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Jolanda, la figlia del Corsaro Nero

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Prevalse dapprima l’idea di impressionare la guarnigione del forte, mandando al governatore alcuni prigionieri, coll’incarico di chiedergli un forte riscatto se voleva che risparmiassero la città. E così fu fatto.

Ottenuto un formale rifiuto, Morgan si rivolse agli abitanti i quali, per non vedersi completamente rovinati, si decisero, facendo uno sforzo supremo, a pagarlo.

Con quelle migliaia di piastre non miglioravano affatto la posizione dei filibustieri, i quali si vedevano sempre nell’impossibilità di lasciare la laguna e sopra il capo la minaccia di veder comparire il resto della squadra spagnola.

Decisero di scendere a patti, chiesero al comandante del forte che li lasciasse uscire, offrendogli in cambio la libertà di tutti i prigionieri, che si trovavano come ostaggi a bordo delle navi filibustiere, minacciando, in caso di rifiuto, d’impiccarli tutti agli alberi ed assicurandolo poi che, dopo, passerebbero egualmente sotto il forte.

La risposta fu tutt’altro che quella sperata, poiché il governatore fece loro dire da un suo messo, che se gli abitanti di Maracaybo avessero impedito l’ingresso ai pirati, come egli era risoluto d’impedirne l’uscita, non si sarebbero trovati in quelle tristi condizioni e che li impiccassero pure.

Morgan non era inumano e d’altronde non voleva offrire alla figlia del Corsaro Nero un così triste e feroce spettacolo. Aumentando però il pericolo e cominciando a mancare i viveri in Maracaybo, decise di tentare nuovamente la sorte.

Fece dividere fra i filibustieri le duecento cinquantamila piastre ricavate dal saccheggio nelle due città, parte in oro, parte in argento ed in pietre preziose, gli schiavi negri e le merci preziose che erano in grande quantità; poi, sopra piccoli legni, fece passare dietro le boscaglie del forte della Barra duecento dei suoi uomini, come se si preparassero ad assalire gli spagnoli da quella parte.

Appena però calarono le tenebre, li fece rimbarcare nascostamente sui legni.

Gli spagnoli, ingannati da quella manovra, sospettando che i filibustieri assalissero il forte dalla parte di terra, erano stati solleciti a piazzare da quella parte la maggior parte delle loro artiglierie, per schiacciarli facilmente.

Quell’inganno doveva essere la salvezza dei corsari. Infatti, col favor delle tenebre, la stessa notte, la squadra lasciava tacitamente la laguna, coi fanali spenti, imboccando audacemente lo stretto della Barra.

Quando gli spagnoli s’accorsero dello strattagemma, era troppo tardi per impedire ai loro odiati nemici l’uscita, ed invano fecero tuonare le loro artiglierie.

Appena giunto fuori di tiro, Morgan fece sbarcare la maggior parte dei prigionieri, per non avere le navi troppo ingombre, e, salutato il forte con una salva, si spingeva in alto mare senz’altre molestie.

Ancora una volta la fortuna aveva arriso a quell’audace filibustiere.

Capitolo tredicesimo. Fra il fuoco e le onde

Da due giorni, la squadra dei filibustieri aveva lasciate le acque di Maracaybo, navigando di conserva per essere pronta a dare battaglia alle tre fregate spagnole, che dovevano battere quel mare e che non avevano ancora preso parte al combattimento, quando la sera del terzo, mentre si trovava a una cinquantina di miglia dall’isola d’Oruba, s’alzò improvvisamente sull’orizzonte una nuvola nerissima, che non prometteva nulla di buono,.

L’atmosfera già da qualche ora aveva acquistata una trasparenza straordinaria, segno infallibile d’un prossimo uragano, ed il mare, quantunque apparisse tranquillo, esalava un odore strano, come se le acque si fossero improvvisamente corrotte.

Era la stagione degli uragani e dei tremendi maremoti, o razzi di mare, prodotti dai furiosi venti di ponente e che di frequente sconvolgono le Antille, grandi e piccole, causando disastri immensi.

Al sentire quell’odore caratteristico e al vedere il sole tramontare più rosso del solito, una certa inquietudine si era impadronita di tutti gli equipaggi della squadra che conoscevano per prova la violenza delle tempeste del mar dei Caraibi e dell’immenso golfo del Messico.

