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La città del re lebbroso

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Capitolo XVIII. Attraverso le foreste

Due giorni dopo la scialuppa approdava a Sarawan, una borgata che non valeva meglio delle altre, poco abitata, con capanne di canne e di fango e coi tetti di paglia, piantate su pali e disposte lungo la riva destra del Men-Sak.

La spedizione doveva abbandonare definitivamente il fiume per inoltrarsi attraverso i selvaggi territori dell’alto Siam, abitati da tribù quasi indipendenti, piuttosto avverse alla dinastia dei re Siamesi.

Prima di prendere una decisione, Lakon-tay, il dottore e Feng tennero consiglio, e vi ammisero anche il pilota della scialuppa, il quale già durante il viaggio aveva a poco a poco manifestato il desiderio di lasciare per sempre il suo faticoso mestiere per guidarli verso il settentrione, affermando di essere praticissimo di quelle regioni.

Dopo lunghe discussioni, fu convenuto di lasciare i battellieri a Sarawan, temendo che una carovana così numerosa potesse suscitare dei sospetti negli Stienghi già abbastanza mal disposti verso i Siamesi, e di avanzarsi da soli verso Ka-ho-lai.

Il pilota si era mostrato il più risoluto a non aggregare alla carovana i battellieri, uomini che potevano essere più d’impiccio che di utilità.

Siccome quel briccone, durante quei quattro giorni di navigazione, non aveva fatto sorgere sul suo conto alcun sospetto, Lakon-tay e Roberto finirono per arrendersi alle sue osservazioni.

Presa quella decisione, approvata anche da Feng, il quale temeva che non potessero trovare nelle immense foreste del settentrione selvaggina sufficiente per poter nutrire tante persone, cominciarono subito a fare i preparativi per il viaggio terrestre, che doveva essere più difficile e anche più pericoloso.

Non riuscì loro difficile procurarsi dieci cavalli, cinque dei quali dovevano essere destinati al trasporto delle provviste, ed alcuni fucili di ricambio che non valevano però certo le loro carabine, essendo generalmente i Siamesi pessimi armaioli.

Feng poi s’incaricò specialmente dei viveri, che rinchiuse in sacchetti di grossa tela, spalmati di vernice per preservarli dagli acquazzoni, che non dovevano tardare a cadere, essendo la stagione delle grandi piogge imminente. Al secondo giorno la comitiva si trovò in grado di riprendere il viaggio.

Erano le sei pomeridiane quando, dopo un pranzo offerto dal governatore, lasciarono la borgata, prendendo risolutamente la via dei grandi boschi, che dovevano ormai accompagnarli fino al lago di Tuli-Sap.

Infatti il Siam settentrionale non è altro che una immensa foresta, dove i legnami più preziosi e le piante più ricercate crescono senza coltura alcuna, tanto sono fertili quelle terre mai sfruttate da alcuna coltivazione. I tek crescono accanto agli alberi della cannella; gli alberi dell’olio e della cera insieme ai banani ed ai manghi; i cocchi mescolati ai tamarindi, ai durion dalle frutta deliziose, agli areca, ai sagù contenenti una polpa farinosa che serve a fare una specie di pane, agli alberi del ferro e a quelli che dànno la polvere dell’aquila; ai tonki dalle cui cortecce si estrae una specie di carta; ai fang che dànno delle tinture splendide, ai preziosi sandali, ai comoni rossi e a tanti altri che sarebbe troppo lungo enumerare.

Il pilota, che, come abbiamo detto, assicurava di conoscere a menadito la regione, anche quella che si estendeva al di là di Ka-ho-lai, si era messo alla testa del drappello, mentre Feng si era posto alla retroguardia, per vigilare sugli animali che portavano i viveri, le tende, le coperte e le munizioni nonché le armi di riserva.

I cavalli, scelti con cura, promettevano di resistere lungamente e di portare facilmente i loro cavalieri fino sulle rive del Tuli-Sap, senza necessità di venire cambiati.

Erano animali di statura piccola, dai garretti solidi, i dorsi robusti, le criniere folte.

Il Siam non ha cavalli di grande statura, ma quelli che possiede, quantunque non siano più alti dei poney irlandesi, superano nella corsa qualunque animale selvaggio e, quello che è più, sono di una sobrietà meravigliosa.

