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Jolanda, la figlia del Corsaro Nero

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Capitolo undicesimo. Fra il forte e la squadra spagnola

Per sei settimane, i filibustieri di Morgan si fermarono in quella disgraziata città, tormentando gli abitanti per far loro confessare dove tenevano nascosti i loro tesori e frugando i boschi e le savane, colla speranza di scoprire il governatore di Maracaybo.

La taglia di cinquemila piastre promessa da Morgan a chi riusciva a prenderlo, era stato uno dei motivi principali per cui i filibustieri si erano accaniti contro la popolazione, sperando di strappare qualche confessione sul rifugio scelto dal conte di Medina, ma tutto era stato vano.

La notizia recata da alcuni corsari lasciati in Maracaybo, che gli spagnoli avevano rioccupato e riattato il forte della Barra e che tre grosse fregate, al comando d’un ammiraglio, erano improvvisamente comparse all’entrata della laguna, coll’incarico di distruggere la squadra corsara, decise finalmente i filibustieri a lasciare Gibraltar, dove d’altronde non vi era ormai più nulla da saccheggiare.

Non soddisfatti però del bottino accumulato, si fecero promettere dagli abitanti un riscatto di cinquantamila piastre, che doveva essere pagato a Maracaybo, minacciando in caso di rifiuto di tornare per incendiare e distruggere da capo a fondo la città.

Lo stesso giorno i corsari salpavano, portando con sé i notabili che dovevano rimanere in ostaggio come garanzia del versamento promesso.

Erano però tutti inquieti per le notizie ricevute dai loro camerati di Maracaybo e anche Morgan pareva che fosse un po’ scosso.

Non li preoccupava il riattamento e l’armamento del forte della Barra, bensì l’arrivo della squadra spagnola, composta di navi d’alto bordo, armate ognuna di sessanta cannoni e montate da forti equipaggi.

Che cosa avrebbe potuto fare la squadra, composta quasi tutta di caravelle relativamente piccole, assai vecchie e malamente armate? Solo la fregata di Morgan avrebbe potuto impegnare la lotta e anche quella con nessuna probabilità di vittoria.

«Che cosa farete, signor Morgan?» chiese Jolanda, quando il filibustiere scese nel quadro per informarla della gravità della situazione.

«Non lo so ancora» rispose il filibustiere «ma noi non ci arrenderemo di certo e ci difenderemo finché rimarrà sulle nostre navi un solo uomo ed una sola carica di polvere».

«Se vi prendessero, che cosa vi farebbero gli spagnoli?»

«Ci impiccherebbero, senza misericordia».

«E quale sarebbe la mia sorte?»

Morgan guardò la fanciulla, che gli aveva rivolta quella domanda con una voce assolutamente tranquilla, come se la cosa quasi non la riguardasse.

«Signora», disse il filibustiere «non siete ancora nelle loro mani, e per impossessarsi di voi, bisognerebbe che passassero prima sul corpo di noi tutti».

«E se gli spagnoli l’avessero piuttosto con me che con voi? Sapete a che cosa pensavo in questo momento?»

«A chi?»

«Al conte di Medina».

«Al governatore di Maracaybo?»

«Io sono quasi certa che sia stato lui a far giungere la squadra spagnola per riavermi in sua mano».

«Ciò è possibile, signora. Quell’uomo ha infatti molto interesse a tenervi prigioniera. Ci tiene ai milioni di vostro nonno; se così non fosse non avrebbe mandato due fregate alle piccole Antille, per aspettare la nave che vi conduceva in America».

«È il governo spagnolo che vuole privarmi dell’eredità materna, o lui?»

«Lui, signora».

«Non ha diritti da vantare sulle possessioni lasciate dal duca, mio avo».

«Ne siete ben certa?» chiese Morgan. «Non vi ha detto nulla, quando vi condussero in sua presenza?»

«Mi ha solamente invitata a firmare la rinuncia dei miei beni posseduti nel Venezuela ed a Panama» rispose Jolanda.

«Con quale pretesto?»

«Che mi erano stati sequestrati dal vice re di Panama, per risarcire le popolazioni danneggiate dalle scorrerie fatte da mio padre e dai suoi saccheggi».

