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Jolanda, la figlia del Corsaro Nero

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Capitolo settimo. Il monastero dei Carmelitani

Carmaux, che pareva in preda ad una vivissima agitazione, stette qualche istante silenzioso guardando il piantatore, poi disse:

«L’odio fra il Corsaro Nero ed il duca di Wan Guld risale circa a venticinque anni fa e non ebbe principio in America, bensì nelle Fiandre. I signori di Ventimiglia erano allora in quattro fratelli e combattevano fra le truppe dei duchi di Savoia, alleati della Francia, contro la Spagna. Belli tutti, valorosi, audaci, godevano fama d’essere i più nobili gentiluomini del Piemonte. Un giorno essi vennero assediati in una rocca fiamminga da un numero strabocchevole di spagnoli, assieme al loro reggimento che era comandato dal duca di Wan Guld. Resistevano tenacemente da alcune settimane, combattendo come leoni, quando una notte il nemico entrava nella rocca a tradimento e se ne impossessava, dopo d’aver ucciso uno dei quattro fratelli che era accorso a contrastargli il passo. Un uomo aveva venduta la rocca ed aveva aperte le porte: quel miserabile era il duca di Wan Guld».

«Avevo udito a parlare vagamente di quella storia» disse don Raffaele. «Continuate».

«Il duca, per sfuggire all’ira dei signori di Ventimiglia, aveva chiesto al governo spagnolo un posto nelle colonie dell’America ed era stato nominato governatore di questa città».

«Era il prezzo del tradimento» disse l’amburghese, picchiando il pugno sulla tavola.

«Il duca» proseguì Carmaux, «credeva di essere stato dimenticato dai signori di Ventimiglia, ma s’ingannava. Non erano ancora trascorsi sei mesi da che aveva assunto il suo posto, quando comparvero alla Tortue tre navi, montate dai tre fratelli piemontesi. Erano il Corsaro Nero, il Verde ed il Rosso, i quali avevano giurato di non lasciar più pace al traditore e di vendicare il fratello assassinato nella rocca».

«Conosco il seguito» disse don Raffaele. «Dopo varie vicende, il duca riusciva a catturare ed impiccare il Corsaro Verde e poi il Rosso, mentre il Nero, senza saperlo, s’innamorava della figlia del suo mortale nemico, che egli credeva fosse una principessa fiamminga».

«Sì, è così» rispose Carmaux. «E quando il Corsaro Nero, che aveva giurato, sui cadaveri dei fratelli, di sterminare senza misericordia tutti coloro che portavano il nome del traditore, seppe che la fanciulla che amava era la figlia del duca, pur piangendo, l’abbandonò sola fra le onde in una scialuppa, quando la tempesta stava per scoppiare sul golfo del Messico. Dio però vegliava sulla fanciulla e la scialuppa, invece di venire assorbita dai gorghi, andava a naufragare sulle coste meridionali della Florida, abitate da una tribù di Caraibi, i quali, sedotti dalla bellezza meravigliosa della naufraga, invece di divorarla la proclamarono la loro regina».

«Ed il Corsaro uccise il duca, è vero?» chiese don Raffaele.

«No, perché venuti all’abbordaggio alcuni mesi dopo, appunto nelle acque della Florida, il vecchio traditore, piuttosto di cadere vivo nelle mani del suo nemico, dava fuoco alle polveri inabissandosi colla propria nave fra i baratri del Golfo del Messico».

«Il Corsaro era già a bordo di quella nave?»

«Sì, e anche noi» disse Carmaux, «avevamo già espugnato il vascello del duca, quando l’esplosione ci scaraventò in mare assieme al Corsaro. Salvatici su alcuni rottami, per una fortunata combinazione, due giorni dopo approdavamo sulle coste della Florida, dove venivamo fatti prigionieri dai sudditi della duchessa, la regina dei Caraibi. Se non ci mangiarono fu perché la figlia di Wan Guld ci aveva riconosciuti a tempo e perché non si era spenta ancora in lei l’affezione profonda che nutriva per il Corsaro».

