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La città del re lebbroso

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«Signore,» disse il pilota. «io ho già cacciato altre volte quegli animali, e vi assicuro che è necessario aver buone gambe, per evitare le loro cariche furiose. Non conducete la fanciulla, ve lo ripeto.»

«Io vi seguirò, signor Roberto,» disse invece Len, con accento risoluto.

Il pilota fece un gesto di stizza, ma non insistette oltre.

«Andiamo,» disse Lakon-tay. «Abbiamo quattro fucili e faremo fronte ai tori. Non li assaliremo che quando saremo ben vicini. Siate prudente, dottore: giochiamo la vita.»

Presero le carabine e sbarcarono, seguiti da Feng, il quale era, come abbiamo detto, un bravo tiratore e anche un valente cacciatore.

I bufali avevano già preso terra cinquecento passi più innanzi ed erano scomparsi fra i boschetti e le macchie di bambù.

I cacciatori, dopo aver notato il luogo ove erano approdati quei pericolosi animali, si cacciarono a loro volta fra le macchie, aprendosi il passo con precauzione. Volevano sorprendere i bufali e non già venire sorpresi, perciò non s’avanzavano che con estrema prudenza, cercando di non far rumore.

Quelle precauzioni erano necessarie, poiché i bufali dell’Indocina sono più terribili di tutti quelli delle altre regioni, più vendicativi e anche più robusti.

Rassomigliano ai buoi comuni, ma hanno la testa più corta e più larga, le corna più solide, oltremodo ravvicinate alla base e colle punte incurvate all’indietro, la groppa alta e le gambe corte e vigorose, gli occhi piccoli, quasi sempre iniettati di sangue, con un’espressione selvaggia e cattiva.

Tutte le foreste della immensa penisola indocinese e più specialmente i luoghi paludosi sono frequentati da bande di bufali. Essi s’incontrano però più di frequente lungo i fiumi, essendo assai amanti dell’acqua e dei bassifondi melmosi, ove trovano certe erbe dure che i buoi sdegnerebbero. Le correnti più rapide non sono un ostacolo alle loro emigrazioni, essendo essi dei nuotatori abilissimi.

Vivono per lo più in banchi piuttosto numerosi, ma di tanto in tanto terribili battaglie scoppiano fra di loro, ed i giovani cacciano i vecchi a colpi di corna, ciò che d’altronde succede anche fra gli elefanti.

E quei vecchi, che vivono solitari, sono appunto i più terribili. Nessun pericolo li trattiene e caricano con eguale slancio un solo uomo come un reggimento di soldati, con una specie di frenesia o meglio di pazzia.

E sono questi inoltre i più furbi e i più vendicativi. Inseguiti e anche feriti non fuggono. Si cacciano bensì nelle macchie, ma per farne il giro e sorprendere alle spalle i cacciatori.

Guai allora a chi si trova sulla loro corsa! Lanciano in aria gli uomini, fracassando loro le costole, e sventrano e gettano al suolo moribondi i cavalli. Nemmeno gli elefanti li atterriscono, e si sono veduti dei tori assalire quei colossi montati dai cacciatori e tentare di sollevarli colle loro corna!

Feng, che nel suo paese aveva già cacciato altre volte quei pericolosi animali e che sapeva quanto fossero terribili, a mano a mano che si avvicinava alle macchie dove supponeva pascolassero, raddoppiava le precauzioni. Piegava dolcemente le immense canne senza farle scricchiolare, poi si arrestava per ascoltare, quindi riprendeva la marcia.

Dopo un centinaio di passi trovò fortunatamente un sentiero, aperto probabilmente dai rinoceronti, animali che al pari dei bufali amano le paludi e le terre umide e che dove passano lasciano una traccia larghissima.

«Seguiamolo,» disse a Lakon-tay. «Se non m’inganno, ci condurrà là dove pascolano i bufali.»

«Tenete pronte le armi e non fate fuoco che a bruciapelo. La loro pelle è grossa e resistente al pari di quella degli elefanti.»

«Non resisterà alle nostre palle coniche,» disse Roberto.

«Le nostre palle non sono le lance degli Stienghi. Quelle sì che forano bene, quando si raddoppia la carica dei fucili.»