«Miserabile!» esclamò Morgan. «Tutti, gli spagnoli compresi, non ignoravano che vostro padre non volle mai una sola piastra fruttata dalle imprese dei corsari. Egli possedeva nella sua patria castelli e terre sufficienti per non averne bisogno, e lasciava la sua parte, che gli spettava per diritto di conquista, ai suoi marinai.

«Non avete alcun sospetto di chi possa essere quel conte?»

«Perché mi fate questa domanda, signor Morgan?» chiese la fanciulla con sorpresa.

«Desideravo saperlo».

«È uno spagnolo, che forse odiava mio padre più degli altri».

Morgan tacque per qualche istante, facendo il giro del salotto, poi chiese:

«Quando vostro padre morì da eroe sulle Alpi, combattendo contro lo straniero, chi s’incaricò di voi?»

«Una mia lontana parente».

«Non vi siete mai accorta che attorno a voi si esercitasse una certa sorveglianza?»

Jolanda, a quella domanda era rimasta muta, interrogando cogli sguardi il corsaro.

Ad un tratto si batté la fronte colla mano, dicendo:

«Fritz…»

«Fritz!…» esclamò Morgan. «Chi era costui?»

«Un fiammingo, venuto non so da dove, che la mia parente aveva preso ai suoi servigi e che non mi lasciava un solo istante».

«Vecchio o giovane?»

«Aveva allora trent’anni».

«Quando lasciaste l’Europa, vi accompagnò?»

«Sì, capitano».

«Che cosa è avvenuto di quell’uomo?»

«Non lo so. Scomparve dopo l’abbordaggio dato alla nave olandese che mi conduceva in America. È morto nel combattimento o fu fatto prigioniero, io non lo so».

«Ecco il traditore» disse Morgan.

«Perché?»

«Deve essere stato lui ad informare il governatore di Maracaybo della vostra partenza per l’America».

«Voi dunque credete?…»

«Io dico che quell’uomo ve lo aveva messo a fianco il conte di Medina».

«Tanto interesse aveva il governatore a sorvegliarmi?»

«Più di quello che credete, signora» disse Morgan. «Un giorno ne saprete di più. Se però gli spagnoli pensano di riprendervi, ora che siete sotto la protezione dei Fratelli della Costa, s’ingannano. Ah!… Vengono a chiudermi il passo con tre vascelli d’alto bordo!… Ebbene, noi la vedremo. Vivete tranquilla, signora di Ventimiglia. L’antico luogotenente di vostro padre, mette la sua spada a vostra disposizione».

Morgan, così parlando, cosa strana, si era animato, ciò che accadeva ben di rado in un uomo del suo carattere, piuttosto chiuso e freddo.

Lasciò il quadro e risalì in coperta, più preoccupato però di quello che realmente sembrasse.

Le navi della squadra veleggiavano in gruppo, come se temessero da un momento all’altro la comparsa dei tre formidabili vascelli spagnoli, che ormai sapevano lancianti sulle loro tracce.

Stringevano soprattutto il vento, per tenersi ben presso la fregata di Morgan, come uno stormo di pulcini che non si sentono sicuri che presso la chioccia.

Gibraltar da parecchie ore era ormai scomparsa ed il vento le spingeva rapidamente verso Maracaybo.

«Ebbene, capitano?» chiese Carmaux, abbordando Morgan che passeggiava sul ponte di comando.

«Che cosa vuoi, vecchio mio?»

«Come ce la caveremo?»

«Ti ricordi di Puerto Limon?» chiese ad un tratto Morgan, fermandosi dinanzi a lui.

«Come fosse ieri, comandante».

«Come ha fatto il Corsaro Nero a sbarazzarsi delle navi spagnole, che gli chiudevano il passo?»

«Ha preparato un buon brulotto pieno di zolfo e di pece e lo ha mandato contro di loro».

«E il risultato?»

«Una nave incendiata e l’altra in pericolo».

«E noi faremo lo stesso» rispose Morgan. «Vi è la Caramada, che non vale cinquemila piastre, compresi i suoi dodici cannoni.

«La trasformeremo in un brulotto e la scaraventeremo contro le navi spagnole. Tutto finirà bene, mio vecchio Carmaux: lo vedrai».

