Tasuta

La città del re lebbroso

Tekst
iOSAndroidWindows Phone
Kuhu peaksime rakenduse lingi saatma?
Ärge sulgege akent, kuni olete sisestanud mobiilseadmesse saadetud koodi
Proovi uuestiLink saadetud

Autoriõiguse omaniku taotlusel ei saa seda raamatut failina alla laadida.

Sellegipoolest saate seda raamatut lugeda meie mobiilirakendusest (isegi ilma internetiühenduseta) ja LitResi veebielehel.

Märgi loetuks
Šrift:Väiksem АаSuurem Aa

Capitolo XXI. Un dramma in mezzo alla foresta

Il potente quadrumane, nel ritirarsi, aveva aperto un solco abbastanza largo nella muraglia di verzura per permettere ai due cacciatori e alla fanciulla di penetrare nella fitta boscaglia senza aver bisogno di far uso dei loro coltellacci.

In mezzo a quel caos di vegetali, che proiettavano un’ombra fittissima, perché le immense foglie dei sagù, degli areca e dei banani selvatici intercettavano i raggi solari, doveva avvenire un lotta formidabile. Si udivano urla strozzate, suoni rauchi, scricchiolii di rami e scrosciare di foglie secche. Chi poteva aver assalito quel poderoso quadrumane, dotato di una forza così straordinaria?

Procedendo cautamente e nel più profondo silenzio, il generale, Roberto e la bella siamese giunsero in breve all’estremità del solco aperto dal thu-vac, e sboccarono in un piccolo spiazzo, coperto, a venti metri di altezza, da foglie mostruose che impedivano quasi alla luce del sole di penetrare.

In quella semioscurità, due animali lottavano con furore, rotolandosi al suolo, urlando spaventosamente: il thu-vac ed una superba tigre reale.

Quest’ultima, evidentemente spinta dalla fame, aveva osato assalire il quadrumane fidando nella propria agilità e nella robustezza delle unghie; invece aveva trovato un avversario degno di lei.

Probabilmente l’aveva assalito a tradimento, sperando di abbatterlo di colpo, e, sia che avesse preso male lo slancio o che il thu-vac l’avesse scorta a tempo, era stata afferrata dalle braccia potenti del quadrumane.

«Ecco che ha trovato da divertirsi, mormorò il dottore. Giacché al thu-vac piace lottare, atterri la tigre se ne é capace. Io non vorrei trovarmi al suo posto.»

«Ed io nemmeno al posto della tigre,» rispose sottovoce Lakon-tay.

«Potrebbe riuscire a vincerla?»

«Ne sono convinto.»

«E in quale stato si troverà dopo la vittoria?»

«In pessimo stato di certo; la tigre non si lascerà stritolare senza distribuire in abbondanza colpi d’artiglio.»

«Me ne accorgo,» rispose il dottore.

E infatti la belva non lesinava le unghiate. Quantunque dovesse essere quasi soffocata e dovesse sentirsi spezzare ad una ad una le costole, si dibatteva furiosamente per sottrarsi a quella stretta irresistibile e rigava profondamente la pelle del quadrumane, strappandogli ad un tempo lembi di carne e fiocchi di pelo.

Il thu-vac, sotto quei colpi, urlava spaventosamente e non allargava le braccia, anzi stringeva con maggior vigore, facendo scricchiolare le ossa dell’avversaria.

Una zampata gli aveva strappato mezza pelle del volto assieme ad un occhio e a buona parte del naso; una seconda gli aveva aperto una ferita orribile sulla spalla destra, che metteva a nudo parte della scapola, e una terza gli aveva straziato il petto.

Pur grondante di sangue e così atrocemente conciato, il quadrumane, convinto della vittoria finale, non si lasciava scappare la belva e raddoppiava le strette per fracassarle la spina dorsale.

Era però caduto al suolo e si rotolava fra le radici e le foglie secche, ora rimanendo sotto ed ora sopra la tigre.

La lotta non doveva durare molto. La belva, coi fianchi semifracassati, i polmoni compressi dalle dita di ferro del thu-vac che s’affondavano nel pelame, facendo penetrare le unghie nella carne, aveva gli occhi quasi fuori dalle orbite e rantolava colla bocca spalancata, vomitando getti di schiuma sanguigna.

