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Jolanda, la figlia del Corsaro Nero

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«Fingeremo di essere dunque dei pescatori?»

«Sì, cacciati dalla tempesta sulle coste venezuelane. Io verrò ad incrociare fra due giorni dinanzi a quella baia per raccogliervi e non partirò senza avere vostre notizie. Ho fatto collocare nella scialuppa dei razzi, che voi accenderete su qualche punto della costa. Noi saremo pronti ad accorrere».

«Va bene, signor Morgan» risposero i due corsari.

«La baleniera è già in acqua».

Carmaux e Wan Stiller vuotarono i bicchieri, poi si alzarono frettolosamente, scomparendo nella camera comune di prora.

Capitolo trentesimo. Il notaio di Maracaybo

Non era ancora trascorsa mezz’ora, quando Carmaux, l’amburghese e don Raffaele scendevano la scala di tribordo, sotto cui ondeggiava una svelta baleniera fornita di due piccole vele e d’un fiocco.

Morgan li aspettava sulla piccola piattaforma inferiore, per dare loro le ultime istruzioni.

I due filibustieri e lo spagnolo indossavano dei vestiti da pescatori, di grosso panno azzurro, con larga fascia di lana rossa e berretto di tela cerata. Inoltre don Raffaele, per rendersi meno riconoscibile, si era tagliato i baffi e le lunghe basette.

«Ricordatevi del segnale e usate le maggiori cautele» disse loro Morgan. «Io incrocerò solo di notte, cominciando da domani sera e di giorno mi celerò in fondo al golfo di Cariaco, che è lungo e sicurissimo. Avete tre razzi di diverso colore e voi sapete che cosa significano».

«Il verde, aspettateci in mare, il rosso, mandate una scialuppa, l’azzurro fuggite» rispose Carmaux. «Addio, signor Morgan, e se gli spagnoli ci impiccano vi auguro fortuna a Panama».

«Siete troppo prudenti e troppo astuti per lasciarvi prendere» rispose il filibustiere.

Strinse loro la mano e risalì in coperta, mentre Carmaux prendeva la barra del timone e l’amburghese e lo spagnolo si collocavano a prora.

«Lascia» disse il francese.

L’amburghese sciolse la corda e la baleniera prese il largo, filando rapidamente verso oriente.

La nave di Morgan rimase all’ancoraggio, non avendo premura di mostrarsi nelle acque di Cumana, che potevano essere battute da navi da guerra, avendone gli spagnoli in quasi tutti i porti, principali.

«Andiamo a meraviglia» disse l’amburghese fregandosi le mani. «Mare calmo e vento in poppa. Quando potremo giungere, don Raffaele?»

«Non prima di domani sera» rispose il piantatore.

«Così lontani siamo dunque da quel porto?» chiese Carmaux.

«Lo suppongo e poi è meglio per voi e anche per me giungervi a notte inoltrata».

«Siete già stato a Cumana?»

«Conosco tutte le città del Venezuela» rispose il piantatore.

«E chi è quel vostro amico, di cui mi ha parlato il capitano?» riprese Carmaux.

«Un notaio, che un tempo abitava a Maracaybo».

I due filibustieri si guardarono, facendo un gesto di sorpresa.

«Aspettate, don Raffaele» disse l’amburghese. «Quel vostro amico, vent’anni or sono, esercitava a Maracaybo?»

«Sì».

«Un giorno la sua casa fu distrutta dal fuoco, è vero?»

Don Raffaele lanciò uno sguardo interrogatore sui due filibustieri, i quali risposero con una risata clamorosa.

«Lo conoscete forse?» chiese il piantatore, con inquietudine.

«Perbacco!… È un nostro carissimo amico!…» rispose Carmaux, che schiattava dalle risa. «Che bottiglie deliziose aveva quel briccone!… Ah!… Ah!… Il notaio di Maracaybo!…»

Il piantatore si era fatto oscuro in viso, mentre i due filibustieri non cessavano di ridere.

«Don Raffaele» disse finalmente Carmaux «vi ricorderete forse di quel tragico e comico episodio che ha privato quel povero notaio della sua casa. I vostri compatrioti ci avevano assediati in quella bicocca assieme al Corsaro Nero».