«Abbiamo la figlia del Corsaro Nero e non possiamo ridarla nelle mani degli spagnoli. Io sono pronto a dare la mia vecchia pelle per quella fanciulla».

«Ed io a dannare anche la mia anima» rispose Morgan, con accento così caldo che fece alzare il capo al vecchio marinaio. Poi, quasi si fosse pentito di aver detto troppo, aggiunse con un accento freddo: «Faremo quello che potremo». E riprese la sua passeggiata, con un passo però più agitato di prima, borbottando: «Sì, quello che potremo».

Alla mezzanotte, la squadra, che aveva avuto il vento sempre favorevole, giungeva dinanzi a Maracaybo, accolta con grida di giubilo dalla piccola guarnigione che vi aveva lasciata.

Disgraziatamente le notizie recate a bordo da essi erano poco incoraggianti. Il forte della Barra era stato munito formidabilmente di nuove artiglierie, durante quelle sei settimane e occupato da una forte guarnigione, e le navi spagnole non avevano lasciati i loro ancoraggi in attesa di dare ai corsari una terribile e decisiva battaglia.

La via era chiusa, per riguadagnare il mare dei Caraibi, e una lotta era impossibile ad evitarsi.

Morgan, che non si sentiva in grado di assalire le grosse navi spagnole, prese nondimeno e senza esitare il suo partito, colla speranza di spaventare i nemici e deciderli a lasciarlo andare.

Fece scendere in una scialuppa alcuni prigionieri, scelti fra i più influenti e la stessa notte li mandò all’ammiraglio spagnolo, intimandogli di lasciargli sgombra la ritirata, se voleva evitare la distruzione della città ed il massacro di tutti gli ostaggi che aveva a bordo.

L’alba non era spuntata, che i messaggieri tornavano scoraggiati a bordo, recando la notizia che l’ammiraglio avrebbe pagato il riscatto chiesto con delle palle di cannone e che si sarebbe ritirato solamente dopo la restituzione del bottino preso nelle due città e di tutti i prigionieri, gli schiavi negri compresi e soprattutto della signora Jolanda di Ventimiglia.

Udendo quelle pretese, soprattutto l’ultima, un terribile scoppio d’ira si era manifestato fra gli equipaggi della squadra. Tutto, piuttosto che rendere la figlia del Corsaro Nero; questo era stato il grido che era echeggiato su tutte le navi.

 

Morgan aveva subito chiamato a bordo della Folgore i vari comandanti, dicendo loro:

«Volete voi accettare la vostra libertà, col sacrificio del vostro bottino e della signora di Ventimiglia, o difendervi?»

La risposta, a nome di tutti, la diede Pierre le Picard, che, dopo Morgan, era quello che godeva maggior influenza fra i filibustieri.

«Preferiamo farci uccidere dal primo all’ultimo, piuttosto che rendere la figlia del Corsaro Nero. I Fratelli della Costa mai si macchieranno d’una simile viltà».

Avendo però riflettuto meglio alle forze imponenti di cui disponeva l’ammiraglio spagnolo, decisero di mandargli altri messaggeri, coll’incarico di dirgli che avrebbero abbandonato Maracaybo senza distruggerla, che abbandonavano il pensiero di esigere un riscatto e che si offrivano di mettere in libertà tutti gli ostaggi e metà degli schiavi e dei prigionieri di Gibraltar.

Non vedendo giungere risposta alcuna e sospettando che gli spagnoli cercassero di guadagnar tempo, per avere qualche altra nave di rinforzo, Morgan decise di agire senza ritardo e di sorprendere la flotta avversaria.

Aveva già messi gli occhi sulla Caramada, che era una delle più grosse, ma anche delle più vecchie navi della squadra, e che poteva prestarsi ottimamente per farne un brulotto fiammeggiante da lanciare fra le navi spagnole.

Fece asportare quanto poteva avere valore, poi fece riempire la nave di zolfo, di pece, di bitume, di grassi e di legnami resinosi, onde, da un momento all’altro, prendesse fuoco da prora a poppa, poi fece collocare sulla coperta dei fantocci con cappellacci alla filibustiera, che volevano rappresentare uomini, e piantare sulla ribolla del timone il grande stendardo d’Inghilterra, onde far credere agli spagnoli che quella fosse la nave ammiraglia.