Il drappello dopo tre ore si trovò ben presto sui primi pendii di quella lunga catena di monti che serpeggia per il Siam centrale, unendosi con quella più massiccia di Kao-Dourek, e che divide il versante del Menam da quello più ampio del Mekong o Camboge.

Foreste immense si estendevano dovunque, formate da una infinita varietà di alberi e popolate da miriadi di scimmie, che salutavano il passaggio del piccolo drappello con sberleffi, scrosci di risa, urla diaboliche e anche con una pioggia di frutta e di rami. Tutte le numerose specie che infestano le campagne e le boscaglie della immensa penisola indocinese avevano colà dei rappresentanti.

I siamang abbondavano soprattutto, ma vi erano anche battaglioni di hodok, di somm-pilui, di budeng nerissimi, di macachi e di sileni barbuti, i più terribili devastatori dei campi e delle piantagioni.

Vi erano pure innumerevoli bande di lar, quelle piccole scimmie che non sono più grosse di uno scoiattolo, dal pelame morbido come felpa e dagli occhi grandissimi e gialli, e di lori tardigradi, i brusamundi degli indocinesi, dagli occhi pure grandissimi circondati da due anelli scuri del più strano effetto e che sembrano occhiali, i quadrumani più pigri della grande famiglia scimmiesca perché impiegano un minuto a percorrere a mala pena un metro.

Se abbondavano le scimmie, non mancavano anche i serpenti, i quali sono numerosissimi nelle selve Siamesi.

Non senza un certo senso di raccapriccio il dottore ne scorgeva sovente taluni fuggire all’accostarsi dei cavalli, e nascondersi fra le foglie secche o nelle cavità dei vecchi tronchi.

Ve n’erano di sottili come un portapenne, dai colori brillanti, di quelli lunghi un paio di metri e tutti neri, altri più lunghi ancora e grossi come il braccio d’un uomo, dalle scaglie brillanti ad anelli giallastri e a macchie rosa.

«Si direbbe che questo sia il paradiso dei serpenti,» disse Roberto, vedendone fuggire sette od otto in una sola volta. «Sono tutte così popolate le vostre foreste?»

«Il paradiso dei serpenti!… È la vera frase,» rispose il generale, che pareva non si preoccupasse di quei ributtanti esseri. «Non sono però tutti pericolosi, dottore, rassicuratevi. Non vi sono da temere che i cobra, che fortunatamente non sono molto abbondanti nelle nostre foreste, e gli amadriadi, quei brutti rettili che hanno la testa somigliante a quella dei cani.»

«Non amerei fare la loro conoscenza.»

«Vi credo, tanto più che il loro veleno non risparmia mai. Mi stupisce anzi come voi europei, che sapete tante cose, non siate riusciti a rendere inoffensive le morsicature di quei terribili rettili.»

«La scienza si è trovata sempre impotente contro il veleno dei cobra,» rispose Roberto. «I medici inglesi soprattutto hanno fatto molti esperimenti per strappare alla morte le migliaia e migliaia d’indiani che ogni anno soccombono per i morsi dei serpenti, e non son riusciti a nulla.»

«Cagionano molte vittime nell’India i cobra

«Sedici e anche diciassettemila persone all’anno muoiono a causa dei serpenti.»

«Che cifra spaventevole!» esclamò Len-Pra.

«Senza contare le persone che vengono divorate dalle belve feroci.»

«Che saranno molte senza dubbio,» disse Lakon-tay.

«Poche, in proporzione a quelle che sono vittime del veleno dei serpenti; ma pur sempre raggiungono una bella cifra. In media sono tremilacinquecento quelli che cadono sotto i denti delle tigri e delle pantere.»

«E non pensa il governo inglese a distruggere serpenti e belve? Gli europei sono numerosi nell’India, così mi hanno detto.»

«Moltissimi si dedicano con fervore alla caccia degli animali pericolosi. Si calcola che ogni anno vengano uccisi non meno di centomila serpenti velenosi e circa ventimila fiere. Anzi la caccia è diventata un vero mestiere per taluni europei, poiché il governo inglese paga una certa somma per ogni serpente, o tigre, o pantera o lupo ucciso. So che l’anno scorso ha speso la bagattella di 103.000 rupie.