I colpi di zampa diventavano sempre più radi e non cadevano più col vigore iniziale. Già la morte della fiera pareva imminente, quando da una macchia vicina si slanciò fuori, con un balzo fulmineo, una seconda tigre, di dimensioni maggiori della prima.

«In guardia!» sussurrò Lakon-tay, armando precipitosamente la carabina. «Ecco un vicino troppo pericoloso, che potrebbe prendersela anche con noi.»

La belva, che doveva essere un maschio, a giudicare dalle forme più muscolose, si arrestò un momento in mezzo allo spiazzo, poi con un secondo slancio si precipitò addosso al thu-vac, nel momento in cui questi si voltava, cacciandosi nuovamente sotto l’avversaria. Con un tremendo colpo d’artiglio, il tigre strappò quasi l’intera cotenna del povero lottatore, mettendogli a nudo il cranio.

«Perbacco! Che pettinata!» mormorò Roberto.

Il thu-vac mandò un urlo orribile, che si propagò lungamente sotto le volte di verzura.

Aperse le braccia lasciando sfuggire l’avversaria e tentò di rizzarsi in piedi per far fronte a quel nuovo nemico. Il tigre aspettava quella mossa per dargli il colpo mortale: e come glielo diede! Gli strappò addirittura la gola, squarciandogli le vene del collo, poi chiuse la bocca attorno al cranio del moribondo, stritolandoglielo.

S’udì un crac sinistro, ed il povero lottatore cadde per non più rialzarsi.

«Che belve terribili,» mormorò il dottore. «Generale, lasciamole godersi la loro vittoria.»

«È quello che stavo per proporvi,» rispose Lakon-tay. «Quella non è la selvaggina che cercavamo.»

Mentre il tigre s’appressava alla compagna che brontolava sordamente, stesa fra le foglie, come se fosse incapace di rimettersi in piedi, i due cacciatori e Len si ritrassero silenziosamente, ansiosi di riguadagnare il sentiero aperto dagli elefanti.

Disgraziatamente il dottore, che era l’ultimo e si guardava alle spalle, temendo di vedersi piombare addosso il vincitore, non fece attenzione ad un ramo basso e lo urtò colla canna della carabina.

Quel rumore, quantunque lieve, non sfuggì all’udito del tigre, il quale rispose con un rauco miagolio.

«Siamo stati scoperti,» disse Lakon-tay, voltandosi rapidamente e gettandosi dinanzi a Len. «Non muovetevi, dottore!»

Dal luogo dove si trovavano, potevano ancora scorgere attraverso i rami e le foglie il piccolo spiazzo e anche le due tigri.

Il maschio non si trovava più presso la compagna, che gemeva sempre, distesa al suolo.

Aveva fatto alcuni passi innanzi, accostandosi al solco aperto dal thu-vac, e si teneva ritto a quindici soli passi dai cacciatori, cogli orecchi tesi, la testa alta, guardando verso i cespugli.

«Ci ha scorti,» disse Len-Pra.

«O fiutati,» rispose il dottore.

«Ci assalirà?»

«Può darsi; ma noi sosterremo il suo attacco, è vero, generale?»

«È solo, e non mi pare che la sua compagna, dopo la terribile stretta del thu-vac, sia in grado di poterlo aiutare. Tuttavia aspettiamo, e se possiamo ritirarci senza impegnare la lotta, sarà meglio per noi.»

Il tigre conservava una immobilità assoluta; solamente la sua bella coda inanellata si agitava mollemente, sfiorando il suolo. Pareva che cercasse di raccogliere qualche nuovo rumore che lo confermasse nei suoi sospetti.

«Generale,» mormorò il dottore, che tormentava il grilletto della carabina. «Guadagniamoci quella splendida pelle. L’animale si presenta bene per un buon tiro. Sono sicuro di colpirlo al cuore.»

«E se, malgrado la ferita, ci piombasse addosso? Hanno una vitalità straordinaria quelle belve.»

«Non sbaglierò.»

«Ed io tiro con voi, dottore,» disse Len-Pra, alzandosi sulle ginocchia. «Sarebbe un peccato lasciarci sfuggire una così bella occasione.»

«Io rimarrò di riserva,» disse il generale. «Badate di non mancare la belva.»