Sei giorni furono impiegati in quei preparativi, durante i quali l’ammiraglio spagnolo, che si credeva ormai sicuro di tenere in suo potere i corsari, non diede segno di vita, mentre avrebbe potuto facilmente piombare sulla squadra, sgominarla e affondarla senza troppa fatica.

Verso il tramonto del settimo giorno, Morgan, dopo d’aver fatto giurare ai suoi uomini di non chiedere grazia fino all’ultimo sospiro, diede il segnale della partenza.

La nave-brulotto, che era montata da un pugno d’uomini scelti fra i più valorosi, apriva la marcia con tutte le vele sciolte, per meglio mascherare i fantocci della coperta.

La seguiva a breve distanza la fregata di Morgan, poi venivano le altre navi su due colonne.

Una profonda ansietà regnava su tutti i ponti, poiché nessuno ignorava che se il colpo non riusciva era la fine di tutti.

Morgan, al momento di muoversi, era sceso nel quadro dove Jolanda si trovava.

«Signora» le disse con una certa emozione. «Noi stiamo per giuocare una partita disperata, forse la più tremenda di quante io ne abbia impegnate cogli spagnoli. Checché succeda non lasciate il quadro. Se la nave affonderà all’ultimo momento mi troverete al vostro fianco».

«Signor Morgan» rispose la fanciulla, alzando su di lui i suoi begli occhi, «voi potreste risparmiare questa battaglia che può costare tante vite umane. Me soprattutto che gli spagnoli vogliono: cedetemi a loro. Sono una donna e non mi faranno alcun male».

«Mai, signora. I filibustieri sono pronti a dare la loro vita per la figlia di colui che fu il più grande eroe del mare. E poi, signora, correreste più pericoli voi che noi».

«Io?…» chiese Jolanda con stupore. «Sono i miei possessi che vogliono e non già la mia vita. Se li prendano dunque e dirò, come mio padre, che ho in Piemonte abbastanza terre e castelli, per farne a meno di quelli che possedeva qui mio nonno».

«Se si trattasse solamente di questo, signora» disse Morgan, «non avrei esitato, col vostro consenso, ad aprire trattative coll’ammiraglio spagnolo, ma c’è ben d’altro che voi ignorate. Volete un consiglio? Guardatevi dal governatore di Maracaybo, dal conte di Medina, perché quell’uomo cercherà di farvi tutto il male possibile».

«Per quale motivo? Io non l’ho mai veduto prima del mio arrivo in America».

«È un segreto, che per ora non vi posso svelare. Addio signora, e se le palle mi risparmieranno, ci rivedremo dopo la battaglia. Ecco il cannone che comincia a tuonare. Pregate per le nostre armi».

Ciò detto, Morgan si slanciò verso la scala, che metteva sul ponte, gridando:

«Pronti per l’abbordaggio, miei prodi!…»

Il brulotto non si trovava allora che a mille passi dalle navi spagnole, le quali stavano salpando le àncore, per dare addosso alla squadra.

Erano tre grosse fregate di sessanta cannoni ciascuna, dai bordi altissimi ed il castello pure assai alto, già pieno d’armati.

Le navi filibustiere, eccettuata la fregata di Morgan, facevano una ben meschina figura, di fronte a quei poderosi colossi.

Pareva però che gli spagnoli, confidando nelle proprie forze, non avessero troppa fretta di muoversi, né di aprire il fuoco.

La sola nave ammiraglia era stata lesta a salpare le àncore, e si dirigeva verso il brulotto per tagliargli il passo.

Cosa appena credibile: invece di far tuonare i suoi sessanta cannoni, che sarebbero stati più che sufficienti per mandarlo a fondo in pochi minuti, tanto più che, come abbiamo detto, Morgan aveva resa la Caramada un puro scheletro, gli muoveva addosso per abbordarlo!..

Era quello che desideravano i filibustieri, i quali stentavano a credere d’aver tanta fortuna.