«Sparano forse delle lance gli Stienghi?» chiese il dottore.

«O meglio dei giavellotti,» rispose Lakon-tay. «E ottengono un buon successo. Invece delle palle, i nostri cacciatori di bufali adoperano un ferro da freccia a bocciolo del peso di quattro o cinquecento grammi, largo quattro o cinque centimetri, e grosso, verso la metà, non più di uno.

Sotto vi imperniano un manico fornito d’un legno pesantissimo e durissimo, che ha il calibro della canna del fucile.

Quel proiettile, che è lungo abbastanza per superare l’arma di un mezzo piede, penetrando nel corpo del bufalo, produce delle ferite così orribili da causare la morte. Aggiungete che sovente i cacciatori avvelenano la punta della freccia.»

«M’immagino gli strappi che devono produrre simili proiettili.»

«Altri invece adoperano delle frecce a fusto schiacciato, che fissano ad un manico fendendone la cima e unendovi la freccia mediante una solida legatura. Queste pesano molto più delle altre, perfino un chilogrammo e mezzo, e uccidono sempre, tanta è la forza del proiettile.»

«Si sparano quei fucili a breve distanza?»

«A venti o trenta metri, non di più e…»

«Silenzio, padrone,» disse in quel momento Feng. «Odo delle canne spezzarsi. I bufali devono essere vicini.»

Il dottore guardò Len. La fanciulla, pur sapendo che poteva correre il pericolo di venire assalita, era, come sempre, calmissima.

«Len-Pra, tenetevi dietro di me e non fuggite senza che io ve lo dica,» disse. «Io vi farò scudo col mio corpo.»

La voce di Roberto era così commossa, che la fanciulla lo guardò un po’ sorpresa.

«Farò come vorrete, signor Roberto,» disse poi, alzando la carabina che aveva già armato. «Non mi allontanerò da voi.»

«Non sparate che a colpo sicuro.»

«Dopo di voi, sì…»

In mezzo ai bambù si udivano degli scricchiolii, come se dei grossi animali cercassero d’aprirsi un passaggio.

«S’avanzano,» disse Feng, sottovoce.

«Che ci abbiamo fiutati?» chiese Lakon-tay.

«È possibile, signore. Sdraiatevi fra le canne e fate fuoco sul primo che appare, che deve essere un toro. Ucciso il capo, le giovenche non oseranno assalire.»

Si gettarono tutti a terra, tenendosi l’uno presso l’altro per meglio potersi soccorrere a vicenda. Le canne in quel luogo erano così fitte che li coprivano interamente.

I fruscii e gli scricchiolii aumentavano. La mandria s’avanzava lentamente, cercando forse un luogo per riposarsi. Di quando in quando si udiva un rauco muggito, poi delle canne cadevano a destra ed a sinistra sotto le cornate del capofila.

Pochi minuti dopo, una testa armata di lunghissime corna apparve ad una decina di metri.

«Sotto la gola e alla spalla,» sussurrò Roberto a Len.

L’animale, dopo una breve esitazione, aveva allontanato le grosse canne che lo stringevano da tutte le parti.

Era un toro di dimensioni enormi, dal pelame nero sul dorso e rossastro sui fianchi.

Udendo lo scricchiolio dei grilletti delle carabine, si voltò vivamente, guardando verso il luogo ove si tenevano celati i cacciatori.

Abbassò improvvisamente la testa come per caricare, ma in quel momento rimbombarono quattro spari.

Il toro, colpito in più parti, stramazzò pesantemente al suolo, fulminato da quella scarica sparata quasi a bruciapelo.

Fra le canne si udirono subito dei muggiti, poi dieci o dodici corpacci s’aprirono violentemente il passo e scomparvero nel folto della macchia, col fragore d’un treno diretto, tutto abbattendo nella loro corsa precipitosa.

«È nostro!» gridò allegramente il dottore, balzando in piedi e facendo atto di slanciarsi verso il toro.

Feng fu pronto ad arrestarlo.

«No, signore, non accostatevi senza aver prima ricaricato la carabina.»

«È morto, amico.»

«Fermatevi, dottore,» disse Lakon-tay. «Questi animali posseggono una vitalità e una vigoria prodigiosa, e talvolta si fingono morti per assalire poi improvvisamente i cacciatori.»