«E non si vendicò?» chiese don Raffaele.

«Tutt’altro, perché una sera s’imbarcarono insieme su una scialuppa e per molti anni non si seppe più nulla di loro. Più tardi un filibustiere italiano ci narrò come il Corsaro e la giovane duchessa erano stati raccolti al largo da una nave inglese in rotta per l’Europa e condotti in Piemonte, dove si erano sposati.

«La loro felicità, come forse avrete saputo anche voi, fu breve. Dieci mesi dopo, la duchessa moriva dando alla luce una bambina e l’anno seguente il Corsaro, che non poteva rassegnarsi alla perdita della sua compagna, si faceva uccidere sulle Alpi, combattendo contro i francesi che avevano invasa la Savoia e che minacciavano il Piemonte».

«Sì, è così» disse don Raffaele. «Il governatore di Maracaybo era stato esattamente informato».

«Perché s’interessava tanto del Corsaro?» chiese Carmaux con sorpresa.

«Perché aveva ricevuto da suo padre una terribile missione».

«Quale?»

«Di vendicarlo».

«Ma chi era dunque suo padre?»

«Il duca di Wan Guld».

Un grido di stupore era sfuggito dalle labbra di Carmaux e di Wan Stiller. Entrambi erano balzati in piedi, in preda ad una vivissima agitazione.

«Il duca ha lasciato un figlio!» avevano esclamato.

«Sì, un figlio avuto da una marchesa messicana ed a cui fu imposto il nome di conte di Medina e Torres; non potendo assumere quello del padre».

«Ed è lui il governatore di Maracaybo?» chiese Carmaux.

«Sì, fu lui a far prigioniera Jolanda di Ventimiglia, la figlia del Corsaro Nero». disse il piantatore «Dai suoi agenti, che aveva mandati in Italia per spiare il Corsaro e, possibilmente, anche per ucciderlo, ciò che sarebbe certo a quest’ora avvenuto, egli seppe che la giovane si era imbarcata su una nave olandese in rotta per l’America, onde entrare in possesso dei beni immensi lasciati dal duca».

«Mandò due navi poderose furono mandate a sorvegliare i passi delle Antille, coll’incarico di catturare il veliero olandese, temendo il conte di Medina che la figlia del Corsaro si recasse prima alla Tortue a chiedere l’appoggio dei filibustieri, per riavere i beni che il governo spagnolo, dietro istigazione del governatore di Maracaybo, aveva sequestrati».

«E perché li aveva sequestrati?»

«Per vendicarsi del male che aveva fatto il Corsaro Nero alle colonie spagnole» disse don Raffaele.

«E chi amministra quei beni?» chiese Carmaux.

«Il bastardo del duca, il quale finirà poi per trattenerseli; e quei possessi, se non lo sapete, valgono una decina di milioni».

«E non li ha mai reclamati la duchessa di Wan Guld, la moglie del Corsaro?»

«Certo, ma senza risultato».

«Per cento milioni di aringhe salate!» esclamò Carmaux. «Ora comprendo, un po’ meglio di prima, perché quel briccone di governatore ci teneva a fermare la figlia del Corsaro ed averla nelle sue mani. Mio caro don Raffaele, ecco una bella occasione per salvare la vostra pelle e anche le vostre sostanze. M’impegno io di farvele rispettare dai miei camerati, ma bisogna che voi ci fate trovare la fanciulla. «Se il governatore non l’ha condotta con sé…»

«Di questo son certo» disse il piantatore.

«Allora deve essere ancora qui. Dove? A voi il dircelo».

Don Raffaele era rimasto silenzioso, colla fronte stretta fra le mani, come se pensasse profondamente. Ad un tratto si alzò dicendo:

«Sì, non può essere stata affidata che al capitano Valera».

«Chi è costui?» chiese Carmaux.

«Un intimo amico del conte di Medina e un po’ anche la sua anima dannata».

«Dove abita?»

«Nel convento dei Carmelitani».

«Non sarà fuggito?»

«Si sarà invece nascosto nei sotterranei che sono immensi e che si dice comunichino colla laguna».

