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Jolanda, la figlia del Corsaro Nero

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Capitolo quinto. La presa di Maracaybo

Le ventiquattro ore erano trascorse senza che notizia alcuna fosse giunta alla flotta filibustiera, che non aveva lasciato il suo ancoraggio; peggio ancora, nemmeno la scialuppa aveva fatto ritorno, quantunque il mare si fosse mantenuto sempre calmo e il vento non avesse cessato di soffiare.

Una profonda commozione si era impadronita dei cinquecento corsari che equipaggiavano la flotta, temevano che gli spagnoli di Maracaybo non avessero rispettata la bandiera bianca inalberata sulla scialuppa, ciò che altre volte era accaduto.

Anche Morgan, di solito così calmo, cominciava a dar segni non dubbi d’una viva irritazione, passeggiando sulla coperta con passo agitato e la fronte corrugata.

Carmaux e Wan Stiller erano addirittura furiosi. «Sono stati presi ed impiccati» ripeteva il primo. «Non rispettano nemmeno i nostri parlamentari. Eppure siamo belligeranti patentati, essendo la Spagna in guerra colla Francia e coll’Inghilterra».

«Il capitano li vendicherà, amico Carmaux» rispondeva l’amburghese.

«Raderemo Maracaybo al suolo. Questa volta non la risparmieremo, come quando ci siamo andati col Corsaro Nero e coll’Olonese».

Altre dodici ore trascorsero in continue impazienze ed in attese vane. Già Morgan, d’accordo con Pierre le Picard, suo secondo nel comando della squadra, si accingeva a dare il comando di salpare le àncore, quando agli ultimi raggi del sole fu scorto un piccolo canotto indiano montato da un solo uomo e che arrancava faticosamente, cercando d’imboccare la piccola baia.

Gli fu mandata incontro una scialuppa montata da dodici uomini, e venti minuti dopo quell’uomo si trovava a bordo della nave ammiraglia, dinanzi a Morgan.

Un grido di sorpresa e di rabbia era sfuggito a tutti i marinai, riconoscendo in lui uno degli otto filibustieri incaricati di scortare il piantatore.

«Dove sono i tuoi compagni?» chiese Morgan, dopo d’averlo lasciato vuotare una tazza di rum, tanto quel povero diavolo appariva sfinito dalla fatica.

«Impiccati, capitano» rispose il filibustiere. «Essi penzolano da sette forche erette sulla Plaza Maior di Maracaybo, nell’istesso luogo ove diciott’anni or sono fu preso il Corsaro Rosso, il fratello del signore di Ventimiglia».

Un lampo terribile era guizzato negli occhi dell’Almirante della squadra.

«Impiccati! …» gridò con voce terribile.

«Per ordine del governatore».

«Malgrado la bandiera bianca?»

«Che hanno subito stracciata sotto i nostri occhi, dopo averci fatti sbarcare e averci accolti come parlamentari».

«E non vi siete difesi?»

«Ci avevano prima invitati a deporre le armi, promettendo di rispettarci come messi di pace».

«Miserabili!… E perché ti hanno risparmiato?»

«Perché vi recassi la risposta del governatore».

«L’hai?»

«Eccola» disse il filibustiere levandosi dalla fascia di lana che gli cingeva i fianchi, un biglietto.

Morgan se ne impadronì vivamente, gettandovi sopra gli occhi.

Non conteneva che due righe:

«Aspetto a Maracaybo i filibustieri della Tortue per impiccarli tutti.

Il governatore della piazza».

Morgan stracciò con ira il biglietto, poi rivolgendosi al marinaio, chiese:

«Ti ha detto nulla della figlia del cavaliere di Ventimiglia?»

«Sì, che andate a prenderla, se ne avete il coraggio».

«E la prenderemo» rispose Morgan.

Poi, con voce tuonante, in modo da poter essere udito anche dai marinai delle altre navi, gridò:

«Si salpino le àncore e si sciolgano le vele. Prima di domani sera Maracaybo sarà nostra».

Un urlo immenso, alzatosi su tutte le navi, rispose:

«A Maracaybo!… A Maracaybo!…»

Mezz’ora dopo le otto navi lasciavano la baia, veleggiando verso il golfo. La Folgore – che era la nave di Morgan, così battezzata a ricordo della valorosa nave del Corsaro Nero – apriva la via.