«Che aveva fatti prigionieri il notaio ed anche un certo conte di Lerma, un valoroso e cavalleresco gentiluomo» aggiunse l’amburghese.

«Sì, me lo ricordo» disse don Raffaele. «Voi eravate fuggiti sul tetto dopo aver fatto saltare la casa di quel povero uomo».

«Per scendere poi nel giardino d’un conte o marchese Morales, scappando così ai vostri compatrioti» disse Carmaux.

«Eravate voi quei demoni che per ventiquattro o trenta ore teneste testa ad una o due compagnie di archibugieri?»

«Sì, don Raffaele».

«Eccomi in un bell’imbarazzo. Se il notaio vi riconoscesse?»

«Sono passati vent’anni, non sarà quindi facile che ricordi ancora i nostri volti» disse l’amburghese.

«Non commettete imprudenze almeno».

«Saremo tranquilli come due agnellini» promise Carmaux.

Una viva ondulazione, che fece rollare la baleniera, li avvertì che si trovavano presso delle scogliere.

«Sono le isole di Pirita» disse don Raffaele, prevenendo la domanda che stava per rivolgergli Carmaux. «Stringete verso la costa».

Carmaux vedendo delinearsi verso il settentrione delle isole, spinse la scialuppa verso la costa, dove il mare appariva sgombro di scogliere.

All’alba, avvistavano una grossa borgata annidata in fondo ad una vasta insenatura e dove si scorgevano le alberature di non poche navi.

«Barcellona» disse il piantatore. «Siamo già a buon punto e giungeremo a Cumana prima che il sole tramonti. D’ora innanzi non parlate che lo spagnolo e se qualche nave ci accosta, lasciate che risponda io».

«Vi avverto, però, don Raffaele, che noi vi sorveglieremo rigorosamente. Per il vostro bene siate leale».

«Vi ho dato prove sufficienti della mia lealtà, signor Carmaux» rispose il piantatore.

Verso le sei della sera la baleniera, che aveva avuto quasi sempre il vento favorevole, si trovava dinanzi a Cumana, che in quel tempo era una delle città più ricche e più popolose della Venezuela e che era anche ben difesa, trovandosi a non molte centinaia di miglia dalla Tortue.

Appunto in quel momento entravano in rada parecchie barche di pescatori, montate per la maggior parte da indiani.

Carmaux spinse dietro di esse la scialuppa, onde passare inosservato fra due grosse caravelle che stazionavano presso l’entrata della rada.

«Non credevo di passarla così liscia» disse Carmaux, dirigendo la scialuppa verso la gettata più prossima. Dove abita il notaio?»

«Non siamo lontani; aspettate che il sole sia tramontato. Sta già per scomparire».

Carmaux fece calare le vele latine e servendosi solamente del fiocco, approdò dinanzi ad un vecchio fortino caduto in rovina.

«Ecco un bel luogo per fare il segnale a Morgan» disse, guardando le muraglie che ancora rimanevano in piedi.

Legarono la scialuppa, misero in ordine le reti, arrotolarono le vele, poi si nascosero sotto le fascia di lana un paio di pistole ognuno ed una di quelle navaje che, aperte, diventano lunghe come spade.

«Possiamo andare» disse Carmaux a don Raffaele. «Non ci si vede più».

«Mi promettete di non commettere violenze?» chiese il piantatore.

«Non siamo così sciocchi» rispose l’amburghese.

«Allora seguitemi».

«Adagio, don Raffaele. Sarà ancora vivo il notaio?»

«Sei mesi fa non era ancora morto».

«Deve essere assai vecchio».

«Sessant’anni. Andiamo».

Si orientò per qualche istante, si diresse verso una viuzza che passava in mezzo a dei giardini tenuti con gran cura, poi imboccò una larga strada fiancheggiata da belle case a due piani, tutte in pietra ed illuminata da qualche lampada fumosa.

Dopo un centinaio di metri, s’arrestò dinanzi ad una abitazione piuttosto vecchia, un po’ più alta delle altre, e sormontata da una terrazza coperta di piante.

«Aspettatemi qui» disse. «Vado ad annunciare la vostra visita».

«Fate pure» rispose Carmaux.

Don Raffaele lasciò cadere il pesante martello di ferro sospeso alla porta e, appena questa s’aprì, entrò in un andito buio, scomparendo agli sguardi dei due filibustieri.