«Che uomo è?»

«Un valoroso, capace di difendere a lungo la preda affidatagli».

«Non perdiamo tempo» disse Carmaux. «Se i sotterranei comunicano col lago, quel furfante potrebbe questa sera prendere il largo colla fanciulla».

«Avvertiamo il capitano» disse Wan Stiller.

«E prendete con voi degli altri uomini» disse don Raffaele.

«Siamo già in troppi noi due» rispose Carmaux. «Sappiamo maneggiare la spada come veri gentiluomini, è vero Wan Stiller?»

«Siamo allievi del Corsaro Nero, la prima e la più famosa lama della Tortue» rispose l’amburghese.

«Su in cammino» disse Carmaux.

Vuotarono l’ultima bottiglia e uscirono.

Due filibustieri carichi di vasi di argento e di arredi sacri, che avevano probabilmente rubati in qualche chiesa vicina, passavano in quel momento dinanzi alla taverna.

«Ohe, camerati» gridò loro Carmaux. «Avvertite senza ritardo il capitano Morgan che siamo sulle tracce della figlia del Corsaro Nero e che non s’inquieti se tarderemo a tornare».

«Buona fortuna, Carmaux» risposero i due corsari, allontanandosi velocemente.

«Guidateci don Raffaele e non dimenticatevi che la vostra vita sta nelle mani della signora di Ventimiglia».

«Lo so» rispose il piantatore, con un sospiro che veniva proprio dal cuore, «e farò il possibile per salvarla».

Si diresse verso una viuzza che doveva essere qualche scorciatoia, aperta fra una piantagione d’indaco e di canne da zucchero, facendo segno ai due filibustieri di seguirlo.

Dopo aver percorsi parecchi viottoli che separavano le ultime case della città dalle piantagioni e dalla laguna, don Raffaele si arrestò dinanzi ad un vecchio palazzo annerito dal tempo e che era sormontato da due torrette munite di campane.

«Il convento dei Carmelitani» disse.

«Sembra che sia stato lasciato dai suoi abitanti» disse Carmaux, che aveva osservato che la porta era aperta.

«Tutti sono fuggiti. Voi sapete che i corsari inglesi non risparmiano i nostri frati».

«È vero» rispose Wan Stiller.

«Entriamo?» chiese il piantatore.

«Perbacco!» esclamò Carmaux. «Voglio vedere quel bravo capitano, se ci sarà ancora».

«Sono certo che non è fuggito».

Spinsero la porta ferrata che era socchiusa e si trovarono in una sala vastissima, in una specie di chiesa con alcuni altari e molte torce.

Quantunque i filibustieri di Morgan non fossero giunti fino là, vi regnava un gran disordine. Banchi e sedie erano stati gettati sossopra; gli altari erano stati frettolosamente spogliati di quanto avevano di più prezioso ed in terra si vedevano quadri d’immagini sacre e crocifissi.

 

«È vasto questo monastero?» chiese Carmaux.

«Assai» rispose don Raffaele. «Ritengo però inutile frugare le sale e le celle. Se il capitano si trova ancora qui, si sarà nascosto nei sotterranei».

«Dove si trovano?»

Don Raffaele indicò un angolo della chiesa:

«Sotto quella pietra».

«Che abbia dei compagni il vostro capitano?»

«Lo ignoro».

«Ah! diavolo!» esclamò Carmaux. «Forse siamo stati imprudenti a non prendere con noi un rinforzo! Che cosa ne dici, amburghese?»

«Dico che siamo solidi e ben armati» rispose Wan Stiller, «e che non è questo il momento di rimandare l’impresa».

«Tu parli come un libro stampato, compare. Giacché abbiamo cominciato, checché debba succedere, dobbiamo condurlo a termine».

Raccolse da terra un grosso cero, subito imitato dall’amburghese, l’accese e si diresse verso l’angolo indicato dal piantatore.

«Spero, don Raffaele» disse, «che non ci attirerete in qualche agguato. Io andrò innanzi, ma il mio compagno vi terrà dietro colla spada in mano e vi avverto che quando vibra un colpo inchioda un uomo come uno scarafaggio».