«Si prepara di certo una brutta notte» disse Carmaux a Wan Stiller, che guardava attentamente le prime stelle alzarsi sull’orizzonte, e che apparivano più grandi del consueto.

«Cattivo odore» rispose l’amburghese, fiutando a più riprese l’aria.

«Odor di bufera, compare».

«Il capitano Morgan ha avuta una buona idea di farci passare su questa fregata. È molto più solida della sua Folgore, che ha il cassero sconquassato e l’alberatura danneggiata».

«Si direbbe che presentiva la bufera» disse Carmaux.

«Abbiamo però una mina nella stiva».

«Una mina?»

«I prigionieri spagnoli, che potrebbero approfittare della tempesta per giuocarci qualche brutto tiro.

«Se io fossi stato il capitano, li avrei sbarcati assieme agli altri. Già temo che non caverà da essi grossi riscatti».

«Vi sono fra loro dei pezzi grossi, amico Carmaux».

«Il capitano Valera forse?»

«Ah!»

«Che hai, amburghese?»

«Hai mai chiesto a costui come è riuscito ad imbarcarsi sulla squadra spagnola, mentre noi l’avevamo lasciato nei sotterranei del convento? Non hai trovato strana la sua presenza su questa nave?»

«Infatti, è vero» disse Carmaux, che era stato colpito dalla riflessione dell’amburghese. «Perché quell’uomo invece di mettersi in salvo si è unito alla squadra? Che si trovasse sulla fregata anche il governatore?…»

«Di cui era l’anima dannata e l’amico intimo, come disse don Raffaele» aggiunse Wan Stiller. «Vorrei vederci un po’ chiaro in questa faccenda».

«Ed io non meno di te, amburghese» disse Carmaux.

«E il diavolo ce lo ha mandato qui, dove si trova la figlia del Corsaro Nero!»

«Teniamolo d’occhio, compare. Il nemico peggiore per la signora di Ventimiglia, dopo il conte di Medina, è quello».

Uno scricchiolìo si era fatto udire in alto. Le vele di pappafico e di contrapappafico giravano, sbattendo fortemente, sotto le prime raffiche.

Morgan era comparso in quel momento sul ponte, con Pierre le Picard e la signorina di Ventimiglia.

«Tempesta» disse volgendosi verso la fanciulla, che guardava verso ponente, dove la nuvola s’alzava rapidissima, tinta dagli ultimi riflessi del tramonto. «Non avrete paura, signora?»

«Sono la figlia d’un uomo di mare» rispose Jolanda, con voce tranquilla.

«Per quanto violenta sia, noi potremo reggere alle onde e alla furia dei venti» disse Morgan. «Sono le piccole navi della squadra che si troveranno a mal partito e non potranno seguirci. Pierre le Picard, prendi tutte le disposizioni necessarie per far fronte all’uragano. Non lasciamoci sorprendere. Temo qualche razzo di mare».

«Che cos’è?» chiese Jolanda.

«È un’onda mostruosa che si solleva improvvisamente, nell’epoca delle grandi maree, ed alla quale difficilmente le navi possono resistere. Fra il luglio e l’ottobre si ripete ogni anno due o tre volte e cagiona sempre danni immensi, specialmente sulle spiagge delle isole. Talvolta quel cavallone s’alza, quando il mare è quasi tranquillo, s’avvicina alle coste così lento che niuno crederebbe potesse causare incomodo alcuno. Quando però giunge a quattro o cinquecento passi, s’alza fulmineo, come sollevato da una forza misteriosa e piomba così tremendo, che spazza via città e borgate e trascina le navi, ancorate nelle rade, attraverso le campagne dove le lascia in secco. Qualche volta invece compare durante gli uragani e allora è più tremendo».

Un rombo formidabile, che si ripercosse lungamente nel seno della nuvola nera e che parve lo scoppio simultaneo d’una mezza dozzina di grossi pezzi d’artiglieria, interruppe la loro conversazione.

Quasi subito si udirono per l’aria dei lunghi fischi stridenti, come se mille correnti s’incrociassero, provenienti da varie direzioni, e l’alberatura della fregata fu scossa dalla cima degli alberetti ai travi inferiori.

