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Jolanda, la figlia del Corsaro Nero

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«Circa mezz’ora dopo».

«Il signor conte ci deveuna grossa somma, che non siamo stati fin’ora capaci di riavere e vorremmo raggiungerlo al più presto con un manipolo dei nostri camerati che hanno anche essi dei conti da saldare con quel pezzo grosso sì, ma pessimo pagatore. Dove credi che si trovi a quest’ora?»

«Non troppo vicino di certo. Ha fatto requisire i migliori cavalli e deve aver oltrepassato anche il castello di S. Felipe».

«L’oltrepasseremo anche noi; è lontano?»

«Tre sole leghe, ma senza un lascia-passare il comandante non vi permetterebbe di proseguire. L’avete voi?»

«Vedremo di procurarcelo».

«Uhm!» fece il taverniere, scuotendo il capo.

«Che cos’è quel castello?»

«Un forte piantato sulla cima d’una rupe, che domina la via che conduce nella valle del Chagres».

«Credi che sia impossibile passarvi sotto senza venire scorti?»

«Di notte il passo è chiuso e guardato da sentinelle».

«Affare perduto» disse poi. «Il conte non ci pagherà più. Brutto spilorcio, derubare così degli onesti marinai. Se potessi mettere il piede in Panama! A proposito, conosci quella città, tu?»

«Vi sono stato l’anno scorso».

«È vero che gli spagnoli l’hanno fortificata formidabilmente?»

«È tutta cintata, ha torri e artiglierie in gran numero e si dice che non vi siano mai meno di ottomila uomini di guarnigione».

«Mi piacerebbe visitarla» disse Carmaux. «Bah!… sarà per un’altra volta. Bevi, compare Stiller».

Vuotarono coscienziosamente le bottiglie, poi se ne tornarono lentamente a bordo, non poco malcontenti della magra riuscita della loro missione.

Erano appena saliti sulla corvetta ed avevano informato Pierre le Picard di quanto avevano appreso dal basco, quando una scialuppa montata da un ufficiale e da parecchi remiganti, abbordò il legno, fermandosi presso la scala.

«Qualche notizia sul conte?» si chiese Pierre le Picard, muovendo incontro all’ufficiale, che teneva in mano una lettera:

«Salite, signore».

«Da parte dell’alcalde, capitano» disse il messo, mettendo piede sulla tolda.

La lettera conteneva un invito per gli ufficiali della nave e pei marinai, ad un fandango notturno, onde festeggiare il loro arrivo.

«In mancanza di altro, divertiamoci» mormorò il filibustiere. «Non avremo nulla da fare fino all’arrivo della squadra».

Quindi, alzando la voce, disse all’ufficiale che aspettava una risposta:

«Dite all’alcalde che noi siamo riconoscenti di questo invito e che lo accettiamo con piacere».

«Conducete il maggior numero possibile di marinai, signore» disse il messo.

«Non lascerò a bordo che gli uomini puramente necessari».

«Sono cortesi questi abitanti» disse, volgendosi verso Carmaux, quando l’ufficiale ridiscese nella scialuppa. «Se sapessero che razza di spagnoli siamo noi!… Ehi, Carmaux, hai il viso oscuro?»

«Non ho mai avuto gran fiducia negli inviti degli spagnoli» rispose finalmente il francese.

«Che cosa temi? Oh!… già, preferiresti cacciarti in qualche cantina. Anche al fandango il buon vino non mancherà, vecchio mio».

Carmaux non rispose, ma scosse ripetutamente il capo.

Capitolo trentaduesimo. Una festa finita male

Appena tramontato il sole, una diecina d’imbarcazioni montate dagli ufficiali della guarnigione spagnola e dai notabili della borgata, abbordarono la corvetta per fare scorta d’onore all’equipaggio.

Pierre le Picard, volendo mostrarsi sensibile a quella dimostrazione di simpatia verso gli uomini di mare, e non avendo d’altronde nulla da temere, aveva scelti sessanta marinai, stimando sufficienti gli altri venti per la guardia della nave. Per precauzione aveva ordinato a tutti di non separarsi né dalla spada, né dalla pistola.

L’alcalde era salito a bordo, seguíto da una diecina di barcaiuoli muniti di canestri contenenti tortillas – specie di focaccie dolci – e bottiglie destinate agli uomini che dovevano rimanere sulla corvetta, onde avessero la loro parte.