«Sei tranquillo?» chiese Carmaux all’amburghese.

«Non diffido di quel brav’uomo. Sa che noi siamo capaci di fargli passare un brutto quarto d’ora».

Poco dopo il piantatore ricomparve sulla soglia del portone e pareva che non fosse di cattivo umore.

«Possiamo dunque entrare?» chiese Carmaux.

«Sì» rispose il piantatore. «Il notaio vi accorda ospitalità e vi offre anche una cena».

«È la perla dei notai!…» esclamò l’amburghese.

«Lo dicevo io che era un uomo eccellente».

«Seguitemi» disse don Raffaele.

I due filibustieri entrarono in un androne malamente illuminato da una fumosa lampada ad olio e vennero introdotti in un salotto a pianterreno, modestamente ammobiliato, dove si trovava una tavola coperta di tondi su uno dei quali faceva bella mostra un’anitra assai grassa.

Il notaio si era già seduto al desco e pareva che si preparasse a cenare, senza attendere gli ospiti.

Era un uomo sulla sessantina, molto magro e molto rugoso, d’aspetto bonario. Vedendo entrare i due filibustieri li guardò quasi sospettosamente, poi, senza nemmeno salutarli, fece loro cenno di accomodarsi alla tavola, dicendo:

«Se credete, tenetemi compagnia».

Carmaux e l’amburghese si scambiarono uno sguardo e fecero una smorfia che indicava un certo malcontento.

Non s’aspettavano un’accoglienza così fredda, né una cena così magra, tuttavia Carmaux rispose:

«Grazie, signore, questo invito giunge in buon punto poiché siamo affamati, anzi tremendamente affamati».

«E molto assetati anche» aggiunse Wan Stiller.

«Ah!…» fece il notaio.

Tagliò l’anitra e ne offerse a tutti, ma non fece aggiungere nulla.

«Quest’uomo è diventato estremamente avaro» pensava Carmaux. «Non è più quello che ci ha ospitati a Maracaybo. È vero che allora aveva le nostre spade alla gola. Le bottiglie le tirerà fuori: a questo ci penso io».

Quand’ebbero finito, il notaio, che durante il pasto non aveva più aperto bocca, limitandosi a guardare di tratto in tratto i due filibustieri, andò a prendere una fiasca di vino e riempì i bicchieri, dicendo:

 

«Bevete pure. Poi mi direte chi siete voi e che cosa desiderate da me».

«Signor notaio» disse Carmaux «se don Raffaele non vi ha ancora detto chi noi siamo, vi dirò allora io che siamo due personaggi in missione, mandati qui dal signor Presidente dell’Udienza Reale di Panama, per avere informazioni precise sul signor conte di Medina, di cui non si hanno più notizie dopo la sua fuga da Maracaybo».

«Dovevate rivolgervi al governatore di Cumana».

«Non abbiamo creduto di farlo, signor notaio, per certi motivi che non vi posso, almeno per ora, esporre. È vero che il conte è giunto qui?»

«Sì» rispose il notaio. «È arrivato improvvisamente, con una piccola scorta ed una fanciulla».

«Ed è già ripartito?» chiese Carmaux con ansietà.

«A mezzodì».

«Per dove?»

«Per Chagres, mi hanno detto».

«Allora si reca a Panama?»

«Lo credo».

«Su quale nave si è imbarcato?»

«Sull’Andalusa».

«Vascello da guerra?»

«Una corvetta di ventiquattro cannoni» disse il notaio.

Carmaux fece imprudentemente un gesto di furore. Il notaio che da qualche po’ l’osservava attentamente, alzò vivamente la testa, e chiese:

«Quale interesse ha il signor Presidente dell’Udienza Reale di Panama di conoscere queste cose? Sarei curioso di saperlo, mio caro signore».

«Lo ignoro» rispose prontamente il francese.

«Ah!…» fece il notaio. Poi, dopo qualche istante di silenzio e guardando fisso fisso Carmaux, gli chiese a bruciapelo:

«Siete mai stato a Maracaybo, molti anni or sono?»

Il filibustiere per poco non fece un soprassalto, poi rispose:

«Una sola volta, signore, due mesi or sono. Perché mi fate questa domanda?»