Fra i fragori delle prime ondate, i fischi del vento e le note stridule dei mastri e dei contro-mastri, si udì la voce di Carmaux a gridare:

«Attenti alle gabbie e che la fortuna ci protegga!»

Il mare montava a vista d’occhio, mentre la nuvola nera copriva tutta la vôlta celeste, con rapidità fantastica, intercettando la luce degli astri.

Sulle acque del mar dei Caraibi era piombata una profonda oscurità, che i due grossi fanali di poppa della fregata non riuscivano a rompere.

Da ponente, i fischi continuavano a succedersi, seguìti da raffiche sempre più impetuose, che facevano crepitare le vele. Le onde vi facevano eco, muggendo sordamente.

«Sai che cosa mi ricorda questa notte?» chiese Carmaux, che stava alla ribolla, essendo uno dei migliori piloti della squadra filibustiera.

«Lo indovino» rispose l’amburghese, che lo aiutava in quella gravosa manovra. «La notte in cui il Corsaro Nero abbandonava fra le onde, sola, su una scialuppa, la madre della signora Jolanda, la figlia di quel maledetto duca».

«Sì, amburghese» rispose Carmaux, con voce commossa. «Anche allora il mare montava e la tempesta ci minacciava. Chi avrebbe detto che un giorno, il Corsaro avrebbe ritrovata la fanciulla che pur tanto aveva amata, regina d’una tribù di antropofaghi caraibi e che l’avrebbe sposata?»

«E come piangeva quella notte il Corsaro!…»

Un muggito spaventevole, che si fece udire al largo, soffocò le ultime parole dell’amburghese.

«È il razzo di mare che si forma» disse Carmaux. «Che cosa accadrà delle piccole navi della squadra? Badiamo che non ci piombi di traverso».

La fregata teneva testa alle onde, che già l’assalivano con furore e la scuotevano poderosamente, non ostante la sua mole relativamente enorme.

I gabbieri avevano già ammainato tutte le vele basse, non conservando che le gabbie ed i fiocchi, pure l’alberatura subiva ancora scosse violentissime, quando le raffiche la investivano.

 

Le altre navi cominciavano già a disperdersi. Si vedevano i loro fanali brillare in varie direzioni, alcuni verso il sud, altri verso levante, come se fuggissero dinanzi all’uragano. Morgan d’altronde, a mezzo di razzi, aveva loro segnalato di rifugiarsi dove meglio credevano, ben comprendendo che non avrebbero potuto seguirlo nella sua rotta.

A mezzanotte tutte erano scomparse. Certo avevano cercato di rifugiarsi verso le numerose isole che coprono le spiagge venezuelane, dove potevano trovare ottime rade.

La fregata però non aveva ancora deviato dalla sua rotta, e proseguiva verso il settentrione per raggiungere, se non la Tortue, almeno la Giamaica, dove non poteva correre pericolo alcuno, essendo colonia inglese ed aperta alle navi filibustiere che avevano ottenuto patenti di corsa contro gli spagnoli.

Il mare diventava sempre più spaventoso e le raffiche aumentavano di violenza. Il vento di ponente si scatenava, acquistando la forza prodigiosa che suole raggiungere nelle grandi tempeste, allorquando riesce a spostare perfino i grossi cannoni da trentadue delle batterie esposte alla sua furia.

Tuoni assordanti rimbombavano in seno alla nube nera, con un crescendo terribile, coprendo sovente la voce dei mastri e dei contro-mastri, mentre lampi abbaglianti si succedevano senza posa.

Morgan, quantunque prevedesse che la bufera avrebbe ben presto raggiunta la massima violenza, mostrava una calma ed una tranquillità d’animo ammirabile. Se era un formidabile uomo di guerra, era pure uno dei più valenti marinai dell’epoca.

Ritto sul ponte di comando, col portavoce in mano, impartiva gli ordini senza che si sentisse nel suo accento alcuna vibrazione che dimostrasse la menoma apprensione.