«Vi aspettiamo, signor capitano» disse inchinandosi.

Le scialuppe della corvetta, munite di fanali e di torce, erano già state calate in acqua. I sessanta corsari, che avevano indossati per la circostanza i più vistosi costumi, ad un comando dei mastri lasciarono la nave e la piccola flottiglia si diresse verso la gettata ingombra di gente che applaudiva calorosamente i baldi giovani della flotta spagnola.

Tutti i corsari, che non dubitavano di nulla, erano allegrissimi ed entusiasti di quelle accoglienze alle quali non erano certo abituati nelle colonie spagnole, dove invece di applausi ricevevano ferro e piombo e granate. Solo Carmaux, contrariamente al solito, pareva preoccupato e borbottava.

«Ehi, compare» disse l’amburghese, che gli camminava al fianco «Che cosa mastichi? Tabacco o parole?»

«Io non so per quale motivo, compare amburghese, ho questa sera dei brutti presentimenti».

«Che cosa temi? Siamo in buon numero innanzi tutto e nessuno dubita che noi non siamo dei bravi marinai spagnoli».

«Spero d’ingannarmi» rispose Carmaux.

La festa era stata allestita nel palazzo del governo, una massiccia costruzione a due piani, con solide inferriate alle finestre ed il portone laminato in ferro, dovendo talvolta quegli edifici servire anche da fortezza.

Le ampie sale erano state splendidamente illuminate e brulicavano di borghesi, di ufficiali e anche di fanciulle.

I corsari, accolti da evviva entusiastici e dal suono d’una mezza dozzina di chitarre, si dispersero per le sale, dove altri chitarristi intuonavano già chi il bolero, chi il fandango, due ballabili assai in voga in quell’epoca.

Carmaux e Wan Stiller, che preferivano le bottiglie a quella ginnastica indiavolata, si spinsero subito in un angolo della sala maggiore, dove c’erano dei tavoli forniti di fiaschi di mezcal e di vini di Spagna.

«Lasciamo che si divertano i giovani» aveva detto Carmaux. «E noi invece apriamo gli occhi».

La festa prometteva di riuscire brillantissima. Nuovi arrivati giungevano ad ogni istante e fanciulle, borghesi, ufficiali e soldati andavano a gara per colmare di cortesie i corsari.

Soprattutto l’alcalde ed il comandante della guarnigione si facevano in quattro per mostrarsi gentilissimi con tutti, oltre che con Pierre le Picard. Si erano perfino degnati di dare due vigorose strette di mano a Carmaux ed a Wan Stiller, indicando loro i fiaschi contenenti il vino migliore.

Alla mezzanotte la festa era al colmo e l’allegria regnava sovrana. Già Carmaux cominciava a rassicurarsi, quando ad un tratto udì verso un angolo della sala un grido, poi vide due uomini aprirsi violentemente il passo fra le coppie danzanti e uscire.

Il francese si era alzò precipitosamente.

«Vieni, Wan Stiller!…» esclamò.

«Che cosa ti piglia, compare?» chiese l’amburghese.

«Vieni, ti dico» ripeté Carmaux.

L’amburghese, colpito dall’accento di Carmaux e anche dalla sua agitazione, si alzò borbottando:

«Peccato lasciare lì questo Porto».

Carmaux aveva fatto rapidamente il giro della sala, cercando cogli sguardi Pierre le Picard. Vedendolo chiacchierare tranquillamente coll’alcalde, uscì sperando di raggiungere i due uomini che avevano mandato quel grido.

La folla che ingombrava le sale vicine era d’altronde tanta da non permettergli di avanzare in fretta.

«Che cos’hai dunque?» gli chiese Wan Stiller, che lo aveva finalmente raggiunto, barcollando sulle malferme gambe.

Carmaux, invece di rispondere lo trasse verso una finestra, lasciando cadere dietro di sé le tende.

«Non hai udito quel grido?» gli chiese.

«L’avrà mandato qualche fidanzato geloso» rispose l’amburghese.

«L’hai udito bene?»

«Sì».

«Non ti ricorda nulla?»

«Assolutamente nulla e poi col Porto che stavo bevendo… Oh!… Avevo altro da fare».

«Eppure io non posso essermi ingannato».

«Spiegati meglio, compare».

«Giurerei d’aver udito il grido del capitano Valera».