«Che volete? Mi pare di aver già udito la vostra voce».

«Forse vi confondete con un altro, signore».

«Ne sono convinto» disse il notaio con un certo tono che turbò i due filibustieri. «E poi è passato tanto tempo che posso essermi ingannato. Viveva allora ancora il terribile Corsaro Nero».

«L’avete conosciuto voi?» chiese Carmaux, per meglio ingannarlo.

«Sì, per mia disgrazia e vi ho perduta una casa per colpa sua, una bella casa che fu distrutta dal fuoco».

«Mi avete già raccontata quell’avventura» disse don Raffaele.

«Era insieme a due corsari e ad un negro gigantesco» proseguì il notaio, «ed avevano avuta la malaugurata idea di rifugiarsi nella mia casa».

«E non vi hanno ucciso?» chiese l’amburghese, che tratteneva a stento le risa.

«No, si accontentarono di vuotarmi mezza cantina».

«Che paura però dovete aver provata» disse Carmaux.

«Non avevo più sangue nelle vene».

«Sfido io, godeva una fama terribile, il Corsaro Nero».

«E poi, come vi dissi, era insieme a due dei suoi… Oh!…»

«Che cosa avete signore?» chiese Carmaux.

«Il caso è stranissimo!…»

«Quale?»

Il notaio non rispose. Guardava attentamente l’amburghese, il quale dal canto suo raggrinzava il volto per dargli un’altra espressione.

«La mia memoria deve essersi indebolita» disse finalmente il notaio. «Non mi ricordo più come io sia riuscito a salvarmi quando la casa ardeva».

«Sarete saltato dalla finestra» disse Carmaux, che cominciava però a sudar freddo.

«È probabile. Signori, è tardi ed ho l’abitudine di alzarmi presto. Don Raffaele, conducete questi signori nella stanza che ho loro assegnata. Ci rivedremo domani a colazione, signori».

Il piantatore accese una candela e fece segno ai due filibustieri di seguirli.

«Buona notte, signore, e grazie della vostra cortese ospitalità» disse Carmaux, inchinandosi dinanzi al notaio.

Il piantatore, che doveva conoscere la casa, fece percorrere ai due filibustieri un lungo corridoio, poi li introdusse in una stanza piuttosto vasta e ammobiliata con un certo sfarzo.

Appena la porta fu chiusa, due imprecazioni sfuggirono a Carmaux.

«Il vecchio ci ha riconosciuti, è vero compare?» chiese Wan Stiller.

«Ne ho quasi la certezza, e faremo bene a filare questa notte stessa. Che ne pensate voi, don Raffaele?»

«Lasciate che vada ad interrogare il notaio. Se correrete qualche pericolo verrò subito ad avvertirvi».

«O ci farete invece arrestare?» chiese Carmaux.

«No, perché intendo di seguirvi».

«Voi!…» esclamarono ad una voce i due filibustieri.

«Voi andate a Panama, è vero?»

«Certo».

«Verrò anch’io: voglio vendicarmi di quell’odiato capitano».

Appena lo spagnolo fu uscito, Carmaux aprì una delle due finestre e guardò al di fuori.

«Mette su un’ortaglia» disse a Wan Stiller «e non vi sono che due metri d’altezza. Un piccolo salto, compare, che anche don Raffaele può tentare, senza pericolo di rompersi le gambe».

«Che sia già giunto Morgan?» chiese l’amburghese.

«Col vento che ha soffiato quest’oggi non sarà rimasto dietro di noi. Vedrai che risponderà subito al nostro segnale».

«Taci: ecco don Raffaele che ritorna».

Il piantatore un momento dopo entrava precipitosamente nella stanza.

«Fuggiamo subito» disse.

«Che c’è?» chiesero ad una voce i due filibustieri.

«Il notaio vi ha riconosciuti».

«Per le sabbie d’Olonne, come diceva Pietro l’Olonese» rispose Carmaux. «Che memoria ha quel diavolo d’uomo per ricordarsi ancora di noi dopo diciott’anni!»

«Vi dico di fuggire e senza perdere tempo» ripeté don Raffaele. «È già andato ad avvertire le guardie».

«Allora» disse l’amburghese «non abbiamo altro da fare che questo».