«E malgrado tanta distruzione non scemano?»

«Non ancora,» disse Roberto.

«Che perdite!…»

«Se l’India piange, nemmeno il vostro paese deve ridere. Anche qui serpenti e tigri devono fare dei vuoti considerevoli fra la popolazione della campagna.»

«Purtroppo, dottore,» rispose Lakon-tay. «Specialmente le tigri fanno un bel numero di vittime, per la stupida credenza che quelle belve siano bestie quasi sacre, e anche pel pessimo armamento dei nostri contadini.»

«Eh!… Badate!… Quello sì che è pericoloso.»

Con un’improvvisa strappata fece fare al suo cavallo un brusco scarto.

Un serpente, che pareva addormentato, si era rizzato come un lampo, tentando di mordere l’animale al petto, ma mancatogli il colpo, si cacciò subito in mezzo a un folto cespuglio, prima ancora che il generale avesse il tempo di staccare la carabina che gli pendeva dall’arcione.

«Un cobra?» chiese il dottore, afferrando per le briglie il cavallo di Len.

«Un daboia, dottore, uno dei rettili più pericolosi e anche più traditori. Se ne incontrate qualcuno, evitatelo subito.

L’avete veduto? Fingeva di essere addormentato o morto, mentre invece si teneva pronto a mordere il mio cavallo. Sono perfidi e lesti. Scattano come saette ed è un vero miracolo se si riesce a sfuggire al loro morso. Pilota, apri gli occhi e tieni pronto il tuo coltellaccio.»

«Sì, signore,» rispose Kopom.

Cominciarono allora le prime alture. I cavalli avevano rallentato il trotto, non essendovi più sentieri.

Cespugli enormi, che crescevano sotto le piante d’alto fusto, tagliavano ad ogni istante il passo, costringendo il drappello a fare dei lunghi giri.

 

L’immensa foresta, che poco prima era secca, diventava a poco a poco umida, quantunque il terreno, come abbiamo detto, fosse in salita.

Una nebbiolina leggera s’alzava, accumulandosi sotto il folto fogliame delle piante, carica di miasmi prodotti dal corrompersi dei tronchi caduti per decrepitezza e dei rami e delle frutta che imputridivano su quel suolo saturo di acqua.

«Ecco un luogo dove non vorrei fermarmi a lungo,» disse il dottore. «Quella nebbiolina deve nascondere la febbre dei boschi.»

«Il tet, dottore,» rispose Lakon-tay. «È un male ben peggiore della febbre, che ogni anno fa vere stragi fra i montanari che abitano queste zone pericolose.»

«Tet? Che cosa vuol dire?»

«Che sale, che monta.»

«Una malattia ancora ignota in Europa.»

«È una paralisi dei nervi di senso e di moto, che si manifesta generalmente alle estremità inferiori e che dopo quattro o cinque giorni raggiunge la parte superiore del torace.

L’intelligenza si mantiene generalmente libera ed intatta fino all’ultimo momento, e la persona colpita prova l’atroce supplizio di sentirsi morire fibra per fibra, momento per momento.»

«E non vi è rimedio?,»

«Nessuno, dottore.»

«Affrettiamoci a lasciare questa foresta. Ma… che cos’hanno i nostri cavalli che continuano a fare degli scarti e ad impennarsi? Che temano anch’essi il tet

«Si sentono mordere le gambe,» disse il pilota, che da qualche momento guardava attentamente a terra.

«Da chi?»

«Dalle sanguisughe dei boschi, signore.»

Il dottore abbassò gli sguardi e vide pullulare per terra, scivolando e balzando, delle vere sanguisughe, più sottili e più piccole di quelle comuni. Ve n’erano centinaia e centinaia, che cercavano di aggrapparsi alle gambe dei cavalli.

«È un altro flagello delle nostre foreste,» disse Lakon-tay. «Specialmente dopo la stagione delle piogge si moltiplicano spaventosamente, a segno che certe volte non si può più passare attraverso le selve umide.»

«Che salassi alle nostre gambe, se non fossimo a cavallo!» esclamò Roberto.