«Tuoni d’Amburgo!…» esclamò Wan Stiller, diventando livido. «Il capitano qui!… Allora verremo scoperti».

«Cerchiamolo, e non lasciamolo scappare».

I due compari rialzarono la tenda e si misero a girare fra le coppie danzanti, poi passarono al pianterreno dove corsari, spagnoli e fanciulle alternavano il fandango al bolero con grande slancio e fra un chiasso indemoniato.

Stavano per passare dinanzi ad una porta, quando quella si aprì e comparve il comandante della guarnigione col volto abbuiato. Egli fissò su di loro uno sguardo acuto come la punta d’uno spillo.

«Pare che vi annoiate» disse lo spagnolo, affettando un sorriso. «Non vi ho ancora veduti a danzare».

«Siamo troppo vecchi, comandante» rispose Carmaux. «Lasciamo il posto ai più giovani».

«Fatevi servire del vino e dei cibi nella sala superiore e cercate di divertirvi meglio che potete».

«Grazie, comandante» risposero i due compari, salendo lo scalone che metteva al secondo piano.

«Hai notato quello sguardo?» chiese Carmaux, quando si trovarono al loro tavolo.

«Sì, compare» rispose l’amburghese. «Aveva l’aria corrucciata e anche imbarazzata, il comandante».

«Avvertiamo Pierre. Io non sono tranquillo».

Stavano per alzarsi, quando un tumulto spaventevole scoppiò improvvisamente nella sala, ripercuotendosi in quelle vicine.

Le danzatrici avevano lasciati improvvisamente i loro cavalieri e fuggivano disordinatamente verso le scale seguìte dai borghesi, dagli ufficiali e dai suonatori, mentre si udivano echeggiare dovunque le grida di: «Tradimento!… Tradimento!…»

I marinai della corvetta, sorpresi da quella fuga improvvisa, erano rimasti intontiti, chiedendosi che cosa era avvenuto.

«Camerati!…» gridò Carmaux, sfoderando la spada. «Alle armi!…»

 

Nel medesimo istante si udirono rimbombare verso la rada alcuni colpi di cannone, seguìti da nutrite scariche di moschetteria.

I corsari, rimessisi dal loro stupore, comprendendo che erano stati traditi, stavano per precipitarsi giù dallo scalone per unirsi ai loro compagni che si trovavano nelle sale inferiori, quando comparve Pierre colla spada in pugno.

«È troppo tardi!…» gridò con voce alterata. «Le truppe ci hanno bloccati ed i nostri stanno barricando il portone».

«Ve lo avevo detto, signor Pierre, che avevo dei brutti presentimenti» disse Carmaux. «Fu lui che aveva mandato quel grido».

«Chi lui?» chiese il filibustiere.

«Il capitano Valera».

«Ancora quel furfante?»

«È lui che ha preparato l’agguato, ne sono certo».

«Mille demoni!…» gridò Pierre.

«Tentiamo un’uscita» disse l’amburghese.

«Hanno piazzato quattro pezzi di cannone dinanzi al portone e vi sono due compagnie di archibugieri» disse Pierre. «Ci faremmo massacrare inutilmente».

«Siamo dunque assediati?» chiesero parecchie voci.

«Non perdetevi d’animo, camerati» rispose Pierre. «L’edificio è solido e resisteremo a lungo. D’altronde, la squadra di Morgan non tarderà a giungere».

«E la corvetta?» chiese Wan Stiller, udendo rombare con maggior intensità le artiglierie.

«Temo che quella sia perduta» rispose Pierre. «I venti uomini che abbiamo lasciati a bordo non la dureranno a lungo. Si scorge il molo dalle finestre?»

«No» rispose Carmaux. «Abbiamo due file di case dinanzi a noi».

«Organizziamo la resistenza» disse Pierre. «Barrichiamo la scala e le porte e ritiriamoci tutti quassù. Vedremo se gli spagnoli avranno il coraggio di assalirci anche qui dentro».

Mentre i corsari accorrevano in aiuto dei loro camerati, che stavano accumulando dietro il portone tutta la mobilia delle sale inferiori, Carmaux e Wan Stiller s’accostarono cautamente ad una finestra.

Essendo l’edificio isolato in mezzo alla piazza della borgata, potevano scorgere quello che facevano gli spagnoli e valutare le loro forze.