«Tuoni d’Amburgo!…» esclamò Wan Stiller, che dal castello della Folgore seguiva attentamente la marcia del brulotto. «Quegli spagnoli sono pazzi!…»

«Fanno a meraviglia il nostro giuoco, compare» disse Carmaux, che gli stava presso. «Fra poco vedremo un bel fuoco!…»

La distanza fra il brulotto e la nave ammiraglia scemava a vista d’occhio, e nessuna cannonata partiva ancora dall’enorme nave.

Solo le altre due cominciavano a sparare qualche colpo sulla squadra, maltrattandola abbastanza gravemente.

I marinai della Caramada, nascosti dietro le murate, colle torce accese, aspettavano in silenzio.

Ad un tratto il pilota, che stava semi-coperto sotto il grande stendardo inglese, vedendo la nave ammiraglia di traverso, con un colpo di ribolla le cacciò il bompresso fra le sartìe, urlando:

«Fuoco!… Date fuoco!… E gettate gli arponi d’arrembaggio!…»

I dieci o dodici uomini, che montavano la Caramada, scagliarono le torce fra i cumuli di zolfo, di bitume e di pece, che si trovavano dispersi per la coperta fra il legname resinoso, che ingombrava la stiva, lanciarono poscia i grappini d’abbordaggio fra le griselle della fregata; quindi, approfittando dello stupore degli spagnoli, si gettarono in acqua, raggiungendo a nuoto la scialuppa che si trovava dietro la poppa e recidendo la fune che la tratteneva.

Una fiammata immensa, prodotta dall’esplosione di alcuni barili di polvere, nascosti fra le materie infiammabili, s’alzò sulla Caramada, investendo la velatura ed il sartiame della nave ammiraglia e costringendo gli uomini che si trovavano sulle murate, pronti a respingere il temuto abbordaggio, a fuggire.

Una luce intensa illuminava il mare e le navi. Il brulotto ardeva come uno zolfanello e con lui l’ammiraglia, la cui alberatura era ormai tutta in fiamme.

Un urlo immenso era echeggiato fra i filibustieri:

«Avanti, Fratelli della Costa!… Addosso!…»

Mentre le navi minori investivano l’ammiraglia, cannoneggiandola furiosamente, per impedire agli spagnoli di spegnere l’incendio, Morgan si era gettato addosso ad un’altra nave, la più grossa della squadra, tempestandola coi suoi quaranta cannoni.

La terza aveva già ai fianchi le due navi della riserva, che erano le meglio armate dopo la Folgore, e montate per la maggior parte da bucanieri, quegli impareggiabili tiratori, che non avevano rivali al mondo e che con ogni palla uccidevano.

Capitolo dodicesimo. «All’abbordaggio, figli del mare!»

La battaglia si era impegnata con furore d’ambe le parti, fra grandi clamori e un rimbombo assordante, essendovi su tutte quelle navi più di trecento pezzi d’artiglieria.

I filibustieri, incoraggiati dal primo successo, combattevano col solito valore, mirando soprattutto a distruggere l’ufficialità e facendo un fuoco infernale sui ponti, sui casseri e sui castelli, per sgombrarli e tentare un fulmineo abbordaggio.

La nave ammiraglia, tutta avvolta dalle fiamme, era ormai perduta e bruciava assieme al brulotto, che le era rimasto impiccicato al fianco.

I filibustieri delle piccole navi non avevano trovata alcuna resistenza, poiché il fuoco era avvampato così rapidamente, che la maggior parte degli spagnoli, che montavano la fregata, erano rimasti arsi dal primo scoppio e soffocati dal fumo intenso e nauseante, che si sprigionava dalla stiva della Caramada.

Per compassione avevano salvato i pochi superstiti, compreso l’ammiraglio, che era stato raccolto da una scialuppa, nel momento in cui stava per annegare.

Tuttavia la vittoria non era ancora guadagnata, poiché le due altre navi si difendevano terribilmente, mettendo a dura prova il valore dei corsari. Due volte Morgan aveva tentato di abbordare la nave che aveva assalito e ne era sempre stato respinto, con grande perdita d’uomini.

I sessanta cannoni della spagnola, abilmente manovrati, avevano anzi causato alla Folgore tali danni, da temere che da un momento all’altro affondasse o per lo meno perdesse la sua intera alberatura.