«Tra poco scompariranno: ecco la foresta asciutta che ricompare. Pilota, dove siamo?»

«Scendiamo nella valle di Korat,» rispose Kopom. «Là non avremo più da temere le sanguisughe, ma piuttosto le tigri.»

«Quasi le preferisco,» rispose il dottore.

«Un bel luogo per cacciare, signore. Conosco una sorgente dove ogni sera cervi e cinghiali si recano in gran numero.

Ho cacciato sovente nella mia gioventù, assieme a mio padre. Se lo desiderate, vi condurrò colà; non tornerete a mani vuote.»

«Accetto fin d’ora.»

Un sorriso sfiorò le labbra di Kopom, mentre un vivo lampo gli illuminava le pupille.

Oltrepassata la cima della prima collina, apparve dinanzi ai loro sguardi una valle che si prolungava tra due catene di monti.

Era larga parecchi chilometri, disseminata di immensi alberi del tek che lanciavano le loro cime a sessanta e più metri ed ingombra qua e là di piccole jungle, formate da bambù smisurati e da piante spinose, luoghi favoriti dalle tigri e dalle pantere macchiate e nere.

«Il passo che ci condurrà a Ka-ho-lai,» disse Kopom.

Fecero una breve fermata per prepararsi la colazione, poi qualche ora dopo cominciarono a scendere nella valle.

Kopom aveva raccomandato di avere le armi pronte e di tenersi lontani dalle macchie, entro le quali poteva celarsi qualche tigre.

In mezzo ai tek e fra le boscaglie che coprivano i due margini della valle, salendo fino alle più alte cime della collina, non si udiva rumore alcuno. Solamente qualche grido stridente, mandato da qualche tucano, rompeva di quando in quando il silenzio.

Le scimmie invece non si mostravano.

Kopom, man mano che avanzavano, guardava sempre con maggior attenzione le foreste e le macchie, e di tanto in tanto si arrestava per ascoltare. Temeva un assalto improvviso delle fiere o aspettava qualcos’altro?

Avevano già percorso un paio di miglia, tenendosi sempre in mezzo alla valle, quando improvvisamente udirono risuonare, fra i boschi che coprivano i fianchi della montagna più prossima, un grido strano, quasi metallico, che pareva fosse uscito più da qualche strumento di ottone che dalla gola d’un animale.

Kopom, udendolo, trasalì.

«Che grido è questo?» chiese il dottore. «Non è né il barrito d’un elefante in furore, né quel grido acuto che manda un bufalo quando viene colpito a morte, né l’urlo d’una tigre.»

«Non saprei dirvelo,» disse Lakon-tay, che appariva un po’ sorpreso. «Hai mai udito un grido simile, Feng?»

«No, padrone,» rispose lo Stiengo, che ascoltava attentamente.

«E tu, pilota?»

«Solo un rinoceronte furibondo può averlo mandato,» rispose Kopom.

«Ne ho cacciato più d’uno, eppure anche nelle loro cariche irresistibili mai li ho uditi lanciare un tale grido.»

«Non so che cosa dire,» rispose il pilota.

Si fermarono qualche minuto, sperando di riudire quella nota strana; poi ripresero la marcia.

«Bah!… Sarà stato qualche uccello di una specie a noi sconosciuta,» concluse Lakon-tay, «o qualche scimmia. È vero, Kopom?»

Un altro sorriso spuntò sulle labbra del Cambogiano, ma egli credette meglio non rispondere.

La marcia nella valle, che diventava sempre più selvaggia, continuò fino a che il sole scomparve e le tenebre cominciarono a calare.

Verso le nove il pilota diede il segnale della fermata, assicurando che la fonte si trovava in quei dintorni.

Il luogo scelto per l’accampamento era ottimo, non essendovi che pochi alberi e nessun cespuglio dove si potesse nascondere qualche animale pericoloso.

La vera foresta non cominciava che a quattro o cinquecento passi di distanza e si estendeva su uno spazio immenso, essendo la valle diventata larghissima.

Prima di alzare le tende, Feng, armatosi d’un bastone, esplorò il suolo tutt’intorno al campo per allontanare i serpenti; poi furono accesi due fuochi e messe le pentole di ferro a bollire.