Era la più grossa di tutte, una fregata a tre alberi, armata di trentasei cannoni di grosso calibro, fra cui alcuni pezzi da caccia e montata da ottanta uomini che nulla temevano.

Le altre, che erano quasi tutte caravelle predate agli spagnoli, ma armate di numerosi pezzi di cannone, di petriere e di grosse spingarde, la seguivano in una doppia colonna, tenendosi ad una distanza di cinque o seicento metri l’una dall’altra, onde aver campo sufficiente per manovrare senza correre il pericolo d’investirsi.

Tutte avevano i fanali spenti. Tuttavia, quantunque la luna mancasse, la notte era abbastanza chiara, essendo l’aria delle regioni tropicali ed equatoriali d’una purezza straordinaria.

Morgan, che si trovava sul ponte di comando, scrutava attentamente l’orizzonte, essendogli stato riferito giorni innanzi che tre grosse navi spagnole avevano lasciati i porti di Cuba per dargli la caccia e assalirlo prima che tentasse qualche altra impresa contro le città del continente.

Carmaux, che era il suo fido, si trovava con lui e scambiavano qualche parola.

«Mi viene però un dubbio, capitano» disse Carmaux.

«E quale?»

«Che il governatore, conoscendo lo scopo della nostra spedizione e sapendoci vicini, approfitti del nostro ritardo per far trasferire altrove la figlia del signor di Ventimiglia».

Una ruga profonda si era disegnata sull’ampia fronte di Morgan.

«Se non ritrovassi quella fanciulla» disse con voce minacciosa, «non darei una piastra di tutte le pelli degli spagnoli di Maracaybo. Tu sai che so essere gentiluomo come il signor di Ventimiglia; ma anche tremendo ed implacabile come Pietro l’Olonese, che fu il più feroce e spietato filibustiere della Tortue».

«Quel cane di governatore, che mi fu dipinto come un uomo avidissimo e che fu un tempo amico intimo del duca Wan Guld, il suocero del signor di Ventimiglia, sarebbe capace di farla scomparire».

«Sventura a lui. Come il Corsaro Nero fu implacabile contro il duca, io non lo sarò meno col governatore di Maracaybo e lo perseguiterei fino alla morte. Ah! Se la figlia del nostro vecchio condottiero ci avesse avvertiti del suo arrivo in America, gli spagnoli non l’avrebbero presa. Tutti i più celebri filibustieri della Tortue si sarebbero tenuti onorati di scortarla e di proteggerla. È strano che non si sia ricordata che suo padre contava fra noi un numero così immenso di amici e di camerati devoti e che ignorasse che alla Tortue egli possiede ancora una villa e delle piantagioni che io solo amministro da diciassette anni».

«Forse era sua intenzione di giungere fra noi improvvisamente e, senza l’incontro colla fregata spagnola che ha catturata la nave olandese, sarebbe già la regina della Tortue».

«Ah!… Guarda Carmaux!…»

«Che cosa, capitano?»

«Dei fanali laggiù che navigano verso il nord».

«Che siano i tre vascelli che sono incaricati di darci la caccia? Ho udito a raccontare che sono navi grosse, d’alto bordo, equipaggiate da biscaglini e capaci d’affrontare una squadra ben più numerosa della nostra. In guardia con quei lupi, capitano».

«Quei fanali vanno verso il settentrione, quindi non li incontreremo sulla nostra rotta» rispose Morgan.

«Purché non facciano rotta falsa, per poi piombarci alle spalle quando saremo impegnati coi cannoni del forte della Barra a Maracaybo» disse Carmaux.

«Giungeranno troppo tardi. Va ad avvertire Pierre le Picard di stringere contro la costa e fa chiamare in coperta tutti gli uomini».

Mentre venivano eseguiti i suoi ordini, Morgan seguiva attentamente cogli sguardi i sei punti luminosi che continuavano ad allontanarsi dal golfo di Maracaybo, anziché accorrere in difesa della città. Quando li vide scomparire sul fosco orizzonte, respirò liberamente e la ruga che si delineava sulla fronte, scomparve.

«Se torneranno, giungeranno a cose finite» mormorò. «Quando sorgerà l’alba, noi saremo sotto il forte della Barra e vedremo se gli spagnoli resisteranno a lungo».