Il presidio aveva prese le sue misure per bloccare completamente i corsari. Due compagnie di archibugieri avevano occupati fortemente i quattro sbocchi delle vie, erigendo frettolosamente delle barricate con carrette, botti e tronchi d’albero ed avevano collocati anche quattro cannoni di fronte alla porta, alla distanza di cento passi.

Pareva però che gli spagnoli non avessero alcuna fretta di assalire il palazzo. Forse contavano di prendere egualmente i corsari affamandoli.

«Brutto affare» disse Carmaux all’amburghese. «Si tengono sicuri di averci nelle mani, senza consumare la polvere».

«I nostri della corvetta sapranno che Morgan aveva deciso di mandare una forte avanguardia all’isola di Santa Caterina?»

«Moriz, che ha ora il comando della nave, non deve ignorarlo e si recherà subito là per vedere se le navi sono giunte. Se le trova, questo assedio non durerà a lungo».

«Odi Carmaux?»

«Sì, i colpi di cannone rallentano. La corvetta deve essersi messa alla vela».

«Almeno quelli si salvano».

«Speriamo di cavarcela anche noi, compare».

Stavano per ritirarsi, quando videro accendersi sulla piazza alcune cataste di legna, poi avanzarsi un ufficiale che teneva sulla punta della spada un fazzoletto. Un trombettiere lo seguiva.

«Un parlamentario» disse Carmaux.

Udendo il primo squillo, Pierre le Picard si era slanciato verso la finestra occupata da Carmaux e dall’amburghese.

«Vengono ad intimarci la resa» disse il filibustiere. «Che nessuno faccia fuoco».

L’ufficiale si era fermato a dieci passi dal portone, mentre il trombettiere faceva squillare poderosamente il suo istrumento.

«Che cosa vogliono dunque?» chiese Pierre affacciandosi.

«D’ordine del comandante della guarnigione e dell’alcalde, v’intimo la resa» gridò l’ufficiale, alzando il capo.

«Per chi ci prendete?» gridò il filibustiere, fingendosi incollerito. «Così voi trattate i marinai della flotta? Quale scherzo è questo?»

«Ah!… Lo chiamate uno scherzo!…» esclamò l’ufficiale. «È inutile che voi prolunghiate l’equivoco; ormai siete stati riconosciuti».

«Per chi?»

«Per filibustieri della Tortue».

«Ma voi siete pazzi!» gridò Pierre. «Finitela, o noi vi daremo l’assalto alla borgata e la bruceremo. I miei marinai sono furiosi e non son più capace di trattenerli».

«Volete prolungare la commedia?»

«Ditemi almeno chi è quell’imbecille che pretende di riconoscere in noi, onorati marinai della flotta spagnola, dei ladri di mare».

«È un uomo che fu vostro prigioniero: il capitano Juan de Valera».

«Che l’inferno l’inghiotta…» mormorò Carmaux. «Non mi ero ingannato».

«Dite a quel capitano che è un imbecille!» urlò Pierre. «Noi non siamo corsari».

«Ho l’ordine d’intimarvi la resa. Poi si vedrà se voi siete realmente spagnoli o ladroni della Tortue».

«La marina non cede dinanzi a simili intimazioni».

«Badate che vi sono qui cinquecento soldati e che la vostra nave ha già preso il largo abbandonandovi».

«Noi siamo in numero sufficiente per resistervi finché ci piacerà. Attaccateci, se l’osate, e i miei marinai vi mostreranno di che cosa sono capaci».

«Lo vedremo» rispose l’ufficiale allontanandosi, seguíto dal trombettiere.

«Se avessimo i nostri archibugi non m’inquieterei troppo, quantunque si trovino di fronte a noi cinquecento uomini, se sono veramente tanti».

«Dubito che siano così numerosi» rispose Carmaux.

«Devono però essere in buon numero e hanno cannoni e archibugi».

«Ci siamo lasciati prendere come ragazzi inesperti. Non ci rimane che sperare nell’avanguardia della flotta di Morgan, che doveva partire all’alba del giorno successivo a quello della nostra partenza. Se è già approdata a Santa Caterina verrà avvertita dalla Vaquez e l’assedio non durerà molto. Come stiamo a viveri, Carmaux?»

«C’è da bere, signore».