Mentre lo Stiengo e il pilota preparavano la cena, il dottore con Len e Lakon-tay, andò a fare raccolta di banane e di manghi, avendo scorto parecchie di quelle piante sul margine della foresta.

«Io credo che il pilota abbia esagerato,» disse Roberto mentre tornavano carichi di frutta. «Non si ode alcun animale qui, ed in quanto alle tigri, le credo ben lontane.»

«Io però non oserei cacciarmi da solo in queste foreste,» rispose Lakon-tay, «e specialmente di notte. Quando meno la si aspetta, la tigre compare. Sono animali astuti, dottore, che assaltano solo a colpo sicuro.»

«Eppure non rinuncio all’idea di recarmi a visitare la sorgente assieme al pilota.»

«Volete che vi accompagni anch’io, dottore?» chiese Len.

«No,» disse il generale. «Una donna si trova troppo impacciata nelle folte foreste e nelle jungle.»

«Non sarebbe prudente, è vero, generale?» disse Roberto. «La caccia notturna è ben più pericolosa di quella diurna. Le occasioni non mancheranno per far tuonare la vostra carabina, Len.»

«Ne avremo forse perfino troppe,» disse Lakon-tay. «Il paese degli Stienghi è ricco di selvaggina.»

Quando tornarono, la cena era già pronta. Il dottore mangiò in fretta, cambiò carica alla carabina, si passò nella fascia un lungo coltellaccio e s’alzò, dicendo al pilota:

«Andiamo, se non hai paura.»

«E la signora?» chiese Kopom.

«Rimarrà al campo.»

Il pilota fece un segno d’assenso, poi disse: «Seguitemi, signore.»

«Siate prudente, dottore,» disse Lakon-tay. «Se non vi fossero i cavalli da guardare, vi accompagnerei, ma ci tengo a non perderli. Desiderate che Feng vi segua?»

«È inutile, generale; d’altronde la nostra assenza non sarà lunga.»

«In caso di pericolo, sparate tre colpi a brevi intervalli.»

«Siamo d’accordo: buon riposo.»

Guardò Len che gli sorrideva e s’allontanò assieme al pilota, il quale si era armato d’uno dei fucili di ricambio acquistati a Sarawan.

Capitolo XIX. I furori d’un vecchio elefante

Dieci minuti dopo, i due cacciatori si trovavano nella foresta, la quale non era, almeno sul principio, così folta come l’avevano creduta, poiché le piante crescevano a gruppi staccati.

Il pilota, che doveva conoscere quei luoghi a menadito e che, come la maggior parte dei selvaggi, aveva l’istinto dell’orientamento, si diresse verso la montagna, quantunque, trovandosi sotto quelle altissime piante, non potesse scorgerla.

Si era messo dinanzi al dottore, tenendo il fucile sotto il braccio e la sinistra sulla lunga impugnatura del suo coltellaccio a lama larga e quadra, tagliente come un rasoio.

Camminava senza parlare, come se fosse assorto in un profondo pensiero; e si capiva che si teneva in guardia, perché di quando in quando girava il capo a destra ed a sinistra, curvandosi ora da una parte e ora dall’altra per meglio raccogliere i più lievi rumori.

La foresta invece era silenziosa, come se nessun essere vivente la popolasse. Non si udivano né grida di scimmie notturne, né sibili di serpenti, né stridore di lucertole volanti, che pur sono così numerose nelle selve dell’Indocina.

Avanzarono così per circa mezz’ora, girando attorno a macchioni di areche, di tek, di banani selvatici e di fichi baniani, finché giunsero su un terreno umidissimo, ingombro di enormi bambù.

Il pilota si arrestò.

«È qui la sorgente,» disse.

«Non vedo alcun animale,» rispose il dottore. «Dove sono i cervi e i cinghiali che mi avevi promesso?»

«Abbiate pazienza; è ancora troppo presto e gli animali non hanno lasciato i loro nascondigli.»

«Sei stato altre volte qui?»

«Ci venivo di frequente una volta, con mio padre che, oltre ad essere un valente costruttore di barche, era anche un bravo cacciatore.»