Le otto navi che formavano la squadra si erano ripiegate verso la costa, stringendo il vento il più possibile. Già l’isola di Zapara era in vista sulle sue spiagge non brillava nessun fuoco che annunciasse qualche sorveglianza da parte degli spagnoli.

Mancava qualche ora all’alba, quando la squadra, ancora da nessuno avvistata, entrava a gonfie vele nella laguna di Maracaybo, passando fra la penisoletta di Sinamaica e la punta occidentale di Tablayo.

Tutti gli uomini erano già ai loro posti di combattimento, dietro le brande accumulate sui bastingaggi o nelle batterie dietro ai pezzi, ed i comandanti sui ponti col portavoce in mano.

«Carmaux» disse Morgan che fissava il forte della Barra, già in vista. «Dà ordine ai nostri artiglieri di non far fuoco, anche se gli spagnoli ci bombardano.

Cominciavano a diradarsi le tenebre, quando la squadra comparve improvvisamente nelle acque battute dal forte, disposta su una sola linea, colla Folgore nel centro.

L’allarme era stato già dato e l’intera guarnigione era uscita frettolosa dalle casematte per accorrere sugli spalti del castello. Quei soldati dovevano però essere ben sorpresi di vedersi piombare addosso, all’improvviso, quella squadra che non era stata fino allora segnalata nemmeno dalle caravelle incaricate della vigilanza della bocca della laguna.

Probabilmente il governatore, non credendo alla minaccia di Morgan, non si era preso nemmeno il fastidio di avvertire il comandante del forte di prepararsi alla difesa.

Gli spagnoli però non si perdettero d’animo ed accolsero la squadra con un furioso cannoneggiamento, credendo di affondarla facilmente o per lo meno di costringerla a tornare nel golfo.

Avevano però da fare con gente che non s’inquietava gran che delle cannonate.

Malgrado quella grandine di palle, le navi corsare continuavano tranquillamente ad accostarsi, senza prendersi la briga di rispondere.

 

Qualche albero e qualche pennone cadeva, qualche murata si sfasciava qualche filibustiere venivano mutilato o fulminato da quelle incessanti scariche, eppure nessuno osava trasgredire l’ordine dato da Morgan, tanto era ferrea la disciplina che regnava sui vascelli corsari.

Già la Folgore non si trovava che a due gomene dalla spiaggia e si preparava a calare in mare le scialuppe, quando tutto quel furioso cannoneggiamento come per incanto cessò.

Diradatosi il fumo che ondeggiava sugli spalti, gli equipaggi con loro grande stupore non scorsero più nessun uomo dietro alle artiglierie.

«Che cosa vuol dir ciò?» si chiese Morgan, che non aveva abbandonato per un solo istante il ponte di comando. «Che si arrendano? Eppure ritenevano questo forte inespugnabile. Pierre le Picard!…»

Il filibustiere che portava quel nome e che, come abbiamo detto, aveva il comando in seconda e che godeva fama di essere uno dei più intrepidi Fratelli della Costa, lasciò la ribolla del timone, raggiungendo il comandante.

«Che cosa ne pensi tu di questo improvviso silenzio?» gli chiese Morgan. «Che nasconda qualche sorpresa?»

«Vado ad assicurarmene» rispose il filibustiere, senza esitare. «Datemi quaranta uomini, tenetene pronti altri cento e do la scalata al forte».

Le scialuppe erano state già calate in acqua. Il filibustiere scelse i suoi uomini e vogò verso terra, mentre le altre navi si preparavano a sbarcare parte dei loro equipaggi, onde appoggiarlo nell’ardimentosa impresa.

Morgan, che temeva una sorpresa, fa scaricare tutti i venti cannoni di tribordo, tempestando le difese avanzate del castello, ma nessuno rispose, né alcun soldato si mostrò.

I quaranta corsari della Folgore, sbarcati a terra, presero a scalare le rocce, armati solamente d’una pistola e d’una corta sciabola, lottando in celerità per giungere primi. Giunti sotto le mura scagliarono fra i merli alcune granate mandandole a scoppiare al di là delle cinte, poi montando gli uni sulle spalle degli altri, si arrampicarono sulla cinta esterna e la scalarono mandando urla terribili.

Non trovano altro che i cannoni e pochi fucili abbandonati dal nemico nella sua precipitosa ritirata. Il presidio, credendo di non poter arrestare i corsari e spaventato dal numero delle navi, si era ritirato precipitosamente in Maracaybo, accontentandosi di mettere una miccia accesa al magazzino delle polveri, perché con esse saltassero in aria anche i nemici.