Eppure, dall’espugnazione di quella grossa fregata dipendeva la vittoria, essendo i filibustieri ancora troppo inferiori di forze per tener fronte a tutte e due.

Morgan, che vedeva sfuggirsi di mano tutte le speranze che aveva concepite e vedeva la sua squadra in pericolo di venire dispersa e ricacciata verso Maracaybo, fece un supremo appello ai suoi uomini.

«A me i più valorosi!…» urlò, impugnando colla destra la spada e colla sinistra la pistola. «Cento piastre a chi metterà i piedi sulla fregata!… Carmaux!… Abborda!…»

Il francese, che si trovava alla ribolla con Wan Stiller, con un brusco colpo di barra gettò la Folgore addosso alla fregata, mentre i gabbieri dalle coffe e dalle gabbie gettavano i grappini d’abbordaggio.

La spagnola però era così alta di bordo, che le murate della Folgore si trovavano appena a livello degli sportelli della batteria.

I corsari, tuttavia, incoraggiati da Morgan e da Pierre le Picard, che pei primi si erano aggrappati alle bancazze, tentando di issarsi fino ai bastingaggi, dopo d’aver scagliate parecchie bombe sulla fregata spagnola, per allontanarne i difensori, si erano slanciati all’arrembaggio, con urla tremende, tenendo fra i denti le loro corte sciabole, colle quali solevano combattere nelle pugne corpo a corpo.

Disgraziatamente gli spagnoli affacciati al parapetto della loro nave avevano buon gioco a fucilarli mentre si arrampicavano.

Il momento era terribile e lo scoraggiamento cominciava ad impossessarsi di quei forti e rubidi uomini del mare, quando improvvisamente una voce metallica ed imperiosa, che ricordava i comandi taglienti del Corsaro Nero, si levò sul ponte della Folgore, dominando il rimbombo delle artiglierie e le urla dei combattenti:

«Su, uomini del mare!… All’abbordaggio!…»

Tutti si erano voltati, dimenticando per un istante che gli spagnoli stavano sopra di loro e che li fucilavano.

Jolanda di Ventimiglia, tutta vestita di nero, come usava suo padre, con una lunga piuma pure nera infissa nei capelli ed una spada nella destra, era comparsa sul ponte della Folgore, fra il fumo delle artiglierie, e additava ai corsari la fregata.

«Su, uomini del mare!…» ripeté, con quell’accento che sapeva ritrovare suo padre nei momenti più terribili. «All’abbordaggio! La figlia del Corsaro Nero vi guarda!…»

Un clamore spaventevole aveva risposto alla fanciulla. «All’abbordaggio!… All’abbordaggio!…»

E quegli uomini, che stavano per cedere, si erano inerpicati su per le bancazze e su per le sartìe, come una legione di demonî, urlando a squarciagola:

«Morte!… Morte agli spagnoli!…»

Un uomo solo, che si teneva sospeso allo sportello d’un sabordo della batteria, era rimasto immobile, fissando i suoi sguardi sull’eroica fanciulla, che colla sua presenza stava per decidere della vittoria. Era Morgan.

Quella contemplazione però non ebbe che la durata di pochi istanti.

Udendo sopra la sua testa il fragore delle spade e delle sciabole, si inerpicò su per lo sportello, aggrappandosi alle sartìe dell’albero maestro, e gridando con voce tuonante:

 

«Su, su, figli del mare!… La figlia del Corsaro Nero vi guarda!…»

I filibustieri erano già sulla coperta della fregata e si erano rovesciati addosso all’equipaggio spagnolo, con tale impeto, da ricacciarlo parte a poppa e parte a prora, in completo disordine.

Il comandante della fregata, vedendo la nave ormai perduta, si era lasciato uccidere e anche gli ufficiali erano per la maggior parte caduti al primo urto.

L’arrivo di Morgan e di Pierre le Picard, con un nuovo drappello di filibustieri, persuase gli spagnoli a gettare le armi e chiedere quartiere.