«Intanto berremo» concluse pacatamente Pierre, che non era uomo da perdersi d’animo. «Le muraglie sono grosse, le finestre del piano inferiore sono munite di solide inferriate, la porta e lo scalone sono barricati ed infine abbiamo le nostre spade e le nostre pistole. Non faranno di noi un solo boccone».

Gli spagnoli, anche dopo il ritorno del parlamentario, non diedero segno di voler forzare il palazzo del governo.

Per il momento si accontentavano di sorvegliare gli assediati; quella tregua non doveva tuttavia durare a lungo, tutti i corsari ne erano convinti.

E infatti ai primi albori, un colpo di cannone, la cui palla sfondò uno dei due battenti del portone, diede il segnale della battaglia.

Gli spagnoli durante la notte si erano poderosamente trincerati agli sbocchi delle vie ed avevano anche scavato una piccola trincea per mettere al coperto i loro pezzi e gli artiglieri.

«La festa comincia» disse Carmaux. «Difendiamo la pelle, compare Wan».

«Siamo tutti pronti» rispose l’amburghese.

Al primo colpo di cannone ne era venuto dietro un altro, poi un terzo, quindi delle furiose scariche di moschetteria si erano seguìte.

Mentre i pezzi miravano a sfondare la porta, gli archibugieri dirigevano il fuoco contro le finestre, per impedire ai corsari di affacciarsi e di rispondere.

Pierre le Picard, che non voleva esporre inutilmente i suoi uomini e che voleva sopratutto economizzare le munizioni per l’ultima difesa, aveva dato ordine di non occuparsene. Già le massiccie pareti erano più che sufficienti a ripararli e la barricata innalzata fra il portone e la scala li garantiva da un immediato attacco.

Quel fuoco violentissimo durò una buona ora, con grande spreco di polvere da parte degli spagnoli e con scarso successo. Solo il portone, scardinato e semi-fracassato dal tiro dei quattro pezzi d’artiglieria aveva finito per rovinare addosso alla barricata, ma l’ingresso era ostruito da tanti rottami da osatacolare ogni tentativo di attacco.

Quando gli zappatori si mossero per sgombrare quell’enorme cumulo di mobili sfasciati, furono accolti da parte dei corsari con una tale scarica di pistolettate che più della metà rimasero dinanzi al palazzo morti o moribondi. Gli altri, nonostante le imprecazioni degli ufficiali, rinunciarono subito alla pericolosa impresa, rifugiandosi dietro le trincee.

«L’osso è duro da rodere» disse Carmaux, che da una finestra, prudentemente riparato dietro un angolo, spiava le mosse degli assedianti. «Non oseranno prendere d’assalto il palazzo. Ti sembra, compare?»

«Ne sono convinto anch’io» rispose Wan Stiller. «Hanno troppa paura dei filibustieri».

«Ah!… Se potessi vedere quel maledetto capitano!…»

«Si guarderà bene dal mostrarsi. Vorrei sapere perché non ha seguíto a Panama il conte di Medina».

«Quello avrà fiutato il pericolo e lo avrà lasciato qui per sorvegliare la costa. Volpone!… Ci ha giocati per bene; se capita ancora fra i piedi non commetterò la sciocchezza di risparmiarlo come feci nel monastero di Maracaybo».

«Hanno sospeso il fuoco!…»

«Si ritengono certi di prenderci anche senza sprecare palle e polvere» disse Carmaux. «Contano sulla fame e più di tutto sulla sete, compare. Se posdomani nessuno viene in nostro aiuto o saremo costretti a tentare una sortita disperata o lasciarci morire d’inedia».

«Non aspetteremo quel momento» disse l’amburghese. «Usciremo finché avremo forza per lavorare colle spade».

Capitolo trentatreesimo. Fra il piombo ed il fuoco

Dopo quel primo scacco, gli spagnoli persuasi delle difficoltà che si presentavano nell’espugnazione di quell’edificio difeso da quei sessanta disperati, non avevano più rinnovato il tentativo.

La prima giornata era così trascorsa relativamente calma, ma l’assedio era stato convertito in un blocco strettissimo onde impedire ai filibustieri di invadere e saccheggiare le case vicine per provvedersi, se non di viveri, almeno d’acqua nelle cisterne dei cortili.

Anche durante la notte, gli assedianti si mantennero tranquilli attorno ai fuochi che avevano accesi in gran numero per far comprendere agli assediati che vegliavano rigorosamente.