Fortunatamente i corsari non erano ancora entrati nel forte quando lo scoppio avvenne.

Crollarono con immenso fracasso le casematte, le merlature e parte delle muraglie, aprendo qua e là delle enormi breccie, senza però danneggiare l’equipaggio della Folgore.

Udendo quel rombo spaventevole e vedendo innalzarsi quella colonna di fumo, i marinai delle altre navi si erano affrettati a prendere terra per accorrere in aiuto dei loro camerati che credevano di trovare malconci e anche alle prese cogli spagnoli, e furono invece accolti da altissime grida di vittoria.

Morgan, informato della ritirata del presidio, decise senz’altro d’investire la città, prima che i suoi abitanti potessero rifugiarsi nei boschi e mettere in salvo i loro tesori.

Lo scoppio del forte aveva già sparso il terrore fra quella disgraziata popolazione, che aveva già provati gli orrori del saccheggio, compiuto vent’anni prima dai filibustieri del Corsaro Nero, di Pietro l’Olonese e di Michele il Basco.

Invece di prepararsi alla difesa tutti gli abitanti si erano dati a fuga precipitosa nei boschi vicini, portando con sé quanto aveva di meglio, e anche fra i soldati della guarnigione regnava un panico, che la presenza del governatore e dei suoi ufficiali non bastava a dissipare.

Il nome di Morgan, l’espugnatore di Portobello, faceva titubare i più vecchi soldati, che pur avevano date tante prove di valore sui campi dell’Europa e che avevano conquistati e rovesciati imperi, come quelli degli Aztechi nel Messico e degli Incas nel Perù.

I filibustieri, lasciati pochi uomini a guardia della squadra e saliti sulle scialuppe, si accostarono velocemente alle banchine del porto. Morgan era alla loro testa con Pierre le Picard, Carmaux e Wan Stiller.

Vedendoli sbarcare, gli spagnoli, che erano pure in buon numero e che avevano innalzate frettolosamente delle trincee, avevano aperto un violentissimo fuoco di moschetteria, mentre i due fortini che proteggevano la città dal lato di terra, facevano rombare i loro grossi cannoni. Era però ormai troppo tardi per arrestare quei filibustieri, che le possenti e numerose artiglierie del forte della Barra non avevano saputo trattenere né schiacciare.

I bucanieri, che si trovavano sempre in buon numero sulle navi corsare e che, in quell’epoca, erano i migliori bersaglieri del mondo, con scariche ben aggiustate, avevano ben presto costretto il presidio ad abbandonare le trincee ed a salvarsi con una fuga più che precipitosa.

Dieci minuti dopo, le bande di Morgan irrompevano nelle vie della disgraziata città, invadendo le case e uccidendo senza misericordia quanti tentavano di opporre resistenza.

Capitolo sesto. Don Raffaele

Mentre i filibustieri s’abbandonavano al saccheggio, Morgan con una cinquantina dei suoi marinai si era diretto verso il palazzo del governo, dove sperava di sorprendere ancora il governatore e dove supponeva di trovare qualche resistenza.

Non vi era invece più nessuno. Tutti erano fuggiti, lasciando il portone spalancato ed il ponte levatoio abbassato.

Solo sette forche, dalle quali pendevano i sette corsari che avevano accompagnato il piantatore, facevano triste mostra, proprio nel mezzo dell’ampia e deserta piazza.

Nello scorgerli, un urlo di rabbia era scoppiato fra il drappello di Morgan.

«Bruciamo il palazzo del governatore!… Vendetta, capitano, vendetta!… Trucidiamo tutti!…»

Pierre le Picard, che faceva parte del drappello, gridò:

«Portate qui due barili di polvere e facciamo saltare il palazzo!…»

Già degli uomini stavano per slanciarsi in varie direzioni, quando un comando breve ma energico di Morgan li arrestò.

«Sono io che comando qui!… Chi si muove è uomo morto!…»

Il filibustiere si era gettato fra la turba furibonda, colla spada nella destra e una pistola nella sinistra.

«Insensati!…» urlò. «Che cosa siamo venuti a far qui? E non pensate che forse in questo palazzo, in qualche antro segreto si trova la figlia di cavalier di Ventimiglia? Volete ucciderla per una stupida vendetta?»