L’equipaggio della terza fregata, vedendo ammainare, dall’albero maestro della compagna, il grande stendardo di Spagna e vedendo la nave ammiraglia affondare, fra un vortice di fiamme e di scintille e fra l’orrendo fragore delle santebarbare, prese rapidamente il suo partito, onde non venire a sua volta assalita e presa.

Con due tremende bordate, eseguite dai suoi sessanta cannoni, respinse le navi più piccole della squadra filibustiera, che le si stringevano addosso, maltrattandole più o meno gravemente quasi tutte, poi, spiegate rapidamente tutte le vele, prese la fuga in direzione del forte della Barra.

Sia per partito preso, affinché i corsari non s’impadronissero più tardi delle artiglierie, od imperizia dei suoi piloti, urtò così poderosamente contro le scogliere dell’isolotto, da spaccarsi a metà e da colare a fondo in pochi minuti, lasciando appena il tempo all’equipaggio di guadagnare terra e di rifugiarsi nel forte.

Un urlo formidabile, un urlo di vittoria, sprigionatosi da quasi quattrocento petti, aveva salutata la fuga dell’ultima nave.

Mai, fino allora, i filibustieri avevano ottenuto un trionfo così completo. Miracoli molti e prodigi di valore quasi incredibili, ne avevano compiuti in cento altre lotte, ma non come quelli.

Morgan, appena fatti rinchiudere i prigionieri spagnoli nelle batterie e collocare alle porte delle polveriere uomini fidati, onde evitare qualche tradimento, era sceso sulla sua nave, dove Jolanda di Ventimiglia si trovava sempre, calma, sorridente, colla spada ancora in pugno.

«Signora» le disse, mentre i suoi occhi, ordinariamente freddi, s’accendevano d’un lampo strano. «È a voi che noi dobbiamo la fortuna di aver vinto una delle più terribili battaglie che ricordi la storia dei filibustieri della Tortue. Senza la vostra improvvisa comparsa e quel grido, che imitava così bene la voce squillante di vostro padre, l’invincibile Corsaro Nero, forse a quest’ora la mia flotta sarebbe stata distrutta e noi tutti saremmo in fondo al mare».

«Io!…» esclamò la fanciulla sorridendo. «Mi sono rammentata della frase che mio padre lanciava, quando spingeva i suoi uomini all’abbordaggio e l’ho pronunciata. Una cosa che qualunque altra donna avrebbe potuto fare».

«No, signora» rispose Morgan, con insolito calore. «Un’altra donna non avrebbe avuto il coraggio di esporsi al fuoco d’una così grossa fregata e si sarebbe guardata dal lasciare la sua cabina. Solo voi, nelle cui vene scorre il sangue del più grande eroe del mare, avreste potuto fare ciò che avete fatto. Abbiate, signora, la riconoscenza mia e quella dei miei uomini».

Poi, volgendosi verso i filibustieri, che dall’alto delle murate della fregata spagnola o del cassero e dal castello della Folgore contemplavano muti la fanciulla, gridò:

«Salutate l’eroina del mare!»

Un urlo entusiastico, che si ripeté su tutti i legni, che erano accorsi attorno alla fregata di Morgan, s’alzò fra quei quattrocento uomini:

«Viva la figlia del Corsaro Nero!… Evviva l’eroina del mare!…»

Quei ruvidi uomini, che da un istante all’altro sembravano impazziti, agitavano i cappelli e scaricavano in aria le armi, fra urrah strepitosi, che dovevano giungere fino agli orecchi della guarnigione del forte della Barra.

La fanciulla, profondamente commossa, fece colla mano un cenno di saluto; poi, aiutata da Morgan, scese la scaletta del ponte, ritornando nel quadro, mentre i tre urrah di rigore squarciavano l’aria ed i cannoni della vinta fregata tuonavano, con orrendo frastuono, in onore della valorosa italiana.

«Tuoni d’Amburgo!» esclamò Wan Stiller, che si trovava sotto il ponte di comando, insieme all’inseparabile suo compare ed a don Raffaele. «Si direbbe che io ho gli occhi umidi!…»

«Ed io li ho davvero» rispose Carmaux. «Ah!… la brava fanciulla!… E quel grido!… Mi pareva che noi fossimo tornati ai tempi in cui il Corsaro Nero comandava l’abbordaggio dal castello della vecchia Folgore».

