e cerchiamo di cavarcela meglio che è possibile» disse. «Io non devo contare su di lui o sarebbe capace di commettere qualche pazzia per venire in mio aiuto. La figlia del Corsaro Nero deve mostrarsi degna del padre».

Aprì arditamente le canne colla mano sinistra e s’avanzò risolutamente colla spada tesa, pronta a colpire.

L’isolotto non aveva più di dieci metri di larghezza su una lunghezza di quindici o sedici, quindi in pochi istanti giunse sulla riva opposta.

Con sua sorpresa non vide nessuno. Solamente notò che un gruppo di fusti di legno cannone che crescevano su di un minuscolo banco, lontano pochi passi, si agitava ancora come se qualcuno vi si fosse nascosto nel mezzo.

«Deve essere stato un caimano» disse Jolanda. «Spinto dalla fame, avrà cercato di salire sull’isolotto colla speranza di sorprendermi.

«Lasciamolo in pace e cerchiamo invece di trovare qualche mezzo per raggiungere il canotto».

Ad un tratto le sfuggì un grido di gioia.

«Io dimenticavo che quest’isolotto è galleggiante!» esclamò. «Cerchiamo qual’è l’ostacolo che lo trattiene e recidiamolo. Libero che sia, la corrente può portarmi là dove si trova il canotto, o per lo meno, verso la riva».

Si mise a percorrere l’isolotto in tutti i sensi, spiccando, di quando in quando, un salto, per assicurarsi della sua solidità, facendolo ogni volta ondeggiare vivamente, e s’arrestò verso il centro dove ergevasi una massa informe coperta di muschi e di piante parassite.

«Che sia questo l’ostacolo?» si domandò. «Si direbbe che questo è un pezzo di tronco e che attorno ad esso tutte queste piante si sono fermate ed intrecciate strettamente».

Prese lo spadone e tagliò muschi e piante, mettendo allo scoperto un pezzo d’albero ormai semi-imputridito che si scheggiava facilmente sotto i colpi dello spadone.

«Me l’ero immaginato» mormorò la fanciulla. «È questo che trattiene l’isolotto come un’àncora.

«Tagliato che sia, tutta questa massa seguirà la corrente ed in qualche luogo mi condurrà».

S’appressò all’orlo del galleggiante e si mise a gridare:

«Signor Morgan!… Signor Morgan!…»

«Signora» rispose il filibustiere.

«Se ritardo a tornare, non inquietatevi. Ho trovato il mezzo di raggiungere egualmente la riva».

«Non correte alcun pericolo? Ditemelo od io tenterò la traversata della laguna a nuoto».

«Oh!… Non fatelo, non muovetevi, signor Morgan. Rimanete tranquillo e prima di mezzodì io sarò, spero, con voi».

Fece ritorno al tronco e dopo d’aver tagliate all’intorno le radici delle piante acquatiche, che formavano il fondo del galleggiante, e aver levato i detriti vegetali già quasi convertiti in terriccio, si mise a lavorare a colpi di spadone con tutte le sue forze.

La lunga immersione aveva guastato il legno, una vera fortuna, poiché quell’albero, spezzatosi chissà per quale causa, ed affondato, aveva una circonferenza notevole, e certo la fanciulla non sarebbe mai riuscita a spezzarlo, senza l’aiuto d’una buona scure.

Lavorava già da una buona mezz’ora, con crescente accanimento, decisa a non interrompersi fino all’esaurimento completo delle sue forze, quando sentì l’isola nuovamente oscillare, poi piegarsi verso un lato.

«Che sia il caimano che ritenta l’attacco?» si domandò, voltandosi rapidamente. «Quel bestione vuole un buona lezione e gliela darò. Quei rettili non sono già voraci né pericolosi come i coccodrilli, e poi non sono molto agili a terra e le canne gl’impediranno di servirsi della sua coda.

«Finiamola!…»

Decisa ad affrontare l’ingordo sauriano, onde non venire da un momento all’altro sorpresa, si avanzò adagio adagio, scostando le canne dolcemente per non fare rumore.

Era già giunta dietro i paletuvieri, quando udì due tonfi, uno subito dopo l’altro e vide balzare in aria un fiotto di spuma giallastra.

Con un salto fu sul margine dell’isolotto e si curvò prontamente allungando lo spadone, poi si ritrasse subito, facendo un gesto di terrore.

Attraverso l’acqua, che era piuttosto trasparente, aveva veduta una forma umana nuotare velocemente e scomparire in mezzo alle larghe foglie dei mucumucù e delle victoria.

«Un uomo!…» avea esclamato. «E forse erano due!… Che siano indiani antropofagi?»

Si abbassò dietro le rizofore per non venire scorta e guardò il banco, che si trovava di fronte all’isolotto e su cui poco prima aveva veduto agitarsi i fusti di legno cannone.

Non erano trascorsi cinque secondi, quando vide una testa coperta da lunghi capelli biondastri, emergere quindi un corpo semi-nudo, scivolare fra le piante e scomparire.

Poco dopo un altro ne sorgeva a breve distanza e pure si nascondeva fra le piante.

«Sono due cannibali» mormorò la povera fanciulla, rabbrividendo. «Il colore dei loro capelli li ha traditi. Quei miserabili cercano di prendermi per divorarmi. Che siano due di quelli che ci hanno fatti fuggire? Il pericolo è grave e bisogna che mi affretti a liberare l’isolotto dall’ostacolo che lo tiene prigioniero».

Per un momento ebbe il pensiero di avvertire Morgan, poi, riflettendoci meglio, vi rinunciò. Già non poteva esserle di alcun aiuto e nel tentativo di salvarla avrebbe commesso qualche pazzia.

Rimase in osservazione alcuni minuti, poi vedendo che i due indiani non si facevano vivi, quasi persuasa che non osassero affrontarla direttamente e che fossero privi d’armi, non avendo veduto indosso a loro alcun arco, anzi nemmeno un coltello, ritornò verso il centro dell’isola, riprendendo il duro lavoro.

Il tronco era già stato profondamente intaccato dalla grossa lama dello spadone, un’arma impareggiabile, forse di vero acciaio di Toledo, temprato nelle acque del Guadalquivir.