A quelle parole l’ira furibonda dei filibustieri era improvvisamente sbollita. Chi poteva assicurare che il governatore, prima di fuggire, non avesse nascosta in qualche sotterraneo la fanciulla, per la cui salvezza avevano tentato quell’ardito colpo di mano?

«Invece di gridare come oche» disse l’almirante della flotta corsara, «cercate di fare quanti prigionieri potete. Qualcuno saprà dirci dove si trova la figlia del Corsaro Nero.

«Questo si chiama parlare d’oro» disse Carmaux che faceva parte del drappello. «Ehi, amburghese, dove sei?»

«Eccomi, compare» rispose Wan Stiller.

«In caccia, amico mio. Cerchiamo di prendere qualche pezzo grosso».

Mentre Morgan entrava con parecchi dei suoi ufficiali nel palazzo del governo, per frugarlo da cima a fondo, e gli altri si disperdevano in varie direzioni per procurarsi dei prigionieri, Carmaux e l’amburghese, che conoscevano sufficientemente la città essendovi stati già due volte col Corsaro Nero molti anni prima, presero un viottolo che serpeggiava fra le muraglie di alcuni giardini.

«Dove mi conduci?» chiese l’amburghese, dopo aver percorso un centinaio di passi, senza aver incontrato alcuno. «Non è da questa parte che fuggono gli abitanti».

«Voglio andare a fare una visita alla taverna El Toro» rispose Carmaux. «Scommetterei una piastra contro un doblone di Spagna che troveremo qualcuno da quelle parti».

«I nostri non devono ancora essere giunti fino là».

«Infatti non odo alcun colpo di fucile echeggiare verso la laguna».

«Allunga il passo, amburghese».

I filibustieri della squadra, che avevano appena allora cominciato il saccheggio, si trovavano ancora nei sobborghi, che si prolungavano dietro il forte della Barra e non erano giunti ancora nel cuore della città.

Da quella parte si udivano clamori spaventevoli, seguìti da qualche scarica di fucili e si vedevano alzarsi anche delle colonne di fumo. Nei giardini e nelle case adiacenti, regnava invece un silenzio assoluto. La popolazione doveva aver approfittato della breve resistenza opposta dalle truppe, per sgombrare precipitosamente, salvandosi nei boschi o sulle isole della laguna.

Carmaux e l’amburghese, di quando in quando scorgevano bensì qualche uomo o qualche donna attraversare velocemente i giardini, ma non si prendevano la briga di dare loro la caccia.

Correvano da dieci minuti, quando si trovarono su una piazzetta all’estremità della quale, dinanzi ad una porta, pendevano due enormi corna.

«La taverna» disse Carmaux.

«Sì, la riconosco dall’insegna» rispose l’amburghese.

«Pare che anche qui tutti abbiano sgombrato».

«Taci!…»

«Che cos’hai?»

«Qualcuno s’avvicina».

Presso la taverna s’apriva una via e da quella parte si udivano delle persone avanzarsi, correndo disperatamente.

«Attento amburghese» gridò Carmaux, slanciandosi da quella parte.

Aveva appena raggiunto l’angolo, quando un uomo gli cadde fra le braccia. Carmaux fu pronto a stringerselo al petto, gridandogli con voce minacciosa:

«Arrenditi!…»

Nel medesimo istante otto o dieci negri che correvano all’impazzata, carichi di pacchi voluminosi, urtarono l’amburghese così violentemente da mandarlo a gambe levate, prima ancora che avesse potuto alzare il moschetto.

«Tuoni d’Amburgo!…» aveva esclamato Wan Stiller. «Mi accoppano!…»

Udendo quella voce, l’uomo che era caduto fra le braccia di Carmaux aveva alzato il capo, lasciandosi sfuggire subito un grido d’angoscia.

«Sono morto!…»

Carmaux era scoppiato in una risata fragorosa.

«Ah!… Il piantatore!… Che bell’incontro!… Come state señor Raffaele?…»

Il disgraziato piantatore, sentendosi allentare la stretta, aveva fatto due passi indietro, ripetendo con voce strozzata:

«Sono morto!… Sono morto!…»

«È dunque una vera mania che avete di credervi sempre morto?» chiese Carmaux che non cessava di ridere. «Eppure mi sembra che scoppiate per troppa salute».