Il piantatore fece un cenno affermativo col capo e si asciugò il sudore che gli bagnava la fronte.

Entro una specie di nicchia si vedeva una pietra circolare, fornita d’un anello di ferro, che pareva l’ingresso di una tomba. Ed infatti si vedevano delle lettere incise sulla lastra e anche uno stemma, che rappresentava due leoni rampanti su una fascia diagonale.

«Qui» disse il piantatore con voce soffocata.

Carmaux passò la canna dell’archibugio nell’anello e aiutato dall’amburghese levò e rovesciò la pietra.

Un tanfo di muffa e d’aria corrotta sfuggì dal foro, facendo indietreggiare i due corsari.

«Un rifugio punto profumato» disse Carmaux. «Possibile che quel capitano si sia rifugiato qui dentro?»

«Sì» disse il piantatore.

«Da chi lo avete saputo voi?»

«Dal governatore e dal padre superiore del monastero».

«Sapete molte cose voi, don Raffaele. È stata una vera fortuna l’avervi incontrato quella sera del combattimento dei galli».

«O una disgrazia?»

«Per voi forse, non certo per noi» disse Carmaux ridendo. «Orsù scendiamo».

Una scaletta di pietra a chiocciola conduceva nei sotterranei del monastero. Carmaux snudò la spada, accese anche la torcia dell’amburghese, poi scese coraggiosamente, badando dove metteva il piede.

Don Raffaele lo seguiva brontolando; Wan Stiller veniva per ultimo col moschetto armato.

Dopo quindici gradini, i due filibustieri ed il piantatore si trovarono in una specie di cripta, sulle cui pareti, semi-murate, si vedevano dei feretri di pietra con degli stemmi e delle iscrizioni.

«Sono i sepolcri del monastero?» chiese Carmaux, facendo una smorfia.

«Sì» rispose don Raffaele.

«Il luogo è veramente poco allegro. Dove andiamo ora?»

«Entrate in quella galleria; conduce, ne sono certo, al rifugio del capitano Valera».

«Sarà solo colla figlia del Corsaro Nero?»

«Io non posso saperlo, ve lo dissi già».

«Andiamo, compare» disse Carmaux, volgendosi verso l’amburghese. «Non voglio che quest’uomo creda che noi abbiamo paura».

Alzò la torcia per meglio vedere dove metteva i piedi e s’inoltrò risolutamente nel corridoio, tenendo la punta della spada diritta innanzi a sé. Anche in quel corridoio si vedevano numerose tombe e anche dei monumenti, rappresentanti per lo più dei cavalieri spagnoli con corazze, spade ed elmetti.

Dopo qualche minuto giunsero dinanzi ad un cancello di ferro semiarruginito, che non era chiuso.

Al di là si vedeva una seconda cripta e all’estremità, Carmaux e Wan Stiller scorsero, con viva gioia, una sottile striscia di luce che si proiettava dall’umido e nero pavimento del sotterraneo.

«Ci siamo» mormorò Carmaux, spegnendo rapidamente le due torce.

«Ho mantenuta la mia promessa?» chiese don Raffaele.

«Da gentiluomo» rispose Carmaux. «È ben là che noi troveremo la figlia del Corsaro Nero?»

«Ne son certo».

«Le hanno scelta una ben brutta prigione».

«Bisognava sottrarla alle vostre ricerche».

«Compare Wan Stiller, preparati a battagliare» disse Carmaux. «Il capitano non si arrenderà senza lotta».

«Di questo non ne dubito» disse don Raffaele. «È un valoroso».

S’avvicinarono cautamente a quella striscia di luce e s’accorsero che sfuggiva al disotto di una porta.

Carmaux accostò un occhio alla toppa che era abbastanza larga e guardò attentamente, rattenendo il respiro.

Al di là, vi era una stanza piuttosto vasta, colle pareti coperte da tavoloni di legno e arredata semplicemente, non essendovi che alcuni scaffali e delle vecchie poltrone a bracciuoli in pelle di Cordova. Due uomini stavano seduti dinanzi ad una tavola che si trovava nel mezzo e parevano intenti a finire una partita agli scacchi.