Il dottore e la giovane alzarono i fucili, mirando con estrema attenzione, ma il tigre, sia che i suoi occhi acuti avessero scorto, anche attraverso il fitto fogliame, lo scintillio delle due canne, sia che avesse intuito il pericolo che lo minacciava, con uno scatto improvviso si gettò dietro un cespuglio, scomparendo agli sguardi di Roberto e di Len-Pra.

Quasi nello stesso tempo la femmina, che pareva avesse ricuperato improvvisamente le sue forze, si rialzò bruscamente, balzando leggera verso l’estremità del solco aperto poco prima dal povero lottatore.

«Che gioco è questo?» si chiese il dottore, punto rassicurato da quella manovra, e rialzando la carabina. «Il maschio che fugge e la moribonda che prende il suo posto! Generale, ci capite qualche cosa voi?»

Lakon-tay corrugò la fronte e fece un mezzo giro a sinistra, scrutando il folto fogliame.

«Doppio attacco,» diss’egli, «e che impegna anche la riserva. Come sono astute queste dannate belve!»

«O movimento aggirante?» chiese Roberto.

«Vera tattica guerresca, dottore, e senza aver fatto alcuna scuola di guerra.»

«A meno che le tigri non ne abbiano una!»

«Non scherzate, dottore. Siamo minacciati da due lati.»

«Faremo fronte d’ambo le parti. Voi due occupatevi del maschio, mentre io cerco di spedire all’altro mondo la femmina. Attenti soprattutto alle sorprese.»

«Sono generale,» rispose Lakon-tay, sorridendo.

La tigre si era a poco a poco avanzata fino a trenta passi dal gruppo formato dai due cacciatori e dalla giovane cacciatrice, fermandosi presso un folto cespuglio.

La povera bestia, che aveva provato le strette formidabili del quadrumane, non pareva in grado di tentare un fulmineo assalto. I suoi fianchi, già compressi dalle braccia del thu-vac, battevano febbrilmente e dei rauchi brontolii le uscivano dalla gola. Doveva avere parecchie costole fracassate; pure era ancora in grado di affrontare una nuova lotta.

Scorgendo i cacciatori si accovacciò, guardando con curiosità quei nuovi nemici, risoluta, a quanto sembrava, a sacrificarsi per salvare il compagno.

I suoi sguardi si fissarono particolarmente sul dottore. Abituata certamente a trovarsi di fronte degli uomini dalla pelle scura, sembrava non poco sorpresa di vedersi dinanzi un uomo che aveva la pelle bianca.

Il dottore, che aveva messo un ginocchio a terra, si prestava a quella investigazione con una calma straordinaria, che indicava un coraggio eccezionale e soprattutto un sistema nervoso molto saldo.

 

Aveva abbassato nuovamente la carabina e cercava un buon punto per fare un colpo superbo, mentre Lakon-tay e Len-Pra sorvegliavano attentamente le macchie di destra, dove supponevano si celasse il maschio.

Il dottore stava per far fuoco, quando la belva, che si era raccolta su se stessa come se volesse tentare un salto disperato, volse pian piano la testa in altra direzione.

«Generale,» disse Roberto. «Il pericolo sta a sinistra! Il maschio ci ha giocati. Guardatevi!»

Poi, senza attendere altro, premette risolutamente il grilletto e fece fuoco.

«Bel colpo, dottore!» esclamò Len-Pra.

Fu veramente un colpo magnifico. La tigre, colpita al capo, si rizzò improvvisamente, come toccata da una scarica elettrica, mandando un rauco miagolio, poi cadde pesantemente al suolo senza agitarsi. La palla l’aveva fulminata.

Quasi nello stesso momento si udì uno scricchiolio di rami e sì vide balzare in mezzo allo spiazzo il maschio.

Vedendo la compagna morta, mandò quel grido impressionante, spaventevole, che una volta udito non si dimentica più mai: haa-oug! Poi si raccolse su se stesso e scattò improvvisamente.

Lakon-tay, vedendolo attraversare lo spazio con velocità fulminea, fece fuoco, sperando di arrestarlo al volo.

Il proiettile colpì il tigre al fianco destro, fracassandogli forse qualche costola; ma non era sufficiente per arrestare una tale belva, che al pari dell’orso grigio dell’America del nord può sfidare parecchie palle.

Il tigre cadde a soli dieci passi dal cespuglio che riparava i cacciatori, ma per riprendere quasi subito lo slancio.