Jolanda, che si era rifiutata di scendere nella sua cabina, stava presso di lui, aggrappata alle traverse dal ponte, sfidando intrepidamente gli spruzzi delle onde che giungevano talvolta fino a quel punto elevatissimo della fregata, e guardando con curiosità, esente da qualsiasi timore, i baratri che si formavano fra i cavalloni ed entro i quali la grossa nave affondava con mille paurosi scricchiolii.

«Non avete paura?» le chiedeva sovente Morgan.

«Sono la figlia d’un uomo di mare» rispondeva ella, sorridendo. «Su questi mari mio padre ha sfidato gli uragani. Perché non debbo sfidarli anch’io?»

Verso le due del mattino, un clamore assordante s’alzò in mezzo alle onde. Pareva che migliaia e migliaia di persone urlassero tutte insieme e che invocassero soccorso.

Morgan era diventato un po’ pallido, e la sua fronte si era aggrottata.

«Che cos’è?» chiese Jolanda.

«Il razzo di mare che si forma» rispose il filibustiere.

A un tratto, parve che il cielo s’incendiasse da levante a ponente. Alla notte tenebrosa successe una vera notte di fuoco.

Le onde parevano avvampare, come se nel loro seno si fossero aperti centinaia di vulcani sottomarini.

I lampi si succedevano ai lampi, e così vividi e intensi, che i marinai si sentivano abbacinati. Una vera pioggia di folgori cadeva sul mare e se ne vedevano perfino di quelle a due ed anche a tre branche.

L’equipaggio della fregata guardava con terrore quello spettacolo, cogli occhi socchiusi. Anche Jolanda, per la prima volta, sembrava scossa.

«Signor Morgan!…» esclamava. «Che cosa succede?»

«Attraversiamo una meteora di fuoco, signora. Scendete nel quadro!… Scendete!…»

In quel momento si udì una voce a gridare:

«Lassù, sul mostravento del maestro!…»

Tutti apersero gli occhi, guardando sulla cima dell’alberatura.

Una sfera, non più grossa di un arancio, che pareva incandescente e proiettava una luce azzurrognola, girava intorno al mostravento del contrapappafico, come se cercasse di posarsi sulla punta della banderuola.

D’improvviso, scoppiò con una detonazione secca, che parve prodotta dal frangersi d’una granata, poi una lingua di fuoco serpeggiò lungo l’albero, avvolgendo le sartìe ed i paterazzi e raggiunse la gran gabbia, spandendo all’intorno un acuto odore di zolfo.

Un urlo di spavento si era alzato fra i filibustieri della fregata.

«Al fuoco!… Al fuoco!…»

La gran gabbia si era incendiata e le fiamme, alimentate dal vento, si erano allungate verso la vela latina dell’albero di trinchetto.

Morgan stava per slanciarsi giù dal ponte di comando, seco trascinando la figlia del Corsaro, quando udì Pierre le Picard a urlare:

«Anche la latina ha preso fuoco ed il razzo di mare romba al largo!…»

Morgan soffocò a stento una imprecazione, per non allarmare la fanciulla. Non poté però trattenere un grido di furore.

«È la maledizione che piomba su noi!»

Riacquistando però prontamente il suo sangue freddo, aiutò Jolanda a scendere la scala, che le onde volta a volta attraversavano.

«Signora» le disse con voce un po’ commossa, guardandola negli occhi. «Morgan non è uomo da lasciarsi abbattere; abbiate fiducia in me».

«Non ho paura» rispose Jolanda. «So che uomo siete».

«Lasciate il ponte, signora. Siamo fra le onde ed il fuoco, ed i pericoli non si possono sempre prevedere».

«Vi obbedisco, capitano Morgan».

«Wan Stiller, a te la signora!…» gridò il filibustiere, vedendo passare l’amburghese con dei buglioli in mano.

Guardò la fanciulla che si allontanava, stretta al braccio del filibustiere, sempre tranquilla, come se nessun pericolo la minacciasse, poi si slanciò attraverso la tolda, dove regnava una viva confusione, gridando con voce stentorea:

«Alle pompe!…»

La fregata si era messa alla cappa, colle sue vele della mezzana, per fuggire dinanzi all’uragano che la investiva con forza terribile, trascinandola verso levante. L’albero maestro ed il trinchetto erano entrambi in fiamme.