Salì sul davanzale e saltò nel giardino, massacrando una splendida aiuola di rose.

Carmaux lo aveva subito imitato, dicendo al piantatore: «Se credete, fate come facciamo noi».

E per poco non era caduto addosso all’amburghese.

Don Raffaele, misurata l’altezza, a sua volta si era lasciato andare.

«Come le lepri, ora» disse Carmaux. «Dritti alla baleniera».

In un baleno attraversarono l’ortaglia che non era molto vasta, sfondarono una siepe di cactus e si slanciarono su una viuzza deserta.

«Don Raffaele» disse Carmaux «guidateci fino alla gettata».

Malgrado la rotondità del suo ventre, il piantatore si era messo a correre come se avesse già le guardie alla calcagna.

In meno di cinque minuti giunsero sulla gettata, dove trovarono ancora la baleniera semi-arenata sotto il fortino in rovina.

«Il segnale» disse Carmaux.

Prese un razzo, s’arrampicò su un bastione diroccato e l’accese, mentre Wan Stiller alzava le due vele della baleniera e don Raffaele spiegava il fiocco.

Il razzo era appena scoppiato in aria che al largo, verso il nord, si scorse una striscia di fuoco fendere le tenebre, quindi dileguarsi.

«È Morgan!…» gridò Carmaux, imbarcandosi precipitosamente.

«Al largo, compare!…»

Si erano allontanati da soli dieci minuti, quando udirono una voce gridare:

«Eccoli!… Fuoco!…»

Quattro o cinque colpi d’archibugio rimbombarono verso la spiaggia.

«Buona notte!…» gridò Carmaux. «Fila verso la bocca del porto, amburghese!…»

Essendo il vento notturno piuttosto fresco, la baleniera si allontanò rapidamente, mentre sulla gettata rimbombavano altri spari.

Con due bordate la scialuppa giunse all’imboccatura del porto e uscì in mare.

Una massa nera passava in quel momento, a meno di trecento metri, dinanzi al porto.

«A noi, Fratelli della Costa!…» urlò Carmaux. «Ci danno la caccia!…»

La nave virò quasi sul posto, mettendosi attraverso il vento, mentre un’altra voce rispondeva:

«A bordo, Carmaux».

Con una bordata la scialuppa giunse sotto la nave, presso la scala che era stata subito abbassata.

Due paranchi furono calati per issarla, mentre Carmaux, l’amburghese ed il piantatore si slanciavano su pei gradini.

Un uomo li aspettava: era Morgan.

«Dunque?» chiese.

«Partito, signore» rispose Carmaux.

«Quando?»

«Stamane».

«Per dove?»

«Per Chagres».

«Sta bene» rispose Morgan. «Andremo a prenderlo a Panama».

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Quattro giorni dopo la corvetta di Morgan faceva la sua entrata nella piccola baia della Tortue.

Era quell’isola il covo dei famosi filibustieri del Golfo del Messico, che avevano giurata una guerra spietata agli spagnoli per vendicare la inumana distruzione degl’indiani compiuta dai primi conquistadores, o piuttosto per alleggerire gli spagnoli di una parte delle immense ricchezze che traevano dalo sfruttamento delle loro colonie.

Il ritorno improvviso di Morgan, che tutti avevano creduto morto, produsse un’emozione straordinaria fra tutti i corsari, che tenevano in grande stima l’antico luogotenente del Corsaro Nero, per il suo coraggio e per le sue audaci imprese.

Le notizie della presa di Maracaybo, della liberazione della signora di Ventimiglia, del sacco di Gibraltar e della distruzione della flotta spagnola erano già giunte alla Tortue, portate dai compagni di Morgan i quali, più fortunati del loro capo, erano riusciti a porsi in salvo assieme alle ricchezze predate.

La scomparsa della fregata predata all’ammiraglio, sulla quale Morgan si era imbarcato con la signora di Ventimiglia, aveva dato luogo a gravi timori, e molti capi della filibusteria avevano finito per ammettere che tutti dovevano esser morti annegati nel mar dei Caraibi.

Perciò il ritorno quindi dell’audace corsaro, che contava un gran numero di amici e di ammiratori, era stato salutato con grande gioia.

La nave si era appena ancorata fra i velieri corsari che ingombravano la piccola baia, che già i più famosi scorridori del mare si trovavano a bordo.