Il momento era terribile e il pericolo gravissimo, tanto più che Lakon-tay si trovava coll’arma scarica e il dottore non aveva terminato di ricaricare la propria carabina.

Vi era Len-Pra. La coraggiosa fanciulla, vedendo che la belva si preparava a scattare, si rizzò dietro al padre e al dottore che si erano gettati dinanzi a lei per proteggerla, puntò la pesante carabina e mirò freddamente, con calma straordinaria.

Doveva avere dei nervi ben solidi quella brava siamese, per conservare un tale sangue freddo dinanzi a quella fiera, che è la più tremenda di quante ne esistano.

S’udì una detonazione secca ed il tigre fu veduto rizzarsi bruscamente come un cavallo che s’impenna sotto un improvviso colpo di sperone, poi cadere.

«Grazie, Len-Pra,» disse il dottore, tergendosi il freddo sudore che gli bagnava la fronte. «Grazie, coraggiosa fanciulla: vi dobbiamo la vita.»

La giovane siamese arrossì di piacere, mentre lasciava cadere al suolo l’arma ancora fumante di cui si era così ben servita in quel momento terribile, e guardò sorridendo il dottore, che appariva estremamente commosso.

Lakon-tay, che era diventato pallidissimo, strinse fra le braccia la figlia, dicendole con voce quasi tremante:

«Tu sei ben degna di tuo padre, Len-Pra. Hai nelle vene sangue di guerrieri.»

«Un semplice colpo di fucile sparato a tempo,» disse la giovane, ridendo.

«Che nemmeno un vecchio cacciatore sarebbe stato capace di sparare,» rispose il generale.

«No,» disse Roberto, «nessuno avrebbe potuto avere un tale sangue freddo, ve lo dico io, Len-Pra.»

«Ecco un elogio che non scorderò mai, perché detto da un uomo bianco,» disse la siamese.

«Un elogio che vi meritate, Len; se siete la più bella fanciulla che io abbia veduto nel Siam, siete pure la più valorosa, e le donne d’Europa potrebbero ben invidiarvi.»

Il generale, che pareva più commosso ancora del dottore, guardava i due giovani cogli occhi umidi.

Aveva compreso ormai che non era più solo una dolce amicizia la loro; un affetto ben più tenace, ben più ardente, ormai univa il giovane europeo e la figlia delle regioni tropicali.

Vedendoli guardarsi con aria imbarazzata, ma cogli occhi ardenti, credette opportuno intervenire.

«Andiamo a vedere le tigri, dottore,» disse. «Sono due belve superbe, ve l’assicuro.»

Mentre si volgeva per raggiungere lo spiazzo dove le due fiere giacevano a pochi passi l’una dall’altra, Roberto si chinò verso la fanciulla.

«Vi amo, Len,» le sussurrò all’orecchio.

La giovane abbassò gli occhi, arrossì, poi rispose con un filo di voce:

«Sarebbe un sogno troppo bello, dottore. Io amata da un europeo!»

Due lagrime le tremolavano sotto le lunghe ciglia.

«Venite, Len-Pra,» disse Roberto. «Vediamo dove avete colpito il tigre che contava di banchettare colle nostre carni.»

Attraversarono l’ultimo tratto del sentiero aperto dal povero lottatore e giunsero sullo spiazzo.

Il tigre era caduto contro un cespuglio: proprio in mezzo alla fronte aveva un foro rotondo, da cui usciva un po’ di materia cerebrale assieme ad alcune gocce di sangue.

«Che precisione!» esclamò il dottore. «Come avete fatto, Len-Pra, a sparare un simile colpo, mentre le braccia degli uomini tremavano?»

«Sì,» disse il generale, guardando la fanciulla con orgoglio. «Un colpo superbo, figlia mia, che io non avrei potuto tirare, specialmente in quel momento.»

«Un caso, padre,» rispose la giovane.

«E l’altra?» disse il generale. «Come è stata conciata dal lottatore!… Non deve avere due costole intatte.»

«Eppure non era meno pericolosa del maschio,» disse il dottore. «Queste fiere hanno il diavolo in corpo e anche colla spina dorsale fiaccata spiccano dei salti. Che vitalità straordinaria!…»

«Abbiamo fatto un bel massacro, dottore, eppure non ci siamo guadagnata la cena.»