Uno aveva l’aspetto d’un gentiluomo e indossava anche l’elegante costume dei ricchi spagnoli, l’altro sembrava un soldato, avendo indosso la corazza ed in testa un mezzo elmetto d’acciaio con una piuma.

«Non sono che due» disse Carmaux sottovoce, volgendosi verso l’amburghese.

«È aperta la porta?»

«Mi sembra».

«Spingi ed entriamo. E le torce?»

«La stanza è illuminata e non ne avremo bisogno».

«Avanti dunque».

Carmaux spinse violentemente la porta, che non doveva essere stata assicurata internamente e s’inoltrò colla spada in pugno, dicendo con voce un po’ ironica: «Buona sera, signori!…»

Capitolo ottavo. Un duello terribile

I due giuocatori, vedendo entrare quei tre personaggi, di cui due armati di spada e d’archibugio, balzarono rapidamente in piedi, allontanando le sedie.

Colui che pareva un gentiluomo, era di statura piuttosto alta, magro come un biscaglino, colle gambe e le braccia estremamente lunghe e poteva avere una quarantina d’anni.

Il suo volto, dai lineamenti duri, angolosi, con due occhi grigi dal lampo vivido, non era affatto piacevole.

L’altro, che doveva essere un soldato, era invece piuttosto tozzo, basso di statura ed abbronzato come un indiano o per lo meno come un meticcio.

Aveva gli occhi nerissimi invece ed i lineamenti assai meno duri del compagno, quantunque avesse nell’insieme qualche cosa che ricordava il muso astuto e feroce del coguaro.

«Chi è di voi che si chiama il capitano Valera?» chiese Carmaux sempre ironico, scoprendosi con finta cortesia il capo.

«Sono io» rispose l’uomo magro squadrandolo dal capo alle piante. «E voi chi siete?»

«Vi preme saperlo?»

«Certo, prima di cacciarvi di qui a calci».

«Ah!… È una cosa un po’ difficile, mio signore» disse il filibustiere ridendo. «Ho dunque l’onore di dirvi che noi siamo due corsari agli ordini del capitano Morgan».

Una bestemmia era sfuggita dalle labbra dello spagnolo.

«Chi vi ha guidati qui?»

Carmaux aveva gettato un rapido sguardo verso la porta e non vide che l’amburghese. Il prudente don Raffaele non aveva osato comparire dinanzi al capitano, che probabilmente lo conosceva.

«Siamo venuti di nostra iniziativa» disse, ritenendo inutile compromettere il piantatore.

«E che cosa volete?»

«Null’altro che la restituzione della signora di Ventimiglia, che il conte di Medina vi ha affidata».

«Chi ve lo disse?» gridò il capitano, sfoderando rapidamente la spada.

«Adagio colle armi» disse Carmaux, facendo due passi innanzi, mentre l’amburghese alzava l’archibugio.

«Ci minacciate?»

«Siamo gente di guerra, mio caro signore. Basta! Abbiamo chiacchierato abbastanza e non abbiamo tempo da perdere. Consegnateci la figlia del Corsaro Nero».

«Alcazar, a me!» urlò il capitano. «Cacciamo questi gaglioffi».

Il soldato era già balzato innanzi snudando la spada, e con un urto improvviso aveva rovesciata la tavola, gettando a terra il candeliere.

Wan Stiller aveva fatto fuoco sul capitano, ma in causa dell’improvvisa oscurità aveva mancato il colpo.

«Mano alla spada, compare!» urlò Carmaux. «Ci piombano addosso.

«Don Raffaele, accendete una torcia!»

Nessuno rispose.

«Tuoni d’Amburgo!» gridò Wan Stiller, indietreggiando verso la porta, e menando colpi all’impazzata per impedire ai due spagnoli di accostarsi. «Il piantatore è scappato come una lepre!…»

«Tieni testa tu per qualche minuto?»

«Sì, compare».