«Hai sempre abitato a Sarawan?»

«Sempre?… No… ho girato molto il Siam e altri paesi ancora… Udite questo mormorio?»

«Sì.»

«È la sorgente. Aprite gli occhi e tenete pronto il fucile. Questi bambù sono i rifugi delle tigri e delle pantere nere.»

«Non temere per me.»

Il pilota girò un’enorme macchia di bambù e giunse ben presto dinanzi ad uno stagno, le cui acque gorgogliavano come se bollissero.

«Dove ci imboscheremo?» chiese Roberto.

«Vi devono essere delle buche qui, che una volta servivano da trappole. Eccone là una che servirà benissimo per noi.» Tornò verso la macchia e si arrestò dinanzi ad un grosso tamarindo, che sorgeva quasi isolato fra le canne giganti.

A pochi passi vi era infatti un’escavazione profonda un metro e mezzo, con parecchi pali aguzzi piantati nel fondo, e così vasta che un rinoceronte avrebbe potuto trovarvi comodamente posto.

«Scendiamo,» disse Kopom.

Stava per calarsi, quando quello stesso grido metallico, che già avevano udito alcune ore prima, ruppe bruscamente il silenzio che regnava nella foresta.

Kopom trasalì.

«Che bestia sarà questa?» chiese il dottore. «Ecco la seconda volta che udiamo questo suono. Si direbbe emesso da qualche strumento. Che quell’animale ci abbia seguiti?»

«Non ne so nulla,» rispose Kopom.

Saltò nella fossa e, fosse caso o per progetto, lasciò sfuggire la carica del suo fucile. Vedendo il lampo e udendo lo sparo, il dottore mandò un grido: credeva che si fosse ferito.

«Maledizione!» grugnì Kopom.

«Colpito?»

«No, signore; fortunatamente avevo la canna abbassata, e la palla s’è conficcata nel terreno.»

«Imprudente! potevi ferirti.»

«Mi rincresce per voi; gli animali, allarmati da questo sparo, non oseranno accostarsi alla sorgente.»

Come per dargli una pronta smentita, in quel momento stesso echeggiò invece a breve distanza un formidabile barrito, che si ripercosse lungamente sotto le piante.

«Un elefante!» esclamò il dottore, saltando precipitosamente nella fossa.

Una sorda bestemmia sfuggì alle labbra del pilota.

«È buona selvaggina,» disse il dottore, un po’ sorpreso.

«Troppo pericolosa,» rispose Kopom con dispetto.

«Non ho paura io.»

«È un solitario, signore, e quei vecchi elefanti sono cattivi e non si arrestano dinanzi ai colpi di carabina. Lasciatelo andare, se compare.»

«Sono venuto qui per cacciare e non già per veder passare la selvaggina. Se lo vedo accostarsi non lo risparmierò, checché possa accadere.»

«Badate di non aver poi da pentirvi,» disse Kopom ruvidamente.

«Non sono un cacciatore novellino.»

«E poi gli elefanti appartengono al re.»

«Il re è lontano. Eccolo!… Lo vedi? Che splendido pachiderma!»

Un colossale elefante era improvvisamente comparso presso lo stagno, dietro ad un gruppo di cespugli, fra i quali forse si era tenuto nascosto fino ad allora, si mostrava inquieto. Agitava i suoi enormi orecchi e colla tromba aspirava fragorosamente l’aria. Certo fiutava l’odor della polvere.

 

«Miro alla giuntura della spalla,» disse il dottore. «Non è che a cinquanta metri, e non lo sbaglierò.»

«Vi ripeto di lasciarlo in pace, signore,» rispose il pilota. «Anche se ferito gravemente, ci caricherà e ci schiaccerà sotto i suoi larghi piedi.»

«Se hai paura, fuggi; io non lo lascerò andare.»

«Se vi succede una disgrazia, tanto peggio per voi.»

«Non occuparti di me.»

Il dottore alzò con precauzione la carabina, appoggiando la canna sul margine della buca, per meglio mirare.

L’elefante non si era mosso. La sua enorme massa spiccava nettamente presso lo stagno e si presentava di fronte. Continuava a dare segni di agitazione alzando ed abbassando la proboscide, e pestava il suolo colle enormi zampacce, facendo schizzare in aria larghi spruzzi di fango.