«Vi rinuncio volentieri, pur di avere queste due superbe pelli. L’occasione non mancherà per procurarci delle bistecche. Per oggi accontentiamoci delle tigri.»

«Manderemo il pilota e Feng a scuoiarle. Orsù, in ritirata. Per oggi possiamo essere soddisfatti.»

Un quarto d’ora dopo i due cacciatori e Len-Pra facevano ritorno all’accampamento, dove trovarono Feng che soffiava a tutta lena sotto una pentola da cui usciva un profumo appetitoso.

«Pare che il mio servo non abbia perduto il suo tempo,» disse il generale. «Che cosa bolle lì dentro, Feng?»

«Un bel tucano, signore,» rispose lo Stiengo.

«Sei un bravo ragazzo. Noi non avremmo potuto mettere nella pentola che due pelli di tigre, e temo che non avrebbero fatto un brodo bevibile. È vero, dottore?»

«Pieno di parassiti, generale,» rispose Roberto, ridendo.

«A tavola, signori,» disse lo Stiengo. «Il tucano è cotto a puntino.»

Capitolo XXII. Il colpo del puram

Ventiquattro ore dopo, il piccolo drappello levava il campo, riprendendo la marcia verso il settentrione.

Tutti avevano premura di giungere sulle rive del Tuli-Sap, il pilota specialmente, perché là sperava di guadagnarsi finalmente il tanto sospirato bottone di mandarino, sbarazzandosi della compagnia del dottore.

Il miserabile si era ormai accorto che non era solamente un vincolo d’amicizia quello che univa la bella siamese all’europeo, e gli premeva di mettere in mano a Mien-Ming quel pericoloso rivale.

Per quattro giorni il drappello continuò ad avanzare attraverso foreste immense, popolate solamente da bande di scimmie e da qualche rado rinoceronte, e verso il tramonto del quinto s’arrestò finalmente sulle rive di quel vasto lago, in prossimità d’una vecchia pagoda, di cui non rimanevano in piedi che le pareti, essendo la cupola rovinata.

Il Tuli-Sap è uno dei maggiori laghi che abbia il Siam, avendo una estensione ragguardevole.

Fino a pochi anni or sono era quasi ignorato dagli stessi Siamesi, i quali ben di rado osavano spingersi fino a quelle alte regioni, abitate dalle tribù bellicose e selvagge degli Stienghi.

Esso si stende dal 12°25’ di latitudine est fino al 13°55’. La parte che si prolunga verso il Mekong bagna una immensa pianura ondulata; il lato opposto invece rade le alte giogaie del Pursat.

Le sue rive sono coperte da foreste immense, d’una bellezza meravigliosa, popolate da elefanti, da rinoceronti, da cervi, da porci selvatici e da bande di bufali ferocissimi; mentre le sue acque, trasparenti e sempre fresche, sono abitate da alligatori non meno pericolosi delle belve e da stormi giganteschi di pellicani e di cormorani.

«Un superbo lago!» esclamò il dottore, che si era spinto fino sulla riva assieme a Len-Pra ed al generale per cercare di abbattere qualche coppia di pellicani.

«Dove troverete selvaggina finché vorrete,» rispose Lakon-tay. «Le boscaglie che circondano questo ampio bacino ne hanno in così gran copia, che gli Stienghi, quantunque posseggano qualche raro fucile, preferiscono dedicarsi alla caccia anziché all’agricoltura.»

«Siamo ancora molto lontani dalle rovine d’Angkor?»

«Due giorni di marcia, mi ha detto Feng, che conosce il paese e che le ha più volte visitate nella sua gioventù. Anzi deve trovarsi in questi dintorni la sua tribù.»

«Alla foce del Kun-Boreye,» disse Feng, che li aveva in quel momento raggiunti, per annunciare che la cena era già pronta.

«Troveremo sulla nostra via i tuoi compatrioti?»

«Certo, padrone.»

«Si ricorderanno ancora di te?»

«Il capo della tribù, che è mio parente, non mi avrà certo dimenticato.»

«Ha dei villaggi la tua tribù?» chiese il dottore.

«No, signore. I miei compatrioti vivono come le belve, in mezzo ai boschi umidi, accontentandosi di poche foglie poste su tre o quattro bastoni per ripararsi dalle intemperie.»