Carmaux, indietreggiando, aveva ritrovata la porta. Avendo lasciate le due torce nel corridoio, appoggiate alla parete, s’avanzò a tentoni per ritrovarle ed accenderle, avendo con sé l’acciarino e l’esca.

L’amburghese, che non correva più il pericolo di venire colpito dal compagno, tirava stoccate in tutte le direzioni e si copriva con mulinelli fulminei, urlando a squarciagola.

«Avanti, se l’osate!… Prendete questa, capitano!… A te, soldataccio, che tremi come un coniglio!… Tuoni d’Amburgo!… Vi faccio in cinquemila pezzi!…»

I due spagnoli, trincerati dietro la tavola, tiravano anch’essi colpi all’impazzata, per tener lontani gli avversari, e non facevano meno fracasso gridando:

«Ladri!…»

«Assassini!…»

«Fuori di qui, bricconi!…»

«Volete la figlia del Corsaro? Eccola colla punta d’acciaio».

Mentre i tre uomini battagliavano contro le tenebre, senza osare fare un passo innanzi, Carmaux trovò finalmente le torce, ma non il piantatore, il quale aveva approfittato per darsela a gambe. Carmaux ne accese una.

«Vedremo ora come se la caveranno» disse.

Spalancò la porta e si precipitò nella sala sotterranea, urlando:

«Giù le armi o vi uccidiamo!»

Invece di abbassare le spade, i due spagnoli si posero in guardia, gridando:

«Avanzatevi, se l’osate!»

Carmaux piantò la torcia in una fessura del pavimento, e si fece innanzi, dicendo:

«A te il soldato, a me il capitano».

«Sì» rispose l’amburghese.

Prima però d’incrociare la lama, Carmaux fece un ultimo tentativo.

«Siamo allievi del Corsaro Nero, che fu il più formidabile spadaccino della Tortue» disse. «Noi vi uccidiamo, questo è certo. Volete arrendervi e consegnarci la signora di Ventimiglia?»

«Il capitano Valera non si arrende ad un mascalzone pari tuo» rispose lo spagnolo. «Vedrai come ti scucirò il ventre».

«Tuoni dell’aria!… A noi due!…»

Carmaux con un salto si era gettato verso la tavola, dietro la quale si tenevano i due spagnoli ed aveva incrociata la spada col capitano.

Wan Stiller, dal canto suo aveva girato l’ostacolo, piombando addosso al soldato, il quale era stato costretto a lasciare il riparo per non farsi prendere alle spalle.

I quattro duellanti mostravano di conoscere a fondo tutte le sottigliezze della scherma e di essere spadaccini di vaglia.

I due corsari però, avendo fatte le loro prime armi sotto il Corsaro Nero, che fu il più famoso schermitore del suo tempo, fino dai primi colpi avevano gettato un po’ di timore negli animi dei due spagnoli, i quali si erano illusi di sbrigare presto la partita, non essendo generalmente i filibustieri che dei bravi tiratori d’archibugio.

Carmaux incalzava furiosamente il capitano, senza concedergli un istante di tregua. L’aveva costretto a lasciare il riparo ed a rompere tre o quattro volte, ed ora combattevano presso un angolo della sala.

Wan Stiller tempestava il soldato di botte. Già due volte l’aveva toccato, ma avendo lo spagnolo il petto coperto dalla corazza, non ne aveva avuto alcun danno.

Si capiva però che il suo avversario, assai meno destro del capitano, non poteva durarla a lungo e si vedeva che si esauriva rapidamente vibrando stoccate inutili.

«Ti arrendi?» chiese ad un certo momento l’amburghese, accorgendosi che non parava più colla rapidità di prima.

«Mai» rispose il soldato. «I Bardabo muoiono, ma non si arrendono».

«Non vedi che sto per ucciderti, e che non ne puoi più?»

«Allora prendi questa!»

Il soldato che si trovava quasi addosso al muro, con uno scatto improvviso si era gettato sull’amburghese e, mentre gl’impegnava la spada guardia contro guardia, aveva allungata una gamba, tentando di dargli uno sgambetto e di farlo cadere.