Ricaricarono le carabine, poi si accostarono con precauzione all’animale.

Non dava più segno di vita: due palle l’avevano colpito ad una spalla e le altre due presso la gola. La morte era stata istantanea.

«E gli altri, che ritornino?» chiese Lakon-tay. «Tu sai, Feng, che sono eccessivamente vendicativi.»

«Può darsi, signore, che stiano facendo il giro della macchia per sorprenderci alle spalle. Affrettiamoci a raggiungere la barca. Manderemo poi qui i battellieri a fare a pezzi il toro.»

«E la colazione?» chiese il dottore.

«La faremo più tardi, signore. Non è prudente fermarci qui per ora. Lasciamo che la mandria si calmi o si allontani.»

Temendo giustamente di venire da un momento all’altro assaliti furiosamente dai compagni del morto, s’affrettarono a uscire dalla macchia ed a raggiungere la riva del Men-Sak. Là almeno non correvano il pericolo di venire sorpresi.

«Si vedono i bufali?» chiese il dottore.

«No,» rispose Feng. «Forse avranno continuato la loro corsa verso la palude.»

«E mi dite che sono così vendicativi?»

«Sono certo che a quest’ora sono rientrati nella macchia, sperando di sorprenderci e vendicare la morte del compagno. Sono bestie cattive, signore.»

«Non assaliranno poi i nostri uomini?»

«Non rimarranno molto nella macchia, dove non possono trovare le erbe dure e amare che servono loro di nutrimento.»

«Seguiamo la riva,» disse Lakon-tay. «Può darsi che facciamo l’incontro di altra selvaggina. Mi sembra impossibile che non vi siano dei cinghiali qui.

Se non troviamo altro da ammazzare, ci accontenteremo per ora delle noci di cocco. Ecco là un gruppo di quelle belle palme che si piegano sotto il peso delle loro frutta.»

Capitolo XVII. I piani del puram

Due ore dopo Lakon-tay ed i suoi compagni giungevano alla scialuppa carichi di noci di cocco e di squisitissimi manghi.

Feng, che li aveva preceduti, aveva già mandato nella boscaglia parte dei battellieri per scuoiare e fare a pezzi il bufalo. Nessun pericolo poteva minacciarli, poiché i compagni del morto erano stati già veduti riattraversare la palude per raggiungere un’altra isola che si scorgeva un po’ più a nord-est. Altri animali non erano approdati. Solo dopo il mezzodì i battellieri fecero ritorno con degli enormi pezzi di carne sanguinante. Avevano scelto le parti migliori, non avendo sale sufficiente per conservarla tutta, né tempo disponibile per seccarla.

 

La stagione delle piogge non era lontana e Lakon-tay non voleva fare delle lunghe fermate, essendo il lago Tuli-Sap ancora così distante.

Dopo una colazione abbondante, la scialuppa riprese la sua corsa, per giungere al villaggio prima che la sera calasse. I battellieri, ben pasciuti e riposati a sufficienza, le impressero una tale velocità, che raggiunsero la borgatella segnalata dal pilota qualche ora prima che il sole tramontasse.

Anche quella non era che una miserabile stazione fluviale, composta di una ventina di capanne piantate su pali per difesa dagli assalti delle tigri, e abitata da qualche centinaio di raccoglitori d’olio e di cercatori di polvere d’aquila.

Lakon-tay fece rizzare le tende all’estremità del villaggio dove la scialuppa era approdata, e fece alcune compere di riso, l’unica derrata che esisteva ed anche in scarsa quantità, giacché, come abbiamo detto, i Siamesi al pari dei contadini cinesi non domandano di più per vivere, tanto sono sobri.

Appena terminata la cena il pilota chiese a Lakon-tay il permesso di assentarsi. Doveva recarsi ad una fattoria poco lontana per accaparrare una partita di pimento che avrebbe imbarcato al ritorno.

«Se tardo, non preoccupatevi per me,» aveva detto, nell’allontanarsi. «Conosco il paese.»

Feng, che temeva potesse correre qualche pericolo, non già da parte degli abitanti bensì delle belve, si offerse di accompagnarlo, ma ne ebbe un rifiuto reciso.