«Sono selvaggi,» disse il generale, «che non hanno sedi fisse, che coltivano solo qualche pezzo di terra, non avendo bisogno di molte cose per vivere. Tutto è buono per loro e non fanno differenza fra un pollo o un rospo o un pipistrello.»

«Che stomaci!» esclamò Roberto.

«Lasciamo i pellicani e andiamo a cenare, dottore,» disse Lakon-tay. «Domani avrete quanto tempo vorrete per fare una buona caccia. Questa sera lasciamoli tranquilli.»

L’accampamento era stato piantato nel cortile della vecchia pagoda, il quale aveva ancora la sua cinta, quantunque fosse qua e là screpolata.

Cumuli di rottami ingombravano parte del recinto. Vi erano ammonticchiate alla rinfusa colonne di legno che conservavano ancora un po’ di dorature, frammenti di statue, ammassi di tegole di porcellana gialla, ancora bene conservate, aste e travi riccamente intagliate che dovevano aver fatto parte della cupola o della piramide che un tempo s’innalzava sulla pagoda.

Feng ed il pilota, poco fidandosi delle malferme pareti del tempio, avevano innalzato le tende all’opposta estremità del cortile, affinché il crollo eventuale di qualche colonnato non schiacciasse i padroni durante la notte, ed avevano radunato i cavalli presso la porta della cinta.

«È in completo disordine questa pagoda,» disse il dottore, che terminata la cena si era diretto verso la porta per visitare quell’antichissima costruzione. «Deve contare dei secoli.»

«O delle migliaia d’anni?» disse Lakon-tay che lo accompagnava. «Deve essere stata alzata dagli abitanti dell’antico regno di Khmer.»

«Da quel popolo che ha lasciato in queste regioni tante tracce della sua potenza e della sua civiltà, e che poi è così miseramente scomparso?»

«Sì, dottore; come vi dissi, era così potente da poter mettere in campagna cinque milioni di combattenti e aveva centoventi re tributari.»

«E come è scomparso quel regno?»

«Non se ne sa nulla. Probabilmente deve essere stato assorbito dai Cambogiani e dai Siamesi.»

«Sicché gli ultimi rappresentanti sarebbero ora gli Stienghi. Come può un popolo così progredito, che ha innalzato monumenti e città così superbe, essere caduto così in basso?»

«Chissà… guerre, cataclismi, invasioni di altre genti meno civilizzate.

Guardate, dottore, come era ampia questa pagoda, che va lentamente sfasciandosi sotto l’incessante rodere delle intemperie.»

Erano entrati nel tempio, passando in mezzo ad ammassi di macerie.

Quattro ordini di colonne variopinte e riccamente intagliate, colle basi dorate, s’alzavano intorno alle pareti, stringendosi a poco a poco verso il centro, dove raggiungevano delle altezze straordinarie.

Nel mezzo una enorme statua dorata troneggiava su una specie di altare, formato da tronchi massicci, artisticamente intarsiati di madreperla e di tartaruga. Doveva rappresentare Gautama, il Budda adorato anticamente in quelle regioni.

Il dottore e Lakon-tay si erano spinti fra le colonne per meglio osservare, quando nel volgersi credettero di scorgere una forma umana scivolare rapidamente lungo la parete e scomparire entro un oscuro corridoio, che doveva condurre nelle celle un tempo abitate dai talapoini.

«Che mi sia ingannato?» si chiese il dottore.

«Avete veduto anche voi una forma umana?» chiese Lakon-tay, il quale si era bruscamente arrestato.

 

«Sì, generale.»

«Che si è cacciata in quel corridoio?»

«Ma sì… sì…»

«Che questa pagoda sia abitata da qualche spirito?»

«Io non ho di queste superstizioni,» disse Roberto.

«Visitiamo quel corridoio. Ho un pezzo di candela nella mia borsa.»

«Sarà qualche povero Stiengo che ha preso alloggio fra queste rovine.»

«Desidererei però assicurarmene, quantunque non siamo persone da inquietarci per la vicinanza d’uno di quei selvaggi.»

Accesero la candela, impugnarono i loro coltellacci e si cacciarono nel corridoio, che era fiancheggiato da enormi paraventi laccati ed istoriati. Un’oscurità profonda regnava là dentro, mentre saliva dal suolo un tanfo insopportabile di muffa.

Anche là vi erano rottami. Le volte in più luoghi avevano ceduto e le arcate di legno giacevano al suolo, in mezzo ad ammassi di tegole di porcellana azzurra e di mattonelle pure di porcellana.