I paterazzi, le sartìe, le manovre correnti, i pennoni e le coffe bruciavano come fiammiferi, essendo imbevuti di catrame e le vele lasciavano cadere sulla coperta lembi di tela accesa e scintille in gran numero.

L’alberatura poteva considerarsi come perduta, pericolo gravissimo in mezzo ad una bufera, che poteva durare molte ore. Senza le vele la nave era priva d’ogni stabilità.

Al comando di Morgan, i corsari avevano messe in opera la pompa di prora e quella di poppa, ma la manovra era tutt’altro che facile, colle onde che ad ogni istante invadevano la coperta, minacciando di spazzare via gli uomini, che si erano collocati alle traverse.

I getti, d’altronde, non potevano avere grande efficacia in alto. Gli attrezzi, anche bagnati, bruciavano egualmente e, lasciando cadere ad ogni istante od un pezzo di pennone infiammato, od un lembo di tela ardente, od un paterazzo, esponevano gli uomini ad un continuo pericolo.

Per di più, essendo il vento instabile, vi era la probabilità che anche l’albero di mezzana prendesse fuoco.

Tuttavia quei fieri uomini, abituati da lunga pezza a tutti i pericoli, lottavano disperatamente. Alcuni avevano già assalito i due alberi colle scuri, per farli cadere in mare, quando Morgan, vedendo che non bastavano, diede l’ordine di chiamare in coperta i prigionieri spagnoli, che si trovavano racchiusi nella stiva e che, vedendo quei bagliori sinistri, urlavano spaventosamente.

Erano una trentina, fra cui il capitano Valera e don Raffaele.

Udendo però quel comando, Carmaux aveva fatto un salto.

«Ecco un’imprudenza che noi possiamo pagare cara» aveva detto a Wan Stiller, che lo aveva raggiunto. «Dei nemici in coperta, quando il fuoco è a bordo!… Compare, apri gli occhi!…»

«Credo che tu abbia torto» rispose l’amburghese. «La loro pelle vale la nostra e ci terranno a salvarla».

«Gli altri sì, ma ve n’è uno che sarebbe ben lieto di mandarci tutti in fondo al mare. Apri gli occhi, compare».

«Di chi sospetti?»

«Del capitano Valera».

Un urlo scoppiato a prora li fece rabbrividire.

«Largo!… Cade il maestro!…»

Una turba di gente passò a corsa sfrenata fra di loro, spingendoli verso le murate. Erano gli uomini delle pompe, che si salvavano sul cassero, non ostante le grida ed i sagrati di Pierre le Picard e di Morgan.

Nel medesimo istante si udirono i gabbieri del bompresso ad urlare:

«Bada, pilota!… Il razzo monta!…»

Capitolo quattordicesimo. Il razzo di mare

Uno sgomento inenarrabile si era impadronito dei sessanta uomini che formavano l’equipaggio della fregata, all’annuncio dato dai gabbieri, che il temuto razzo di mare stava per montare ed irrompere contro la fregata.

L’incendio dell’attrezzatura dunque non era un pericolo abbastanza grave, perché vi si mescolasse la furia delle onde? Mancava ancora quel tremendo cavallone, terrore dei naviganti del Golfo del Messico e del Mare dei Caraibi, per mettere a più dura prova la sorte, già molto precaria, della nave?

«Siamo perduti!» aveva esclamato involontariamente Carmaux, che si era precipitato verso il cassero, dove si trovavano Morgan e Pierre le Picard.

La fregata, investita da onde spaventevoli, che montavano sopra i bordi con muggiti assordanti, e quasi priva di vele, trabalzava allora disordinatamente, rovesciandosi ora sul babordo ed ora sul tribordo.

L’albero maestro, già privo dei paterazzi e delle sartìe, tutto fiammeggiante dalla base alla cima come una torcia colossale, oscillava in avanti ed indietro con mille lugubri scricchiolii, lasciando cadere in coperta ora un pezzo di pennone ed ora un frammento di coffa o di crocetta.

Una vera pioggia di tizzoni ardenti rimbalzava in coperta, minacciando di dar fuoco al catrame, sparso fra le connessure delle tavole e di bruciare le imbarcazioni, che erano state levate dalle gru onde i cavalloni non le portassero via.