Il secondo giorno le cose non variarono. Qualche colpo di cannone sparato contro la barricata, qualche scarica d’archibugi verso le finestre e null’altro.

Pierre le Picard cominciava ad impensierirsi. La corvetta doveva essere giunta fino dal giorno innanzi all’isola di Santa Caterina. Se non era tornata era segno che colà non doveva aver trovata l’avanguardia della squadra flibustiera.

Come continuare la resistenza?

Le tortillas erano finite, i fiaschi erano vuoti e la sete più che la fame cominciava a farsi sentire, specialmente a causa del gran caldo che regnava.

«La va male» brontolava Carmaux, che si affacciava ora ad una finestra ed ora ad un’altra colla speranza di veder gli spagnoli levare l’assedio. «Siamo in un bell’impiccio e se non facciamo un colpo di testa, creperemo di fame e di sete».

Già i più vecchi ed i più influenti avevano proposto a Pierre le Picard di tentare una sortita; ma il filibustiere che non disperava ancora, si era recisamente parendogli quella un’impresa troppo arrischiata.

«Sessanta e senza archibugio non riusciranno mai a vincerne quattro o cinquecento, armati anche di cannoni» aveva risposto. «Aspettiamo ancora. Forse gli aiuti sono già in viaggio».

Stava per calare la notte, quando Carmaux e Wan Stiller, che spiavano le mosse degli assedianti, notarono fra loro un movimento insolito.

Il numero dei soldati, soprattutto degli archibugieri, era aumentato e ai quattro pezzi della trincea se n’era aggiunto un quinto.

«Uhm!…» mormorò il francese, scuotendo la testa. «Temo che la notte non passerà liscia».

Fece chiamare Pierre le Picard e lo mise a parte dei suoi timori.

«Sì, si preparano ad un assalto decisivo» disse il filibustiere, dopo aver notato a sua volta il movimento che regnava fra gli assedianti.

«Signor Pierre» disse Carmaux, «mi viene un sospetto».

«E quale?»

«Che gli spagnoli siano stati avvertiti che si viene in nostro aiuto. È impossibile che l’avanguardia della flotta, che doveva partire dodici ore dopo di noi dalla Tortue, non sia ancora giunta a Santa Caterina. Sono trascorsi già tre giorni e non mi stupirei che fosse arrivato anche il capitano Morgan col grosso»

«Che tu sia un veggente, Carmaux?»

«Non è che una semplice supposizione, signor Pierre».

«Che io condivido. Prepariamoci ad una difesa disperata».

I corsari, avvertiti dei preparativi d’attacco che facevano gli spagnoli, si erano messi alacremente all’opera per prolungare la difesa il più possibile.

 

Accesero tutte le lampade, che erano ancora in buon numero; raccomodarono alla meglio la barricata, quindi coi mobili rimasti ne formarono una seconda sull’ultimo pianerottolo dello scalone, dinanzi alla porta della sala maggiore del secondo piano, dove intendevano opporre l’ultima difesa.

Avevano appena ultimati quei preparativi, quando i cinque pezzi della trincea tuonarono insieme con un rimbombo assordante, sfondando i rottami del portone.

Pierre le Picard aveva divisi i suoi uomini in due drappelli: uno doveva incaricarsi della difesa della scala, l’altro far fuoco dalle finestre nel caso che gli spagnoli tentassero qualche scalata.

I colpi di cannone si succedevano ai colpi, fracassando a poco a poco i mobili accumulati dinanzi alla scala.

Quella musica infernale durò un quarto d’ora, poi, quando la barricata crollò, una compagnia d’alabardieri, sostenuta da un grosso drappello di archibugieri, mosse risolutamente all’assalto dello scalone con urla formidabili.

Malgrado i colpi di pistola dei filibustieri, gli assalitori entrarono ben presto sotto l’atrio, occupandolo fortemente, e sgombrandolo dai rottami per far posto ad una seconda compagnia che si era formata per l’assalto decisivo.

I filibustieri, radunatisi sull’ultimo pianerottolo, li aspettavano colle spade in pugno.

Pierre le Picard era in prima linea ed incoraggiava i suoi uomini, gridando:

«Tenete duro!… I soccorsi stanno per giungere».

La compagnia d’assalto, entrata a sua volta, fece una scarica contro gli assediati gettandone a terra parecchi, poi si slanciò su per la scala colle picche in pugno.