«Sì, una bella e valorosa fanciulla» borbottò il piantatore. «Peccato che non si trovasse sul ponte della fregata dei miei compatrioti».

«Che cosa avete da mormorare, don Raffaele?» chiese Carmaux, che aveva realmente gli occhi umidi.

«Dicevo che se quella fanciulla non fosse uscita dalla sua cabina, non so se voi avreste vinta la fregata» rispose il piantatore con un sospiro.

«Non dico il contrario. Si difendevano bene i vostri compatrioti, parola di Carmaux. Ci hanno ammazzati quindici o venti uomini e feriti quasi altrettanti».

«E non siete ancora fuori dalla laguna. Il forte della Barra è stato rialzato più formidabile di prima e non vi lascierà passare, senza bombardarvi per bene».

«È vero» disse Wan Stiller, guardando le imponenti opere di difesa che munivano l’isolotto e che in sole sei settimane gli spagnoli avevano costruite. «Quello sarà un osso ben duro da rodere».

«E che ci darà dei grossi fastidi» aggiunse Carmaux. «Eppure bisognerà andarcene al più presto. Pierre le Picard ha saputo da un pilota, caduto in nostra mano, che queste tre fregate facevano parte di una squadra di sei vascelli incaricata di sterminarci.

«Prima ancora che gli altri giungano, dobbiamo sgombrare. Non si è due volte fortunati. Ah!…»

«Che cos’hai compare?» chiese Wan Stille.

«Don Raffaele, devo darvi una notizia che non so se vi farà piacere o dispiacere».

«Quale?»

«Sapete chi ho veduto fra i difensori della fregata?»

«Non saprei».

«Il capitano Valera».

L’emozione che provò il povero uomo nell’apprendere quella notizia fu tale, che cadde fra le braccia dell’amburghese che gli stava dietro.

«Ohe, don Raffaele!» gridò il filibustiere, rimettendolo in equilibrio, «che cosa vi piglia?»

«È morto?» chiese il piantatore, che era diventato livido.

«No, si trova fra i prigionieri» rispose Carmaux.

«Allora sono un uomo finito».

Il fischietto del mastro d’equipaggio, che chiamava i filibustieri a raccolta, interruppe la loro conversazione.

Morgan, dopo un breve consiglio tenuto coi comandanti delle navi, che si erano radunati nel quadro della Folgore, aveva dato ordine ai mastri di far alzare le vele e di muovere, senza ritardo, verso il forte della Barra per tentare di espugnarlo, o per lo meno di guadagnare il mar dei Caraibi, onde evitare il pericolo di farsi rinchiudere nella laguna dalle altre tre fregate, che potevano comparire da un momento all’altro.

Gli equipaggi delle due navi più maltrattate e che erano diventate quasi inservibili, furono imbarcati sulla nave spagnola e, alla mezzanotte, la squadra, aggiustati alla meglio i danni riportati dalle alberature, muoveva risolutamente verso il forte, per tentare l’ultimo colpo.

Già entusiasmati dal primo successo, i filibustieri si tenevano quasi sicuri di riuscire anche nella seconda impresa, sicché si fecero sotto il forte, senza nemmeno degnarsi di rispondere al fuoco intenso degli spagnoli e, giunti dinanzi alle scogliere, misero in acqua le scialuppe e presero terra in numero di trecento, assalendo vigorosamente le torri e le trincee.

Avevano però fatto troppo affidamento sulle loro forze e come aveva già detto Wan Stiller, trovarono un osso troppo duro per i loro denti.

Nonostante l’impetuosità dei loro attacchi e la moltitudine di bombe che lanciavano a mano sugli spalti, due ore dopo erano costretti a ripiegare più che in fretta, lasciando un numero considerevole di morti e portando con sé molti feriti.

La sconfitta inaspettata, turbò profondamente quei formidabili uomini, che si reputavano invincibili e anche lo stesso Morgan, il quale cominciava a dubitare di poterla spuntare.

Egli tornò col grosso della squadra, aveva fatto ritorno a Maracaybo, per vedere di prendere, d’accordo coi capi delle navi, qualche decisione disperata.