«Ah!… Traditore!…» urlò l’amburghese. «Non è leale ciò. Muori dunque!…»

Si gettò bruscamente da una parte per disimpegnare meglio la lama, poi andò a fondo, spingendo il ferro con velocità fulminea.

La punta, entrata sotto l’ascella destra del soldato, che la corazza non difendeva, era scomparsa nel corpo del disgraziato.

 

«Toccato» brontolò lo spagnolo, con voce semi-spenta.

Si appoggiò alla parete, lasciandosi sfuggire la spada, stravolse gli occhi, mormorò qualche parola, poi stramazzò al suolo vomitando sangue.

«L’hai voluto» disse l’amburghese.

Poi si slanciò verso Carmaux, dicendo:

«Vengo in tuo aiuto, compare».

Il capitano teneva ancora testa al filibustiere, ma si trovava quasi addosso al muro e appariva assai affaticato.

Aveva passata la spada dalla destra alla sinistra, per cercare di imbrogliare vieppiù Carmaux, il quale, non essendo mancino, non doveva trovare quel cambiamento di suo gusto.

«Pensate anche a me» disse Wan Stiller, piombandogli addosso.

«No, compare, non sarebbe leale» disse Carmaux. «Lascia a me sbrigare la faccenda».

Il capitano, udendo quelle parole aveva fatto un ultimo salto indietro ed aveva abbassata la spada.

«Vi credevo un ladrone del mare» disse, «capace di assassinarmi anche a tradimento, e ritrovo invece in voi un gentiluomo. Al vostro posto, un altro non avrebbe rifiutato il concorso d’un compagno».

«Il Corsaro Nero mi ha insegnato a essere leale» rispose Carmaux. «Vi arrendete?»

Il capitano prese la spada con ambe le mani, l’appoggiò su un ginocchio e la spezzò in due, dicendo:

«Sono vostro prigioniero».

«Non sappiamo che cosa farne dei prigionieri» rispose Carmaux. «Morgan a quest’ora ne ha perfino troppi. Noi siamo venuti qui a cercare la figlia del Corsaro Nero»

«Mi è stata affidata dal governatore e senza un suo ordine io non posso cederla».

«È fuggito dopo le prime cannonate e non sappiamo dove sia. Quindi non potrebbe, in questo momento, darvi il permesso».

«È presa adunque la città?»

«È in nostra mano da tre ore».

«Allora, signori, ogni resistenza da parte mia sarebbe inutile, da che tutti sono fuggiti, compreso il governatore».

«Dov’è la signorina di Ventimiglia?»

Il capitano ebbe un’ultima esitazione, poi disse:

«Io ve la cederò, se voi mi promettete di ottenere dal vostro capitano il permesso di lasciare la città indisturbato».

«Il signor Morgan ve lo accorderà» disse Carmaux. «Impegniamo la nostra parola».

«Prendete la torcia e seguitemi».

Wan Stiller obbedì. Lo spagnolo si trasse dalla cintura di pelle, che portava ai fianchi, una chiave e si diresse verso una porta che si vedeva all’estremità della sala sotterranea.

«Adagio, signore» disse Carmaux che era sempre diffidente. «Eravate soli qui?»

«Non vi è nessun altro» rispose il capitano. «Al fracasso sarebbero già accorsi e allora le sorti del duello sarebbero forse cambiate».

«Infatti avete ragione» disse Carmaux.

Il capitano introdusse la chiave nella toppa e aprì la porta, avanzandosi in un’altra sala illuminata da un lampadario di stile veneziano, colle pareti rivestite di pannelli, il pavimento riparato da un tappeto assai fitto e arredata con una certa eleganza.

All’estremità si vedeva un’alcova, le cui tende rosse, con ricami d’oro sbiadito dal tempo e dall’umidità, erano abbassate.

«Signora» disse il capitano. «Vi prego d’alzarvi. Delle persone che hanno conosciuto vostro padre sono venute qui e vi aspettano».