Il pilota, attraversata la borgata, prese un sentiero che serpeggiava fra alcune risaie, seguendo un argine abbastanza largo.

Se qualcuno lo avesse seguito, si sarebbe forse accorto che quell’uomo aveva ben altre preoccupazioni che quella di accaparrarsi una partita di pimento.

Si arrestava di frequente, guardandosi alle spalle, e cercava di tenersi sempre celato dietro le alte canne palustri che fiancheggiavano l’argine, come se temesse di venire spiato.

Giunto all’estremità della risaia, balzò nell’acqua e stette parecchi minuti immobile, osservando attentamente il sentiero che aveva fino allora percorso.

«Nessuno mi ha seguito,» mormorò. «Non hanno alcun sospetto su di me.»

Diresse lo sguardo verso est, fissandolo su un gruppo di vaste capanne che sorgeva in mezzo ad una piantagione di banani, sormontato da un’antenna dipinta in rosso.

«È quella la fattoria di Mien-Ming,» disse. «Sono parecchi anni che non vengo qui, eppure la riconosco ancora.

Sarà già arrivato il padrone? I cavalli sono stati scelti con cura e la mia scialuppa si è fermata abbastanza a lungo presso le isole.»

Attraversò l’ultimo tratto della risaia, guazzando nel fango e tenendo gli sguardi fissi sui gruppi di canne in mezzo ai quali poteva tenersi imboscata qualche tigre affamata, poi prese terra sul margine d’una piantagione d’indaco.

Cercò un sentiero e, scopertolo, si avviò verso la fattoria. Colà non aveva da temere un assalto improvviso, essendo le piante bassissime, tuttavia per maggior precauzione si tolse dalla spalla la lancia ed impugnò il coltellaccio dalla lama quadrata ed affilatissima.

Appena ebbe raggiunto i primi gruppi di banani, estrasse un pi e lanciò alcuni fischi stridenti. Alla terza nota udì un’altra chiarina rispondere a breve distanza.

«Il padrone è giunto,» mormorò.

Rispose con una nota più acuta, poi attese.

Non erano trascorsi dieci minuti, quando un uomo seguito da altri due, armati di carabine e di coltellacci, sbucò fra le immense foglie d’un gruppo di banani: era Mien-Ming.

«Tu, Kopom!» esclamò il puram di Bangkok, facendo un gesto di stupore.

«Sì, signore,» rispose il Cambogiano, sorridendo. «Ho preso tutte le precauzioni per giungere in tempo all’appuntamento che mi avevi dato. Che cavalli possiedi! Credevo di non trovarti qui.»

«Dunque?» chiese il puram.

«Tutto è riuscito secondo i tuoi desideri, signore. Ormai Lakon-tay mi ha in sua compagnia, e non lo lascerò più senza tuo ordine.»

«Il balon

«Rubato e poi affondato in mezzo al Men-Sak.»

«Non hanno alcun sospetto?»

«Da quanto ho potuto apprendere, hanno dato la colpa ai pirati.»

«E i battellieri?»

«Si sono ubriacati senza farsi pregare. Io però al tuo posto, invece d’un sonnifero, avrei mescolato un po’ di quel veleno che ha mandato all’altro mondo i poveri S’hen-mheng

«Avrei forse fatto nascere dei sospetti!»

«Non ne hanno alcuno, signore.»

«Nemmeno su di te?»

«Chi vuoi che supponga di trovare Kopom sull’alto corso del Men-Sak? E poi, non sono a sufficienza trasfigurato, dopo che mi sono sfregiato così bene il viso e lasciato crescere i capelli? Guarda, padrone: ho tre tagli sulla guancia destra e altrettanti su quella sinistra.»

«Infatti sei quasi irriconoscibile,» disse Mien-Ming, «e ammiro il tuo sacrificio.»

«Per te, signore, mi sarei tagliato un braccio.»

«Saprò un giorno ricompensarti come meriti ed innalzarti alla carica di mandarino, purché tu riesca a condurre a buon fine i miei disegni.»

«Sono pronto a tutto: ordina.»

«È necessario sbarazzarsi, innanzi a tutto, dell’uomo bianco.»