Era il momento atteso dai filibustieri per riprendersi la rivincita. Con un urto poderso rovesciarono giù per la scala i mobili che avevano accumulato dinanzi la porta della sala maggiore, poi, approfittando della confusione e dello spavento che aveva colto gli spagnoli, vedendosi precipitare addosso quella valanga, si scagliarono a loro volta col ferro in mano, impegnando una mischia furiosa.

La loro discesa era stata così fulminea, che gli archibugieri rimasti sotto l’atrio non avevano avuto nemmeno il tempo di fare fuoco. Se li trovarono dunque addosso mentre la compagnia d’assalto, disorganizzata da quella tempesta di mobili che ne aveva uccisi parecchi e anche storpiati non pochi, scappava a tutte gambe.

Gli spagnoli, anche in quell’epoca, non erano uomini da cedere facilmente il passo e fecero animosamente fronte al poderoso assalto dei corsari, difendendosi disperatamente.

La lotta durava da qualche minuto con gravi perdite d’ambo te parti, quando si udì una voce gridare:

«Al fuoco!… Al fuoco!....»

La barricata si era incendiata, o forse era stata incendiata appositamente dagli assedianti, e fiamme vivissime si sprigionavano fra quell’ammasso di rottami, sollevando fra i combattenti una barriera ardente.

«In ritirata!…» aveva urlato Pierre le Picard, che era uscito incolume da quella lotta sanguinosa.

I filibustieri che si sentivano avvolgere dal fumo, risalirono precipitosamente la scala, mentre le fiamme si comunicavano alle tappezzerie ed ai tendaggi delle vicine porte.

Un’ondata di fumo e di scintille, spinta dalla corrente d’aria che entrava per il portone, s’allungava su per la scala.

«Ci bruciano vivi!» gridò Carmaux. «Chiudete la porta della sala o soffocheremo».

Fu subito obbedito, ma ormai l’incendio si propagava rapidamente per le sale inferiori.

I corsari si contarono rapidamente: erano ancora in quarantadue. Diciotto erano rimasti sulla scala e nell’atrio uccisi dalle scariche di moschetteria e dalle alabarde.

«Amici» disse Pierre le Picard «non ci rimane che di saltare dalle finestre e morire vendendo cara la pelle. Sfondiamo una inferriata e mostriamo agli spagnoli come sanno cadere i filibustieri della Tortue».

Nella sala erano rimasti ancora alcuni mobili assai pesanti, fra cui una lunga tavola.

Venti braccia la sollevarono e servendosene come d’una catapulta percossero poderosamente una delle inferriate, rinnovando l’urto per tre volte di seguito.

Al quarto le sbarre, strappate dal loro alveolo, caddero sulla piazza.

«Io apro la via» gridò Pierre, mentre il fumo, passando fra le fessure, stava per invadere la sala.

Misurò l’altezza: non vi erano che cinque metri, un’inezia per quegli uomini che avevano dell’agilità da vendere.

Pierre impugnò la spada, e per il primo saltò, cadendo in piedi.

Aveva appena toccato terra e si preprava ad avventarsi contro i nemici, quando un rimbombo assordante echeggiò verso la baia. Pareva che venti o trenta cannoni avessero fatto fuoco contemporaneamente.

Pierre aveva mandato un urlo di gioia:

«Ecco la nostra squadra!… Saltate, amici!…»

Si guardò intorno: non vi erano più spagnoli sulla piazza.

Udendo quegli spari che annunciavano l’arrivo d’altri filibustieri, si erano affrettati a porsi in salvo sulla via di Panama per rifugiarsi forse nella formidabile rocca di S. Felipe.

Anche gli abitanti fuggivano all’impazzata verso i boschi, fra le urla delle donne ed i pianti dei bambini.

I corsari, che temevano di veder sprofondare il pavimento della sala, saltarono tutti, compresi Carmaux e Wan Stiller.

Pierre le Picard organizzò la sua banda e mosse velocemente verso la rada. Le cannonate erano cessate e si udivano invece gli urrà strepitosi degli equipaggi.

Quando il drappello giunse sulla gettata, dieci scialuppe cariche di gente armata vi giungevano.

Un uomo sbarcò per il primo e mosse verso Pierre, dicendogli:

«Sono ben lieto di essere giunto in tempo per salvarti».

Era Morgan.