C’era Brodely, che più tardi doveva rendersi famoso nella presa del castello di S. Felipe, giudicato la più formidabile fortezza degli spagnoli; Sharp, Harris, Sawkins, tre uomini terribili, le cui imprese dovevano far meravigliare il mondo; Watling, il saccheggiatore delle coste peruviane; Montauban, Michel ed altri allora poco noti, ma che dovevano diventare a loro volta famosi.

Nell’apprendere che la signora di Ventimiglia era stata ripresa e condotta a Panama, un urlo di furore scoppiò fra quegli uomini formidabili e in tutti i cervelli si affacciò l’idea di tentare la grande impresa ideata da Morgan.

Quella grande città, emporio delle ricchezze del Perù e del Messico, aveva già da tempo risvegliato la cupidigia dei filibustieri. Tuttavia la distanza e le difficoltà che potevano incontrare nella traversata dell’Istmo, che a quel tempo non era tagliato da nessun canale ed era per essi terreno completamente sconosciuto, più che le forze imponenti che potevano opporre loro gli spagnoli, li avevano fino allora trattenuti.

Udendo Morgan fare la proposta di tentare la grande impresa, nessuno sollevò alcuna obbiezione.

«Là» aveva detto il filibustiere, «oltre liberare la signora di Ventimiglia, che si è messa sotto la protezione delle nostre spade, troverete tesori tali da diventare tutti ricchi».

Un’ora dopo la spedizione veniva decisa dai più celebri e più audaci capi della Tortue.

Capitolo trentunesimo. Nell’America Centrale

Lo stesso giorno, la Vasquez – tale era il nome della corvetta spagnola predata da Morgan sulle coste venezuelane – spiegava le vele per l’America Centrale, col grande stendardo di Spagna sciolto sull’artimone.

Era comandata da Pierre le Picard e montata da ottanta uomini, scelti fra coloro che parlavano correntemente il castigliano e che indossavano i vistosi costumi usati in quell’epoca dagli spagnoli delle colonie americane.

Carmaux e Wan Stiller, i due inseparabili, ne facevano parte col grado di mastri d’equipaggio, essendo i soli che conoscevano la piccola borgata di Chagres e che potevano dare preziose informazioni e più preziosi consigli.

La Vasquez doveva costituire l’avanguardia della spedizione, ancorarsi nella piccola baia e assicurarsi, innanzi tutto, se il conte di Medina aveva già iniziata la traversata dell’Istmo per raggiungere Panama ed, in caso contrario, doveva abbordare la sua nave e riprendergli la signora di Ventimiglia.

Morgan, come grande ammiraglio della squadra filibustiera, che doveva essere numerosissima per poter tener testa alle grosse navi spagnole, si era fermato alla Tortue, onde preparare ogni cosa e assicurare il buon esito della grande ed audacissima impresa.

Scarseggiando però in quell’epoca i viveri alla Tortue, subito dopo la partenza della corvetta, egli mandò quattro a farne provvista nei porti spagnoli più vicini, affidandone il comando a Brodely, che godeva fama d’uomo arditissimo.

 

La Vasquez, spinta da buon vento, mise la prora verso il sud-ovest, frettolosa di avvistare le coste dell’istmo di Panama.

Era una buonissima veliera, tant’è che al mattino del quinto giorno, il suo equipaggio già salutava con gioia l’alta vetta del Castello Chico e le cime accidentate della Sierra di Veragua, visibili in mare a grande distanza.

Pierre le Picard fece chiamare in coperta Carmaux e Wan Stiller, i quali in tutto quel tempo non avevano fatto altro che giuocare e bere, senza affatto curarsi del regolamento che proibiva il giuoco a bordo delle navi filibustiere in spedizione guerresca.

«Alla ribolla, amico Carmaux» gli disse Pierre. «Spetta a te condurre in porto la corvetta».

«Signor Pierre» rispose il francese, «preparate intanto voi la farsa. Che non manchino né i pifferi, né i tamburi per salutare il fortino. Del resto rispondo io. Vieni, compare, e apri bene gli occhi e dimentica la tua lingua».

La Vasquez, che aveva il vento in poppa, puntò verso una piccola insenatura che s’apriva sulla costa, ormai perfettamente visibile.