«Rappresenta il pericolo maggiore per te, signore. Se non m’inganno, Len-Pra lo ama già.»

Un’orribile contrazione alterò il viso giallastro del puram.

«Lo ama!» gridò.

«Ed il generale lo ha in grande stima.»

«È necessario farlo scomparire,» disse Mien-Ming, con voce cupa.

«Non sarà cosa facile, signore. È un mago ed il veleno non avrebbe alcun effetto su di lui. Sai che ha salvato anche Lakon-tay.»

«Lo so,» rispose il puram, digrignando i denti. «Quei maledetti bianchi sarebbero capaci di far risuscitare anche un uomo morto. Eppure bisogna che quell’uomo scompaia, o io perderò per sempre Len-Pra.»

«Prepariamogli un agguato.»

«E come? In qual luogo?»

Kopom non rispose: pareva che riflettesse profondamente.

«Ah! Se non vi fosse Len-Pra,» disse poi, «m’incaricherei io di farlo scomparire; ma la fanciulla ed il generale lo accompagnano sempre, e poi vi è quel maledetto Stiengo che deve essere più furbo d’un serpente.»

«Feng?»

«Sì, Feng,» rispose Kopom. «Ho più paura di lui che di tutti gli altri.»

«Sai dove si dirigono?»

«Da un battelliere che ho interrogato abilmente, ho saputo che hanno intenzione di arrestarsi a Ka-ho-lai.»

«Se potessimo preparare un agguato all’uomo bianco quando saranno impegnati fra le montagne! È necessario che scompaia; quella fanciulla deve diventare mia, dovessi distruggerli tutti. La passione che mi rode ormai è diventata così gigante, che non indietreggerei dinanzi ad alcun delitto.

Len-Pra o la morte: ecco ormai il mio motto.»

«Aspetta che giungano nella città del Re lebbroso,» disse Kopom. «Tu mi hai detto che conosci tutte le entrate segrete di quegli antichi palazzi.»

«È vero: sono nato in quei dintorni e quelle immense rovine mi sono familiari,» disse il puram.

«Ma che esista il driving-hook

«Tutti lo affermano.»

«E glielo lascerai trovare?» chiese Kopom.

«Chi ti dice che essi possano giungere alla città del Re lebbroso? No, non lascerò trionfare Lakon-tay. Io ho suggerito al talapoino quel sogno, colla speranza di allontanarlo senza Len. Mi sono ingannato stupidamente e bisogna rimediare a quanto ho fatto. Ah! Len-Pra, quanti tormenti mi costi! E tuo padre ha rifiutato la mia mano, la mano d’un uomo potente quasi quanto il re!…»

«Per concederla ad un uomo bianco, ad uno straniero.»

«Kopom, bisogna che quell’uomo scompaia dalla circolazione. Vieni alla mia fattoria, e a meno che non sia un gran stregone, egli non vedrà la città del Re lebbroso, né tornerà mai più a Bangkok!»

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Due ore dopo, Kopom usciva dalla fattoria e riprendeva la via che doveva condurlo alla risaia e di là al villaggio.

Il furfante pareva lietissimo, perché fischiettava fra i denti e di quando in quando si fregava le mani come persona soddisfattissima.

«Saliamo,» mormorava, guazzando fra il fango e le acque corrotte delle risaie. «Sì, avrò anch’io il mio cappello col cerchio d’oro e le rosette, e certo non mi accontenterò di un cerchio solo.

Kopom non è uno scimunito e vedo già in lontananza apparire i distintivi di puram. Se Mien-Ming dal nulla è salito così in alto, perché io, che valgo quanto lui, se non di più, non riuscirò un giorno a raggiungerlo? Onori e ricchezze! Ecco la mia ambizione.

Che importa se ho il viso sfregiato? Bisogna ben fare qualche sacrificio per riuscire! Il mio sogno comincia a realizzarsi, e mi vedo già alla corte, possente e temuto quanto lo stesso re.»

Così monologando, il briccone attraversò la risaia e raggiunse la borgatella senza fare alcun cattivo incontro, quantunque le belve feroci ronzino ordinariamente quasi sempre intorno ai villaggi, in attesa di fare un buon colpo.