Un grido si udì dietro alle tende, un grido di stupore e anche di gioia; poi una fanciulla con una mossa fulminea erasi slanciata fuori dall’alcova, fissando i suoi occhi sui due filibustieri che si erano levati i berretti.

Era una bellissima fanciulla, di quindici o sedici anni, alta e flessibile come un giunco, dalla pelle pallidissima, quasi alabastrina, con la tinta che ricordava suo padre il Corsaro Nero; aveva due occhi grandi, d’un nero intenso, e lunghe ciglia che lasciavano cadere sul suo viso la loro ombra.

I suoi capelli, neri come l’ala di un corvo, li teneva sciolti sulle spalle, legati solamente presso la nuca da una piccola fila di perle.

Indossava una semplice cappa bianco, con guarnizioni di trine e un sottile ricamo d’oro sulle larghe maniche.

Vedendo i due corsari, si lasciò sfuggire un secondo grido e rimase colla bocca aperta, mostrando due file di denti piccoli come granelli di riso e più splendenti dell’opale.

«Signorina di Ventimiglia» disse Carmaux, inchinandosi goffamente e con un certo imbarazzo, «noi siamo due fedeli marinai di vostro padre, qui mandati dal suo antico luogotenente, il capitano Morgan…»

«Morgan!…» esclamò la fanciulla. «Morgan!… Il comandante in seconda della Folgore?»

«Sì, signorina. Avete udito a parlare di lui?»

«Mio padre è morto troppo presto perché me ne parlasse» disse la fanciulla con profonda tristezza, «ma, nelle sue memorie, ho trovato molte volte il nome di quel fedele e valoroso corsaro, che lo seguì sui mari e che lo aiutò a compiere le sue vendette. Dov’è ora?»

«Qui, in Maracaybo, signorina».

«Morgan qui? Allora i filibustieri della Tortue hanno preso la città!»

«Da stamane».

«E potrò vederlo?»

«Quando vorrete».

«E voi, capitano, me lo permetterete?» chiese volgendosi verso lo spagnolo.

«Voi siete libera, signora, dal momento che il governatore è fuggito».

«Ah!» fece la giovane, con accento un po’ ironico. «Il conte di Medina è scappato dinanzi ai filibustieri della Tortue? Lo credevo più valoroso».

«Meglio la fuga che la prigionia».

«Già, per coloro che non sanno morire combattendo. Sicché io sono libera?»

«E sotto la nostra protezione, signorina» disse Carmaux.

«Voi siete…»

«Eravamo due devoti servitori di vostro padre, il Corsaro Nero».

«I vostri nomi».

«Carmaux e Wan Stiller».

La giovane si passò una mano sulla fronte, come per risvegliare delle lontane memorie, poi disse:

«Carmaux… Wan Stiller… voi dovete aver accompagnato mio padre nella Florida… dopo l’esplosione del vascello di mio nonno il duca… Nelle memorie scritte e lasciate a me da mio padre io ho trovato molte volte i vostri nomi…»

Fece alcuni passi innanzi e tese le sue belle mani dalle dita affusolate verso i due filibustieri, dicendo:

«Una stretta, eroi del mare, fedeli compagni di mio padre nella sua triste vita avventurosa».

I due corsari, confusi, impacciati, chiusero le due manine fra le loro dita ruvide e callose, borbottando qualche parola.

«Ed ora» disse la fanciulla «sono con voi, se il capitano non si oppone».

Si gettò sulle spalle una lunga mantiglia di seta nera con pizzi di Venezia, prese un grazioso cappello di feltro oscuro adorno d’una piuma nera e si mise fra i due corsari, dicendo al capitano con accento ironico:

«I miei saluti al signor conte di Medina e Torres, e ditegli che se mi vorrà, bisognerà che venga a prendermi alla Tortue, se ne avrà il coraggio».

Il capitano non rispose; ma appena Carmaux e Wan Stiller furono usciti colla fanciulla, disse:

«Stupidi!… Non mi avete ucciso!… Miei cari, avrete ben presto mie nuove. Ed ora cerchiamo di raggiungere il governatore, senza attendere il loro salvacondotto».