Kopom non aveva nemmeno alzato il suo archibugio, anzi pareva che non si occupasse in quel momento né del compagno, né del pericoloso animale.

Guardava da un’altra parte, colle mani agli orecchi per meglio raccogliere i rumori, facendo di tratto in tratto un gesto di rabbiosa impazienza e mormorando fra i denti:

«Maledetto elefante!… Guasterà tutto…»

D’improvviso un lampo illuminò la buca, seguito da una fragorosa detonazione. Il dottore aveva fatto fuoco.

L’elefante, certamente colpito dalla palla conica della carabina, fece due o tre passi indietro, mandando un lungo barrito.

«Fuoco, pilota!» gridò imprudentemente il dottore. «È toccato!»

Aveva appena finito la frase, che vide l’enorme pachiderma scagliarsi verso la buca con un slancio irresistibile. Il grido del dottore l’aveva avvertito della presenza dei suoi nemici: e caricava all’impazzata, barrendo spaventosamente e colla proboscide alta, pronto a colpire.

Il dottore con un gesto fulmineo strappò al pilota l’archibugio. Quantunque non avesse molta fiducia in quella pessima arma arrugginita, si preparò a servirsene.

L’armò rapidamente e, vedendo l’elefante che stava per precipitarsi nella buca, fece fuoco a bruciapelo, quasi sotto la gola.

Il pachiderma, vedendo la fiamma, si arrestò di colpo, impennandosi, poi, preso da un improvviso terrore, fece un rapido voltafaccia, fuggendo verso la macchia.

Kopom aveva mandato un urlo di spavento, credendo che il colosso piombasse nella buca e li schiacciasse.

«Signore!» gridò. «Fuggiamo! Il Sen ritornerà alla carica.»

«Fuggire!… E dove?»

«Sull’albero, signore.»

«È ferito e forse gravemente.»

«Tornerà, vi dico.»

«Cerchiamo un rifugio dunque.»

L’elefante, reso pazzo dal dolore prodottogli da quelle due ferite, si era precipitato in mezzo ai bambù della macchia, barrendo ferocemente. I due cacciatori erano già balzati fuori dalla buca e si erano slanciati verso il tamarindo, il cui tronco, coperto da piante parassite, permetteva una rapida scalata.

«Salite, signore,» gridò Kopom.

Il dottore si aggrappò ad alcuni rotang che pendevano dai rami più bassi, senza dimenticare di portare con sé la carabina, arma troppo preziosa per essere lasciata a terra.

Kopom si era già afferrato alle piante parassite e saliva precipitosamente, temendo che l’elefante giungesse in tempo per afferrarlo.

Non ritenendosi sicuri sui primi rami, passarono su altri più elevati, tenendosi bene stretti.

Il pachiderma, come Kopom aveva preveduto, passato il primo momento di terrore causatogli da quella fucilata che si era veduto sparare quasi sotto la gola, tornava nuovamente alla carica.

Era in preda ad uno spaventevole accesso di furore. I suoi barriti rimbombavano nella foresta come scoppi di artiglierie e la sua tromba sferzava con impeto formidabile le piante e le canne, abbattendole come se fossero fuscelli di paglia.

Rovinò addosso al tamarindo con tale violenza che la pianta, quantunque fosse grossissima, oscillò violentemente, crepitando come se fosse lì lì per essere schiantata.

Fu un vero miracolo se Kopom e Roberto non furono scaraventati al suolo.

«La sradica!» gridò il dottore.

«Non temete,» rispose il pilota. «I tamarindi sono elastici, ma d’una solidità eccezionale.»

Il colosso, visto che la pianta non era caduta sotto quel poderoso urto, alzò la tromba e la introdusse fra i rami, sperando di poter afferrare i due cacciatori e di strapparli dal loro rifugio.

Vista l’inutilità dei suoi sforzi, si mise a rompere con furore i rami più bassi, imprimendo alla pianta nuove e violentissime scosse, per resistere alle quali il pilota e Roberto erano costretti a tenersi abbracciati al tronco.