Feng lo attendeva accanto al fuoco, acceso nel centro dell’accampamento, assieme agli uomini del primo quarto di guardia.

«Hai trovato la fattoria, pilota?» gli chiese.

«La fattoria sì, ma il pimento no. Altri l’hanno accaparrato prima di me,» rispose Kopom, fingendosi irritato. «Ecco una perdita considerevole per me.»

«Il padrone saprà ricompensarti.»

Kopom alzò leggermente le spalle ed entrò nella sua barca, sdraiandosi fra i suoi due battellieri.

L’indomani la scialuppa lasciava la borgatella, dopo aver fatto provvista di frutta, di noci di cocco, durion, banane e d’una certa quantità di kang, riso dal granello piccolissimo e aromatico, assai apprezzato dai Siamesi. Il capo della borgatella vi aveva aggiunto anche dei galli selvatici che un cacciatore aveva ucciso nella notte sugli argini della risaia e delle zucche piene di liquore zuccherino chiamato toddy.

Con quelle provviste e la carne del bufalo, che era stata arrostita perché si conservasse meglio, la spedizione poteva giungere a Sarawan senza fare altre fermate.

La scialuppa, spinta vigorosamente dai quattordici remi, si trovò ben presto lontana dalla borgatella.

Il fiume cominciava a restringersi, pur avendo ancora una larghezza considerevole, che variava fra i cinque ed i seicento metri.

Di quando in quando comparivano degli isolotti coperti di manghi e di bambù, e siccome erano popolati di uccelli acquatici, il dottore e Len non mancavano di salutare quei volatili con qualche colpo di fucile per aumentare le provviste.

Anche sulle rive gli uccelli erano abbondanti, non pochi bufali si mostravano nelle paludi. Vedendo la scialuppa avanzarsi, la guardavano coi loro piccoli occhi iniettati di sangue, poi fuggivano al galoppo, rifugiandosi sotto i boschetti o in mezzo alle canne.

A mezzodì, mentre Feng stava servendo la colazione, uno spettacolo inatteso s’offerse agli sguardi dei naviganti.

Una banda di elefanti, con parecchi piccini, sbucò improvvisamente da una foresta che aveva preso il posto delle eterne paludi, e si immerse nel fiume per attraversarlo. Si componeva per la maggior parte di maschi, guidati da due femmine di statura colossale.

Scorgendo la scialuppa, quei giganti, che si trovavano quasi già in mezzo al fiume, si arrestarono dando segni d’inquietudine e barrendo con fragore, poi si misero a fuggire disordinatamente.

Tuttavia maschi e femmine non abbandonarono i piccini. Se li cacciavano innanzi, spingendoli colle proboscidi e tentando di sollevarli, onde nella precipitosa ritirata non corressero il pericolo di affogare.

«Che peccato non poterli cacciare,» disse il dottore, che tormentava il grilletto della sua carabina.

«Siamo ancora troppo vicini ad Ajuthia e qualcuno potrebbe denunciarci,» rispose Lakon-tay. «Come vi dissi, tutti appartengono al re ed è vietato ucciderli. Quando saremo giunti fra le foreste del settentrione, non vi impedirò di affrontare quei colossi.»

«È d’altronde una legge saggia, che si dovrebbe applicare anche in altre regioni, per impedire la distruzione di quei preziosi animali così utili all’uomo,» disse il dottore.

«Li uccidono, altrove?» chiese Lakon-tay, sorpreso da quelle parole.

 

«Li massacrano su larga scala, generale. In Africa per esempio, e notate che gli elefanti africani sono più alti e più robusti di quelli asiatici, la razza già tende a scomparire. Tutti gli anni se ne uccidono cinquanta ed anche sessantamila.»

«Per mangiarli?»

«Più per impadronirsi dell’avorio, di cui si fa una grande esportazione. Circa 800.000 chilogrammi di avorio vengono introdotti ogni anno in Europa, ma a quale prezzo!»

«Sessantamila elefanti!» esclamò Lakon-tay. «Non sanno dunque ammaestrarli quei popoli?»

«Anticamente sì: numidi e cartaginesi, due popoli ormai scomparsi, se ne servivano nelle guerre e li caricavano di torri piene d’arcieri. Nello scompiglio avvenuto mille anni or sono, l’arte di addomesticarli andò perduta ed ora, in tutta l’Africa, non ne esiste uno che serva all’uomo di aiuto nei lavori più gravosi.»