«Toh!» esclamò in quel momento Wan Stiller, che si era alzato. «Chi vedo?… Il piantatore?… Buona presa, Carmaux!»

Don Raffaele, muto per il terrore, guardava or l’uno or l’altro, tirandosi i capelli.

«Ohimè!…» sospirò il piantatore. «Mi impiccherete per vendicare i vostri camerati, che il governatore ha fatto appendere alle forche della Plaza Mayor».

«Non siete stato voi».

«Lo so, però il vostro comandante potrebbe crederlo».

«Bah!… Bah!…» fece Carmaux, che si divertiva immensamente e che faceva sforzi sovrumani per conservarsi serio. «Coraggio, signor mio; ecco là Wan Stiller che porta in trionfo quattro bottiglie, che devono essere state turate ai tempi di papà Noè. Perbacco!… Che fiuto che ha quell’amburghese!… Ha scoperto la cantina di colpo!…»

Carmaux aveva preso per un braccio ben stretto il piantatore, onde non gli scappasse, quando a breve distanza rimbombarono alcuni colpi di archibugio e da una via laterale sbucarono a corsa sfrenata parecchi abitanti, che portavano sulle spalle dei grossi involti contenenti probabilmente le loro ultime ricchezze.

«Misericordia!…» esclamò il piantatore. «Ci uccidono!…»

«Ragione di più per rifugiarci nella taverna» disse Carmaux. «Non si sa mai!… Una palla può deviare e fare scoppiare anche la vostra pancia».

Lo spinse violentemente entro la taverna, dove l’amburghese stava decapitando, colla sua corta sciabola, le quattro bottiglie.

La sala era deserta, ma tutto era sotto sopra. La grande tavola dove avevano combattuto i galli giaceva colle gambe all’aria, i tavolini erano addossati alla rinfusa contro le pareti; gli sgabelli ingombravano il pavimento assieme a vasi e bottiglie infrante.

Pareva che il proprietario, prima di fuggire, avesse cercato di spezzare quanto non aveva potuto portare con sé.

«Purché sia rimasta salva la cantina, poco importa» disse Carmaux. «È così, amburghese?»

«Vero Alicante» rispose Wan Stiller, facendo schioccare la lingua da buon intenditore. «È proprio di quello che abbiamo bevuto la sera del combattimento dei gatti.

«Bada che gli altri non vengano a vuotarcele, perché non ho trovate che queste bottiglie. Quel mascalzone di taverniere ha fracassato tutto nella cantina. Imbecille!»

 

Riempì un bicchiere trovato per miracolo ancora intatto e lo offrì al piantatore, dicendogli:

«Elisir di lunga vita, signor spagnolo. È di quello, ve ne ricordate?»

Don Raffaele, che si sentiva tremare le gambe, lo vuotò d’un fiato borbottando un grazie.

«Un altro» disse Carmaux, mentre l’amburghese si metteva alle labbra una delle quattro bottiglie.

«Volete ubriacarmi una seconda volta per poi impiccarmi?» chiese don Raffaele.

«Ve l’ha detto qualcuno che il capitano Morgan ha decretato la vostra morte?» chiese Carmaux, con voce grave.

«Sono un moribondo, dunque?» urlò don Raffaele, diventando livido. «Vuole vendicare su di me la morte dei suoi sette marinai?»

Carmaux lo guardò per qualche istante in silenzio, aggrottando a più riprese la fronte, poi disse:

«Sta in voi salvarvi».

«Che cosa devo fare? Ditemelo! Io sono ricco, posso pagare un grosso riscatto al vostro capitano…»

«Quello lo pagherete a noi, mio caro signore» disse Carmaux, «essendo stati noi a farvi prigioniero; ma per ora non è questione di danaro, bensì di pelle».

«Spiegatevi meglio» disse don Raffaele, che cominciava a respirare più liberamente. «Non ho alcun desiderio di ballare un fandango all’estremità d’una corda».

«Allora rispondete e pesate bene le vostre parole» disse Carmaux, che tutto d’un tratto era diventato minaccioso. «Dove è stata nascosta la signora di Ventimiglia?»

«Come!» esclamò il piantatore, facendo un gesto di sorpresa. «Non l’avete ancora trovata?»

«No».

«Eppure io non l’ho veduta a fuggire col governatore».

«Ah! Ha preso il largo quel brav’uomo!» esclamò Wan Stiller con voce ironica.