Percorsi sessanta o settanta passi, senza aver nulla trovato, sbucarono in un secondo cortile, dove un tempo dovevano elevarsi le stanze dei talapoini e dei bonzi. Anche di quelle non rimanevano che poche pareti semicrollate e cumuli di macerie.

«Dobbiamo esserci ingannati,» disse il generale. «Probabilmente abbiamo scambiato una delle nostre due ombre, proiettata sulla parete, per un uomo.»

Rassicurati, tornarono nella pagoda e raggiunsero il primo cortile, dove Feng aveva acceso un gran fuoco fra le due tende.

Per non allarmare Len-Pra, durante la serata non fecero cenno dell’ombra che avevano scorto. Quando però la fanciulla si fu ritirata nella sua tenda, avvertirono Feng e il pilota di far buona guardia, non essendo del tutto convinti d’aver preso un granchio.

Kopom, che aveva già sospettato qualche cosa, quand’ebbe udito dalla bocca del generale la storia di quell’ombra, alzò le spalle, dicendo:

«Dovete esservi ingannati. Nessuno oserebbe stabilire il suo domicilio in quella pagoda che cade da tutte le parti.»

Poi soggiunse fra sé: «Per poco non si tradivano, quegli stupidi. Non sono né furbi né prudenti, gli uomini del puram

Essendosi assunto il primo quarto di guardia, stese una coperta presso il fuoco e vi si sdraiò sopra, cacciandosi in bocca un pugno di betel.

«Se l’ombra si mostrerà, la saluterò con un buon colpo di fucile,» disse a Feng, che appariva un po’ impressionato. «Puoi dormire tranquillo, finché io veglio, poiché non ho mai avuto paura degli spiriti. Buona notte, amico, non temere né per te, né per i tuoi padroni.»

Lasciò trascorrere qualche ora, poi quando fu ben sicuro che tutti dormivano profondamente, si levò senza far rumore, prese il fucile e si diresse verso la pagoda.

Stava per giungere al primo gradino, quando vide comparire fra le colonne un uomo che subito riconobbe per la sua obesità, quantunque la luce del falò non giungesse fin là.

«Mien-Ming,» disse fra sé. «Come è stato puntuale!»

Salì rapidamente e s’inchinò dinanzi al possente puram.

«Eccomi, padrone,» mormorò.

«Sono due giorni che ti aspetto, e cominciavo già a dubitare della tua venuta,» disse il puram.

«Si sono fermati per riposarsi, padrone.»

«Ho acquistato una barca dagli Stienghi del Kun-Borey e m’aspetta a cinquecento passi da qui con otto battellieri. Sbrighiamoci.»

«Che cosa devo fare, padrone? Sai bene che sono sempre ai tuoi ordini.»

«Dorme il farang

«Sì, padrone.»

«E quel servo, dov’è?»

«Si trova presso il fuoco.»

Mien-Ming estrasse dalla sua larga fascia di seta due fiale microscopiche e uno spillone d’argento dalla punta sottilissima.

Basta una leggera puntura per far cadere l’uomo più robusto in un sonno profondissimo, che durerà molte ore. Pungi prima il servo, poi il farang.

«E non mi udrà entrare nella tenda?» chiese Kopom. «L’uomo bianco può essere sveglio.»

«Vorresti tu guadagnarti il bottone di mandarino senza correre alcun rischio?»

«Accordami il permesso di ucciderlo, se mi sorprende.»

«No, mai; non desidero compromettermi, né avere questioni cogli europei, te lo dissi già.»

«Se poi gli Stienghi che io ho assoldato lo faranno sparire, tanto peggio per lui: la colpa non ricadrà su di me. Essi ignorano d’altronde chi io sia.»

«Ammiro la tua prudenza, signore.»

«Credi che un puram possa avere il cervello corto?»

«Oh no, padrone. Toh, e se ne approfittassimo per rapire la fanciulla? Una puntura anche a lei e sarebbe in tua balìa, signore.»

«Kopom, tu non sarai altro che un mandarino idiota,» rispose Mien-Ming, severamente. «Se dovessi accettare i tuoi consigli, non saprei, al mio ritorno a Bangkok, dove andrebbe a finire la mia testa.