«La razza finirà collo scomparire.»

«È già immensamente diminuita, ed è probabile che fra cinquanta anni, se non mettono un freno all’avidità dei cacciatori d’avorio, l’elefante africano non esisterà più.»

«Peccato,» disse il generale. «Distruggere degli animali così preziosi, così docili che rendono all’uomo tanti servigi! Dove volete trovare degli ausiliari più vigorosi e anche più intelligenti?

Immensi servigi rendono certamente anche i buoi ed i cavalli, ma che cosa sono a paragone degli elefanti, questi facchini sovrumani, che portano decine e decine di quintali sui loro dorsi poderosi, che percorrono perfino ottanta chilometri al giorno con simili carichi, che spinti alla corsa, malgrado la loro corpulenza, superano in velocità il miglior destriero dei nostri paesi, e si arrampicano su per le montagne come capre?

E quanta bontà posseggono quei giganti! Mai che abbiano uno scatto violento, mai che rifiutino un lavoro, per quanto gravoso possa essere, mai che si ribellino al loro mahut

«È vero,» disse il dottore. «Essi per intelligenza hanno il diritto di venire classificati dopo l’uomo, e prima della scimmia.»

«E che memoria meravigliosa hanno!… Io mi ricordo di un elefante, chiamato Tong, che apparteneva ad un mio amico, governatore di una città sul confine birmano.

Un giorno, mentre quel mio amico attraversava una jungla con parecchi elefanti, due tigri affamate si scagliarono contro la carovana. Tong, che era addomesticato da poco, invece di far fronte all’attacco fuggì, facendo cadere il suo mahut.

Diciotto mesi dopo, in una battuta di elefanti, Tong venne ripreso assieme a molti altri.

Era già ridiventato selvaggio, e si dibatteva con furore contro le elefantesse addomesticate che cercavano di atterrarlo.

Per un caso strano, fra i cacciatori si trovava il suo mahut. Costui, riconosciutolo, gli s’avvicinò, montato su una femmina, e lo prese per un orecchio, chiamandolo per nome.

Ebbene, lo credereste? Appena Tong udì la voce del suo antico domatore, non solo cessò ogni resistenza, ma dette segni di viva gioia e si lasciò docilmente condurre via.

Poche settimane dopo lavorava come nel passato, dimostrando di non aver nulla dimenticato di ciò che aveva appreso durante la sua prigionia.»

«È meraviglioso!» esclamò il dottore.

«Ed ecco un altro caso ancora più sorprendente,» disse Lakon-tay. «Un altro mio amico, un generale, aveva abituato un suo elefante a giocare coi bambini della casa, e il colosso pareva ci si divertisse assai. Li seguiva nei campi, se li metteva in groppa quando mostravano di essere stanchi, si lasciava tirare gli orecchi e pizzicare la proboscide senza aversene a male! Un giorno, mentre i fanciulli giocavano presso le rive del Menam, sul margine d’una jungla, ecco sbucare improvvisamente una grossa tigre.

Potete immaginare il terrore di quei bambini, che fra tutti e quattro non avevano vent’anni e che erano assolutamente inermi.

Che cosa fece l’elefante? Se li cacciò tutt’e quattro sotto il ventre, per paura che la tigre con un salto gli balzasse in groppa, cosa facile per quei terribili felini che sono dotati d’una agilità straordinaria; poi si mise a indietreggiare lentamente verso il fiume, con infinite precauzioni, per non calpestare i piccini che costringeva a seguirlo nella ritirata.

Per due volte la tigre tentò l’assalto finché, vedendo accorrere una scialuppa montata da parecchi uomini, stimò prudente abbandonare la partita e rintanarsi nella jungla

«Quanta intelligenza!» esclamarono Len-Pra e Roberto, che s’interessavano assai a quei racconti.

«E quanta docilità in quegli animali e quanta rara dolcezza e come si sottomettono volentieri all’impero materno!

Osservate: mentre tutti gli altri animali che vivono in comune subiscono la tirannia d’un maschio, è sempre una femmina che dirige le bande degli elefanti, e nessuno osa ribellarsi.»