Morgan, che conservava il suo solito sangue freddo, aveva dato ordine di abbandonare le pompe, diventate ormai inutili. Non si preoccupava che del razzo di mare, che poteva subissare di colpo la fregata.

«Quattro uomini alla ribolla del timone!» aveva urlato. «Attenti, a virare!… Salvate la mezzana!»

Uno scroscio orribile aveva fatto seguito alle sue parole. l’albero maestro, già carbonizzato alla base e privo dei paterazzi, delle sartìe e delle griselle, dopo aver oscillato alcuni istanti, descrivendo un arco di fuoco, era caduto attraverso la fregata fracassando le impagliettature e rovesciando in mare un cannone da caccia della coperta.

Il rimbombo era stato tale, che Morgan e Pierre le Picard, per un momento aveva temuto che anche i corbetti di tribordo avessero ceduto.

Fortunatamente sopraggiunse un’onda violenta era sopraggiunta che dopo aver spento, con mille sibili, le antenne fiammeggianti ed i rimasugli della velatura, portò via l’albero, permettendo alla nave di risollevarsi.

Era tempo. Il razzo di mare stava per rovesciarsi sulla fregata con impeto irresistibile.

Si era formato, o meglio, era apparso a cinque o sei gomene dalla prora e s’avanzava con mille muggiti, come una immensa muraglia liquida, la cui altezza non poteva misurarsi.

Sulla cima, una frangia di spuma che rifletteva i bagliori delle fiamme, avvolgenti ancora l’albero di trinchetto, s’arricciava e si rompeva sotto le incessanti e poderose sferzate del vento.

I marinai della fregata, vedendolo avanzarsi, si erano rifugiati precipitosamente sul cassero, che era la parte più alta e quindi la meno esposta.

«Aggrappatevi e tenetevi fermi!…» tuonò Morgan. «Wan Stiller!… Carmaux!… Nel quadro e impedite l’uscita alla fanciulla!…»

Aveva appena pronunciate quelle parole ed i due filibustieri erano scomparsi nel quadro, chiudendo la porta, quando la mostruosa onda si rovesciò con un muggito così potente da soffocare i tuoni del cielo.

La nave, investita a prora da quell’enorme massa liquida, si rizzò bruscamente, quasi verticalmente, poi piombò in un abisso che pareva non avesse fondo, con mille scricchiolii. Pareva che i madieri ed i corbetti si spezzassero e che tutti i puntelli del frapponte cadessero.

Un colpo di mare la avvolse da prora a poppa, tutto spezzando e, frantumando le murate, uscì sopra il cassero, sbattendo in tutte le direzioni gli uomini che l’occupavano.

Quando la fregata tornò a galla, il razzo era già passato e s’allontanava verso il sud con un rombo spaventevole, ed una profonda oscurità avvolgeva il mare.

Il cavallone, che si era rovesciato sulla tolda, aveva schiantato l’albero di trinchetto e l’aveva portato via, come fosse stato un fuscello di paglia, spegnendo contemporaneamente l’incendio.

Anche parecchi uomini, fra cui non pochi prigionieri spagnoli, erano pure scomparsi, travolti e spinti fuori dai bordi da quel torrente d’acqua, che si era infranto contro il cassero, dopo aver spazzato il castello e la tolda.

 

La nave era sfuggita al colpo datole dal razzo, ma in quali condizioni si trovava!… Si poteva ormai considerare come un rottame, destinato, presto o tardi, a diventare preda dei flutti.

Dei suoi alberi non rimaneva che quello di mezzana, perché anche il bompresso, che primo aveva ricevuto l’urto, era stato strappato di colpo; le sue murate erano state sventrate in tutta la loro lunghezza; le scialuppe erano scomparse e perfino il timone era ormai così sgangherato da non poter più servire a nulla. E, per colmo di disgrazia, la tempesta continuava ad infuriare e non era improbabile che un nuovo razzo si formasse e tornasse a piombarle addosso.

«È finita o sta per finire?» chiese Pierre le Picard a Morgan che si era spinto fino sul castello di prora, per rendersi conto dei danni subiti dalla fregata.