Lakon-tay, anche se non gode più la fiducia del re, è sempre un uomo troppo potente perché io possa giocare apertamente con lui.

Un brutto giorno Len-Pra potrebbe narrare ogni cosa a suo padre e allora che cosa accadrebbe di me?»

«Hai ragione, signore, io sono una bestia,» disse Kopom a denti stretti.

«Infatti non sei molto furbo, giovanotto mio, e mi pare che tu invecchi innanzi tempo.

Lascia che il farang scompaia e vedrai che io non avrò più rivali degni di starmi a fronte. Chi oserebbe misurarsi con un puram? Orsù, sbrigati: io ho fretta di finirla.

Portami quel dannato europeo. I miei uomini sono nascosti dietro le colonne, e se Lakon-tay s’accorgerà di ciò che accade, saranno pronti ad imprigionarlo sotto la tenda, finché tu avrai finito.

Soprattutto, sii prudente e non far rumore.»

«Spero di cavarmela bene anche questa volta, padrone,» rispose Kopom.

«Se riesci, tu sarai mandarino.»

«Grazie, signore.»

Kopom prese le due fiale e lo spillone d’argento e tornò verso l’accampamento, camminando sulla punta dei piedi.

Il fuoco stava per spegnersi e Feng, che aveva assai faticato durante la giornata, russava sonoramente, avvolto nella sua coperta di lana.

«Non lo sveglierebbe nemmeno un colpo di cannone,» mormorò Kopom, sorridendo. «Ecco il momento di guadagnarmi il mio mandarinato.»

S’avvicinò al servo e adagio adagio svolse la coperta, soffiando dolcemente sul viso dell’addormentato. Imitava, forse senza saperlo, la manovra dei vampiri, i quali, affinché le loro vittime non si sveglino, producono colle ali una leggera corrente d’aria.

Messo allo scoperto un braccio, il briccone sturò la fiala, vi immerse l’ago, poi punse leggermente.

Feng sussultò, portando una mano sulla puntura e facendo un gesto come se volesse scacciare un insetto importuno; ma non aprì gli occhi.

«Che specie di narcotico sarà questo?» mormorò Kopom. «In fatto di veleni è un vero maestro quel diabolico puram

Si provò a scrollare dolcemente il servo, sussurrandogli agli orecchi:

«Svegliati: ho veduto l’ombra.»

Feng non si mosse e continuò a russare con maggior fracasso.

«All’altro ora, e speriamo che non abbia il sonno più leggero,» disse Kopom.

Si diresse verso la tenda e ne sollevò con tutte le precauzioni un lembo.

L’europeo dormiva non meno profondamente dello Stiengo, sdraiato su un soffice tappeto. Per essere più libero, si era sbarazzato della casacca, sicché mostrava le muscolose braccia nude.

Kopom strisciò entro la tenda e lo punse risolutamente. Era tale il sonno del dottore, che non fece alcuna mossa.

Il bandito attese quattro o cinque minuti per essere ben sicuro che quel misterioso narcotico avesse prodotto il suo effetto, poi lo scosse vigorosamente, dicendo a mezza voce:

«Signore! Signore! Svegliatevi! Assaltano il campo.»

Non ottenendo nessuna risposta, lo afferrò a mezzo corpo e lo sollevò.

«È ben pesante,» mormorò Kopom. «Fortunatamente la pagoda non si trova che a pochi passi.»

Uscì barcollando dalla tenda, nel passare diede un calcio agli ultimi tizzoni perché si spegnessero, e si diresse verso la pagoda.

Mien-Ming l’aspettava sull’ultimo gradino, circondato dai suoi banditi.

«Ecco il farang,» gli disse Kopom. «Sei contento, signore?»

«Tu sarai mandarino,» rispose Mien-Ming, facendo un gesto di gioia.

Diede un lungo sguardo, pregno d’odio, al suo rivale che giaceva inerte fra le braccia di Kopom, poi disse ai suoi uomini:

«Avete preparato la barella?»

«Sì,» rispose il più attempato.

«Portatelo sulla riva del lago, là ove gli Stienghi ci aspettano.»

«Ed io, signore, che cosa devo fare?» chiese Kopom.

«Accompagnare sempre Lakon-tay; noi ci rivedremo nella città del Re lebbroso. Ora che il dottore dalla pelle bianca è in mia mano, voglio la rovina del generale.»