«Se ci lascia un momento in pace, ricomincerò il fuoco,» disse il dottore. «Possibile che non si calmi un momento? Che cosa ne dici, pilota?»

Kopom non rispose. Non era l’elefante che in quel momento lo preoccupava. Per la seconda volta ascoltava attentamente, borbottando fra i denti:

«Che cosa aspettano quegli stupidi? L’occasione per prenderlo non potrebbe essere migliore.

Se Mien-Ming m’avesse lasciato fare, questo dannato farang non sarebbe più vivo. Perché vuole risparmiarlo? Una disgrazia può succedere anche ad un europeo.»

Intanto l’elefante, sempre più inferocito, raddoppiava i suoi sforzi, impedendo al dottore di ricaricare la carabina, giacché doveva tenersi ben stretto al tronco per non venire sbalzato a terra.

Il furibondo pachiderma, dopo aver strappato tutti i rami che erano a portata della sua proboscide, aveva ricominciato a investire la pianta.

La sua enorme testa, pari ad un ariete, cozzava contro il tronco, mentre le sue larghe zanne strappavano lembi di corteccia e si sprofondavano nel legno. Vi era da temere che, continuando a quel modo, finisse veramente per atterrare l’albero.

«Pilota!» gridò il dottore. «Cerca di caricare il tuo archibugio.»

«È impossibile, signore,» rispose Kopom, che cominciava a diventare inquieto. «Se lascio il tronco, cado.»

«Non si stancherà mai?»

«Ci vuole a terra, signore.»

«E finirà per buttare giù il tamarindo, se non riusciamo a finirlo.»

«È quello che avverrà, signore.»

«Ah!… Maledetta bestia!…»

Uno scricchiolio sinistro si era fatto udire, dopo un urto più violento degli altri. Il dottore aveva mandato un grido, mentre Kopom si era lasciata sfuggire una rauca imprecazione.

A un tratto gli urti cessarono. L’elefante doveva aver compreso che con una carica furiosa poteva riuscire a sradicare la pianta.

Si allontanò rapidamente per prendere lo slancio ed investirla con tutta la massa del suo enorme corpaccio.

«Signore!» gridò Kopom, con accento di terrore. «Si prepara ad investirci!»

Il dottore stava approfittando di quel momento di sosta. Introdusse rapidamente una cartuccia nella carabina e abbassò l’arma.

Il pachiderma si precipitava innanzi a testa bassa.

Egli fece fuoco, credendo di arrestarlo in piena volata, ma la nube di fumo non s’era ancora diradata, che udì uno schianto terribile.

Non ebbe il tempo di riafferrarsi ai rami e si sentì proiettato in aria. Girò due o tre volte su se stesso, poi piombò in mezzo ai fasci di bambù che si trovavano a breve distanza e che si piegarono scrosciando sotto il peso del suo corpo. Gli parve di udire confusamente delle grida, parecchi colpi di fucile; poi più nulla.

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«Ebbene, come state, dottore?»

Roberto, udendo la voce armoniosa di Len-Pra, riaperse gli occhi, guardandosi intorno con vivo stupore.

Si trovava nella sua tenda, coricato sopra un soffice cuscino di seta rossa, e la graziosa figlia del generale gli stava accanto, porgendogli, sorridente, una tazza colma di un liquido fumante e odoroso.

«Una buona sorsata di tè, signor Roberto. Ve l’ho preparato io e vi assicuro che vi farà bene.»

Il dottore si alzò a sedere, continuando a guardare Len e la tenda. Non riusciva a raccapezzarsi.

A un tratto si rammentò dell’elefante e del capitombolo in mezzo ai bambù.

«Come mai sono qui, Len?» chiese. «E l’elefante?… Ed il pilota?… Mi sembra impossibile di trovarmi ancora vivo. Che cosa è successo, Len?»

«Molte cose, dottore, ma prima bevete questo tè,» rispose la fanciulla.

Il dottore prese la tazza e la vuotò avidamente.

«Come state? Mio padre vi ha esaminato e non ha trovato alcuna ferita sul vostro corpo, quantunque quei briganti facessero un fuoco infernale.»

«I briganti!… Quali briganti?» chiese il dottore, la cui sorpresa aumentava. «Volete dire l’elefante?»