«Il disastro non poteva essere maggiore» rispose il filibustiere. «La nave è perduta e non vale più d’una zattera. Se si trattasse di noi soli, poco m’importerebbe. Ne abbiamo viste di peggiori e ce la siamo sempre cavata con fortuna».

« Ti preoccupi per la figlia del Corsaro?»

«Sì» rispose Morgan.

«La salveremo a dispetto delle onde e dei venti» disse Pierre le Picard. «Dove supponi che siamo?»

«Il vento ci ha spinti sempre verso levante, e, tenendo conto della velocità che imprimeva alla fregata, io ritengo che noi ci troviamo all’altezza dell’isola della Tortuga».

«Che corsa!… Dove andremo a dar di cozzo noi, o dove cercheremo un rifugio?»

«Certo contro le isole della Nueva Esparta» rispose Morgan.

«Ci sono spagnoli su quelle isole?»

«Lo ignoro».

«Sarebbe meglio evitarle».

«Faremo il possibile».

«Se potessimo cacciarci nel golfo di Paria?»

«È quello che tenteremo, per non farci sorprendere, in così miserando stato, da qualche nave spagnola. Aspettiamo che l’uragano si calmi, poi vedremo».

Pareva invece che la tempesta non avesse, almeno per il momento, alcun desiderio di andarsene altrove.

Il vento continuava ad infuriare sempre da ponente, trascinando la fregata verso levante, essendo rimasta spiegata la grande vela latina sull’albero di mezzana.

Anche il mare non accennava a calmarsi e le onde si seguivano, sempre altissime, scrollando incessantemente la povera nave e percuotendo poderosamente i malfermi fianchi.

L’equipaggio però, vedendo che nessuna via d’acqua si era aperta nello scafo e che nessun altro razzo di mare li minacciava, aveva ripreso animo e aveva messo un po’ d’ordine sulla tolda, sgombrandola dai rottami e dagli avanzi dei pennoni e dei cordami.

Alcuni marinai tentarono di saldare alla meglio il timone, ma dovettero rinunciarvi, a causa dell’incessante irrompere delle onde.

Al mattino, quando la luce riapparve, i filibustieri si contarono. Quattordici dei loro e sei prigionieri spagnoli erano scomparsi durante la notte, strappati dal razzo di mare.

«Fosse stato almeno inghiottito anche il capitano Valera» disse Carmaux, che presenziava all’appello fatto da Pierre le Picard.

«Invece è là che ci guarda ridendo» rispose Wan Stiller. «Si direbbe che egli ha indovinato il tuo desiderio».

«E don Raffaele?»

«È ancora vivo».

«Che batosta però per la fregata!…»

«E delle altre navi che cosa sarà accaduto?»

«Se il razzo le ha raggiunte in alto mare le avrà sommerse di colpo» rispose Carmaux. «Non erano in grado, eccettuata forse la Folgore, di resistere a tale cavallone».

«Dovremo dunque lasciarci trasportare dall’uragano, finché troveremo qualche scogliera o qualche spiaggia che ci arresti?» si chiese Wan Stiller, che pareva preoccupato. «Fosse almeno una spiaggia deserta!…»

« Tu temi gli spagnoli che, è vero, compare?»

«Hanno grosse colonie nel Venezuela e potrebbero scorgerci, e darci la caccia. Che cosa ne dite, don Raffaele?» chiese, scorgendo presso di sé il piantatore.

«Se vi prendono vi impiccheranno e che vi ritoglieranno la figlia del Corsaro» rispose il piantatore con maligna compiacenza.

«In quanto all’impiccarci, credo che non abbiano delle funi abbastanza resistenti per noi» disse l’amburghese. «Siamo ancora in buon numero e abbiamo a bordo polvere e palle in abbondanza».

«Palle sì, ma polvere… vorrei un po’ vedervi a caricare i cannoni».

«Che cosa dite, don Raffaele?» chiese Carmaux, corrugando la fronte.

«Io non so che cosa il razzo di mare abbia sfondato, vi posso solamente dire che ho veduto entrare dell’acqua nel frapponte, presso la santabarbara e che i depositi di polvere devono essere sommersi».