«Invece d’un re hanno una regina,» disse Roberto, ridendo.

«È così, dottore.»

Mentre chiacchieravano, i colossi avevano attraversato il fiume ed erano scomparsi frettolosamente in mezzo agli altissimi bambù.

Soltanto uno si era fermato dietro un gruppo d’alberi, per sorvegliare le mosse della scialuppa; poi, vedendola proseguire, anche quello se ne andò al trotto, aprendosi un largo solco in mezzo alla vegetazione. Si era però appena internato quando un clamore assordante scoppiò fra quelle canne giganti.

Si udivano barriti formidabili, accompagnati da fischi stridenti, poi si videro i bambù agitarsi in tutti i sensi e cadere a gruppi.

«Che cosa accade là sotto?» chiese Roberto.

Lakon-tay fece segno al pilota di accostarsi ad un isolotto che si trovava quasi in mezzo al fiume.

Pareva che una terribile rissa fosse scoppiata fra gli elefanti ed altri animali che non si potevano ancora scorgere.

I clamori diventavano assordanti e le canne continuavano a cadere, assieme alle palme che vi crescevano nel mezzo; di quando in quando delle proboscidi apparivano al di sopra dei vegetali, poi s’abbassavano violentemente.

«Che degli uomini abbiano assalito quei colossi?» chiese Len.

«No, non sono uomini,» disse Lakon-tay, che ascoltava attentamente. «Chi oserebbe cacciare degli animali che sono proprietà del re? Ah!… Ora comprendo. Udite questi fischi stridenti?»

«Sì, generale.

Gli elefanti sono stati sorpresi da qualche coppia di rinoceronti. Sono certo di non ingannarmi.

Quei bruti odiano a morte gli elefanti e, quando si presenta l’occasione, li assalgono con cieco furore, tentando di sventrarli.

Guardate, ecco i colossi che indietreggiano verso la riva.»

La banda usciva a corsa sfrenata dalla macchia, colle proboscidi tese, barrendo spaventosamente.

«Fuggono!» esclamò il dottore.

«O prendono invece posizione, per caricare a loro volta su terreno scoperto?» disse Lakon-tay.»

I pachidermi infatti non pareva avessero intenzione di attraversare di nuovo il fiume. Giunti sulla riva, che in quel luogo era sgombra di vegetali d’alto fusto, si schierarono su una sola linea di fronte alla macchia. Alcuni pareva fossero stati assai maltrattati, perché perdevano sangue dai fianchi. Uno anzi si era separato dai compagni e barriva lamentosamente, versandosi acqua sul petto.

«Deve aver ricevuto un buon colpo di corno,» disse Lakon-tay, che lo osservava. «Le ferite che producono i rinoceronti sono spaventevoli. Ah!… Eccoli!»

Due animali di forme tozze, con gambe corte e grosse, il corpo lordo di fango disseccato, il muso armato di un doppio corno, uno lungo più di mezzo metro e l’altro cortissimo, erano improvvisamente balzati fuori dalla macchia.

Quei pericolosi animali, che misuravano ognuno quasi quattro metri di lunghezza, senza spaventarsi dell’atteggiamento risoluto degli elefanti, caricavano all’impazzata.

Con una velocità straordinaria e un’agilità incredibile per corpacci così tozzi, piombarono addosso ai loro avversari, tentando di sfondare la linea e di avere buon gioco.

Miravano soprattutto a raggiungere i piccini, che si erano nascosti dietro le madri; ma la loro furiosa carica non ebbe l’esito sperato.

I pachidermi, stretta la fila, li accolsero con tali colpi di proboscide, da strappare ai due bruti urla di dolore.

Uno fu rovesciato per ben due volte, poi orrendamente calpestato dai pachidermi inferociti; l’altro, dopo aver tentato invano di sventrare la guida della truppa, tornò al galoppo verso la macchia, urlando spaventosamente.

I colpi di proboscide dovevano avergli spezzato parecchie costole.

«Ben prese,» disse il dottore, mentre gli elefanti a loro volta si cacciavano fra i bambù. «Ecco una severa lezione data a quegli intrattabili e brutali devastatori delle foreste.»