«Assieme ai suoi ufficiali e su buoni cavalli» rispose don Raffaele. «A quest’ora deve essere ben lontano e sarete ben bravi se riuscirete a raggiungerlo».

«E non vi era con lui la figlia del Corsaro Nero?»

«No».

«Don Raffaele!» gridò Carmaux, picchiando sulla tavola un pugno così formidabile da far saltare le bottiglie. «Badate che giuocate la vostra vita».

«Lo so ed è per questo che io non cercherò d’ingannarvi».

«Allora si trova ancora qui?»

«Ne sono più che certo».

«O che sia stata uccisa?» chiese Carmaux impallidendo.

«Non credo, che il governatore abbia avuto il coraggio di lordarsi le mani del proprio sangue».

«Che cosa dite?» chiesero ad una voce i due filibustieri.

Il piantatore si morse le labbra come se si fosse pentito di essersi lasciate sfuggire quelle parole, poi alzando le spalle disse:

«Io non ho giurato di mantenere il segreto e poi la mia vita si trova nelle vostre mani ed io ho il diritto di difenderla come meglio posso».

Carmaux tracannò un sorso d’Alicante, poi incrociando le braccia e piantando gli occhi in viso al piantatore, disse:

«Don Raffaele, spiattellate. Di quale sangue parlavate?»

«Avrete la pazienza di ascoltarmi?»

Carmaux stava per rispondere, quando alcuni colpi di fucile rimbombarono sulla piazza e parecchie persone passarono correndo dinanzi alla taverna, gettandosi verso le vicine ortaglie.

Cinque o sei filibustieri, che avevano in mano gli archibugi ancora fumanti, vedendo l’insegna del Toro, si erano affacciati alla porta della taverna, urlando:

«Una cantina! Hurrà! Buchiamo le botti!»

Carmaux si slanciò verso di loro coll’archibugio in mano, gridando:

«Indietro, camerati!»

«Toh!» esclamò uno di quei corsari. «I due inseparabili!… Volete bere tutto voi?… Satanasso!… Lo spagnolo che ha fatto impiccare i nostri compagni!… Abbruciamolo vivo!…»

«È nostro prigioniero» gridò Carmaux.

«Fosse anche del diavolo, io non me ne andrò se prima non gli avrò bucato il ventre» disse un altro corsaro. «Largo, camerata! Quell’uomo appartiene alla giustizia dei Fratelli della Costa».

Il povero don Raffaele, che era diventato paonazzo dal terrore, si era rifugiato dietro la tavola, cercando di farsi più piccino che poteva.

«Levatevi dai piedi!» urlò Carmaux, puntando risolutamente l’archibugio verso i filibustieri che si spingevano l’un l’altro per entrare. «Quest’uomo è una preda dell’almirante».

Udendo quelle parole, i corsari si arrestarono titubanti, poi volsero le spalle allontanandosi di corsa, tanto era il terrore che esercitava Morgan anche su quell’accozzaglia di scorridori del mare, che pur non riconoscevano né leggi, né governo.

«Parlate, ora» disse Carmaux, tornando verso il piantatore. «Nessuno verrà più a disturbarci».

Don Raffaele bevette d’un fiato un bicchiere d’Alicante, per riprendere coraggio, poi disse:

«L’istoria che io sto per narrarvi è un segreto che solo pochissimi spagnoli conoscono e che voi ignorate. Vorrei però sapere, prima di cominciarla, quale causa dell’odio implacabile che regnava fra il Corsaro Nero, signor di Ventimiglia, ed il duca Wan Guld, un tempo governatore di questa città.

«Voi che siete stati marinai e forse confidenti del terribile corsaro, che tanto male ha recato alle nostre colonie, dovete saperne qualche cosa e ciò schiarirebbe forse l’odio che il governatore attuale nutre ora per la giovine figlia di quello scorridore del mare».

«Come!» esclamò Carmaux. «Il governatore odia la figlia del Corsaro Nero? Non è dunque solo l’interesse che lo ha spinto a farla prigioniera?»

«No, è odio di sangue» disse don Raffaele, con voce grave. «Se il duca è morto ha lasciato un vendicatore che non sarà meno implacabile di lui».

«Che cosa mi narrate voi?» disse Carmaux, spaventato.

«Rispondete alla domanda che vi ho fatta, poi io mi spiegherò meglio».