Era quella di Chagres. Il suo villaggio, che in quei tempi aveva molta importanza, passando per di là la via che conduceva alla regina dell’Oceano Pacifico, a poco a poco cominciava a delinearsi, col suo fortino e le sue casette a un solo piano, sormontate da belle terrazze coperte di fiori.

Carmaux, che, come dicemmo, vi era già stato molti anni prima, con due bordate sorpassò felicemente la punta meridionale che difendeva la rada dai forti venti del nord-est e spinse innanzi la corvetta, facendola ancorare fra due vecchie navi in demolizione.

Udendo tuonare i cannoni di bordo e vedendo sventolare sull’artimone il vessillo spagnolo, tutta la popolazione, composta di due o tre centinaia di anime e di due compagnie di soldati, s’era affollata sulla spiaggia, mentre il forte restituiva il saluto.

Ad un cenno di Pierre, i pifferi ed i tamburi avevano intuonata una marcia spagnola, con un accordo passabilmente discreto.

Le àncore erano appena affondate, quando una scialuppa si staccò dalla spiaggia. Era montata dalle due maggiori autorità della borgata: l’alcalde ed il comandante della guarnigione e da una mezza dozzina di barcaiuoli.

«Signor Pierre» disse Carmaux, che aveva indossata una divisa fiammante e che si era cinto un lungo spadone. «Badate all’inglese!… Se vi sfugge una parola guasterete la faccenda».

«Non temere» rispose il corsaro, che s’era avanzato fino sul pianerottolo della scala per ricevere le autorità. «Da questo momento io sono don Juan Perredo, cavaliere dell’ordine di Sant’Jago…»

L’alcalde ed il comandante della guarnigione stavano allora salendo la scala. Il primo era un uomo sulla cinquantina, rotondo quasi come don Raffaele; l’altro invece aveva l’aspetto d’un vero uomo di guerra e, malgrado fosse più vecchio del primo, s’avanzava impettito tenendo fieramente il pugno sul fianco.

«Don Juan Perredo, cavaliere di Sant’Jago, comandante della Vasquez, ha il piacere di salutarvi» disse Pierre, stringendo la mano prima all’alcalde, poi al comandante. «Eravate già stati avvertiti del mio arrivo?»

«No, capitano» rispose l’alcalde, che sbuffava ancora per la faticosa ascensione. «Anzi siamo rimasti assai stupiti di veder giungere questa nave e per poco non la credemmo montata da quei diavoli di mare che si chiamano filibustieri».

«Come!…» esclamò Pierre, fingendo abilmente un gesto di stupore. «Il conte di Medina non vi aveva annunciato il mio arrivo?»

«Il signor governatore di Maracaybo è giunto qui ieri mattina ed è partito subito per Panama, senza annunciarvi. Aveva molta fretta, il signor conte».

«Non comprendo come non mi abbia atteso» disse Pierre le Picard, fingendosi assai contrariato da quella risposta.

«Dovevate scortarlo fino a Panama, capitano?» chiese il comandante.

«Sì» rispose il filibustiere.

«Gli ho dato io una buona scorta, composta di uomini fidati e valorosi».

«Aveva con sé una fanciulla?» chiese Pierre.

«Sì», rispose l’alcalde «una giovane e bellissima signorina».

«Quanto si è fermato qui?»

«Appena una mezz’ora, il tempo sufficiente per provvedersi di cavalcature».

«E la nave che lo ha condotto è ripartita pure?»

«Credo che sia andata a Costarica».

«Forse il conte mi farà pervenire i suoi ordini» disse Pierre.

«Vi fermate qui?» chiese l’alcalde.

«Ho l’ordine di non rimettermi alla vela».

«In che cosa possiamo esservi intanto utili?»

«Mettete qualche casa a nostra disposizione e forniteci di viveri freschi».

«Il palazzo del governatore è pronto ad ospitare voi ed i vostri ufficiali, signor capitano».

«Arrivederci, signori, e grazie» rispose Pierre, facendo un gesto di congedo.

I due rappresentanti le autorità della borgata, comprendendo che il colloquio era finito, ridiscesero nella scialuppa e tornarono a terra.

«Non abbiamo fortuna, Carmaux» disse Pierre, quando furono soli.