«Tuoni d’Amburgo!» gridò Wan Stiller. «È impossibile. Noi non abbiamo urtato in alcun luogo».

«Eppure qualcosa ha urtato e sfondato i madieri» disse lo spagnolo. «Andate un po’ ad assicurarvi».

Carmaux e l’amburghese non l’ascoltavano più. Stavano per scendere la scala che metteva nel frapponte, quando udirono fra i fischi furiosi del vento ed i muggiti crescenti delle onde, un rotolare cupo, accompagnato da colpi sordi, come se degli arieti percuotessero furiosamente la nave.

«È acqua che entra?» si chiese Wan Stiller, fermandosi, mentre Carmaux staccava una delle lampade che illuminavano la camera comune dell’equipaggio.

«Si direbbe che rotolino dei cannoni » rispose il francese, diventando pallido. «Che i pezzi della batteria abbiano spezzati i freni?»

«O che qualcuno li abbia invece tagliati?»

Scesero a precipizio la scala ed entrarono nel frapponte, dove s’arrestarono, mandando un urlo di furore.

Quattro pezzi della batteria, spezzate le funi che li trattenevano ai sabordi, correvano all’impazzata per il frapponte, a seconda che la fregata si piegava sul babordo o sul tribordo.

Quelle masse di bronzo, andavano e venivano con cupo fragore, che non si udiva sopra coperta a causa degli ululati del vento e dei muggiti delle onde, e investivano i fianchi del legno con foga irresistibile, schiantando i puntali e fracassando a poco a poco i bagli, i corbetti ed i madieri.

Già uno squarcio si era aperto all’estremità opposta del frapponte, in prossimità della Santa Barbara e vi penetravano attraverso grossi fiotti d’acqua, che correvano come torrenti verso poppa, colando nella sentina e nei depositi.

«Qui è stato commesso un tradimento» disse Carmaux. «È impossibile che il rollìo abbia potuto spezzare dei paranchi di quella robustezza».

«Da chi?»

«Da chi? Dai prigionieri spagnoli. Qualcuno deve aver approfittato dell’incendio dell’alberatura, per scendere qui inosservato e tagliare le funi. Hanno scelti i cannoni prossimi al deposito delle polveri per inondarci le munizioni».

«Se non riusciamo ad arrestarli finiranno per sfondare i fianchi della fregata».

«Diamo l’allarme, compare!»

Si erano slanciati entrambi su per la scala, avvertendo Pierre le Picard del grave pericolo che correva la nave.

Una rauca imprecazione era sfuggita al filibustiere.

«Non bastavano la perdita dell’alberatura ed il razzo che ci ha sconquassati!…» esclamò. «A me, marinai!»

Quindici o venti corsari erano accorsi, muniti di aspe e di manovelle, e si erano introdotti con precauzione nel frapponte, portando parecchi fanali.

Quei quattro pezzi parevano dotati di vita. Si arrestavano un momento, mostrando le gole nere, poi riprendevano la corsa tutti insieme, scorrendo velocemente sopra le loro ruote massicce, con un fragore di ferraccio.

Di quando in quando, qualcuno andava a dare di cozzo contro uno dei pezzi collocati dietro i sabordi, girava su sé stesso, poi tornava ad avventarsi in direzione opposta, senza che si potesse prevedere dove sarebbe andato a vibrare un nuovo colpo.

«È il nostro colpo di grazia!» aveva esclamato Pierre le Picard. «Se non riusciamo a frenarli, spezzeranno i paranchi degli altri e allora sarà la fine per la fregata.

«Coraggio, camerati! Ci va di mezzo la salvezza di tutti!… Cento piastre a chi ne ferma uno!…»

Poi, per incitare i suoi uomini che titubavano, temendo di venire travolti da quei pesantissimi pezzi, strappò ad un marinaio un’aspa e si slanciò risolutamente nel frapponte, subito seguíto da Carmaux e da Wan Stiller.

L’impresa a cui si accingevano era però così difficile e così pericolosa, che i loro compagni si sentirono correre per le ossa un brivido di terrore. Avrebbero amato meglio lanciarsi all’abbordaggio d’un legno, tre volte più grosso della fregata e zeppo di nemici, piuttosto che arrestare quei mostri di bronzo.