«È quello che dicevo poco fa a Wan Stiller» rispose il francese, «Il conte non sarà andato molto lontano però».

«Se ci provassimo ad inseguirlo?»

«Era venuta anche a me l’idea, ma ho udito a parlare del castello di S. Felipe che chiude la via e sotto a cui non si passa se non si ha un ordine dal Presidente dell’Udienza di Panama. Se non fosse lontano!… Eh!… Bisognerebbe informarci. Lo chiederò al basco, se non sarà morto. Sono dieci anni che non vengo più qui».

«Un taverniere, mi hai detto».

«Sì, signor Pierre».

«Tu sei amico di tutti i tavernieri del mondo».

«Mi ci trovo bene fra le botti» rispose Carmaux, ridendo. «Volete che vada a cercarlo?»

«Ti do carta libera, purché sii prudente».

«Oh!… Non uscirà dalla mia bocca una parola che non sia spagnola. Compare Stiller, andiamo».

Le scialuppe erano già state messe in acqua. I due inseparabili si munirono di un paio di pistole e si fecero condurre a terra, sbarcando un po’ lontano dalle prime case.

«Orientiamoci» disse Carmaux all’amburghese. «In dieci anni questa borgata è cambiata».

Due o tre viuzze strette e fangose si offrivano dinanzi a loro. Scelsero la più vicina e s’avanzarono strascinando rumorosamente i loro spadoni.

Gli abitanti che incontravano, riconoscendoli per marinai della corvetta, facevano loro buon viso, invitandoli ad entrare nelle case a bere una tazza di cioccolata, bevanda allora assai in uso nelle colonie spagnole d’America, essendo il caffè ancora sconosciuto.

Chiedendo ora all’uno, ora all’altro, dopo un buon quarto d’ora, i due corsari si trovarono finalmente dinanzi ad una tavernaccia di meschina apparenza, sulla cui soglia stava un ometto magro come un’aringa e dalla pelle un po’ olivastra.

«Che il diavolo mi impicchi se costui non è il basco» disse Carmaux. «Non è molto invecchiato l’amico».

«Con quelle bottiglie!» esclamò Wan Stiller. «In cantina non s’invecchia mai, compare».

S’accostarono all’ometto che li guardava curiosamente, facendo una serie d’inchini e lo spinsero nella taverna, chiedendogli:

«Non si riconoscono più gli amici?»

Il basco aveva fatto un soprassalto.

«Misericordia!… I filibustieri!…» esclamò.

«Silenzio o ti taglio la lingua, amico» disse Carmaux. «Noi non siamo più coi ladri di mare. Siamo arruolati sotto le bandiere della grande Spagna e ti assicuro che non ci troviamo male».

«Avete lasciato Laurent? Eravate con lui, dieci anni or sono, quando veniste qui a saccheggiare la borgata».

«Ma non la tua cantina, che noi proteggemmo contro la rapacità dei nostri camerati».

«Non mi sono mai scordato di quella vostra buona azione».

«Veniamo a farci pagare quel debito di riconoscenza» disse Wan Stiller.

«La mia cantina come la mia borsa è a vostra disposizione» disse l’ometto, con voce grave. «Non vi ho mai dimenticati».

«Porta dunque da bere per ora e non spaventarti» disse Carmaux. «Non siamo venuti né per prenderti la borsa, né per asciugare le tue botti».

Non aveva ancora terminato di parlare, che già il taverniere era scomparso per tornare poco dopo con due polverose bottiglie che promettevano di essere delle migliori.

«Basco» disse Carmaux, dopo d’aver assaggiato il vino. «Tu hai una cantina degna d’un re. Scommetterei che il grande Carlo V, se fosse ancora vivo, non sdegnerebbe di trincare con noi».

«Ho altre bottiglie come questa; bevete senza darvi pensiero».

«Possiamo fidarci di te?»

«Senza di voi, sarei stato rovinato completamente dai corsari del signor Laurent, ve lo dissi già».

«Hai veduto, tu, la nave che è entrata in porto ieri mattina?»

«Ero sulla gettata quando affondò le àncore».

«Ne è disceso un signore, accompagnato da una fanciulla, è vero?»

«Mi hanno detto che era il conte di Medina, governatore di Maracaybo».

«Ed è partito subito per Panama?»