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La città del re lebbroso

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«Quando sarà caduto in disgrazia, vedremo se rifiuterà a me, ricco e potente, la mano di Len-Pra.»

«La partita non è ancora finita.»

«Avrò ancora da lavorare, padrone?»

«Sì, ma non più pel tuo mandarinato, bensì per dell’oro, e ne avrai tanto da farti ricco, se continuerai a servirmi come hai fatto finora.

Addio, e arrivederci alle rovine di Angkor. Colà riceverai mie nuove.»

Ciò detto, il puram seguì i suoi uomini, che erano rientrati nella pagoda, portando con sé, su una barella improvvisata con rami intrecciati e foglie, il disgraziato dottore che era sempre addormentato.

Attraversarono alcune gallerie, uscirono nel secondo cortile senza essere stati disturbati e si cacciarono sotto i boschi che si estendevano fino alle rive del Tuli-Sap.

Capitolo XXIII. Fra gli Stienghi

Allorquando il dottore riaperse gli occhi dopo una dormita durata forse ventiquattro ore, invece di trovarsi sotto la sua tenda e di udire l’usuale chiamata di Feng annunciante la colazione del mattino, si trovò coricato nel fondo d’una piroga, scavata grossolanamente nel tronco d’un tek e montata da otto uomini quasi interamente nudi, che prima di allora non aveva mai veduto.

Stupito e anche molto inquieto di trovarsi in quella barca, fra sconosciuti che avevano delle facce poco rassicuranti, si alzò a sedere, cercando innanzi tutto il largo coltellaccio che usava portare alla cintura: ma non lo trovò, poiché i banditi del puram si erano ben guardati dal lasciarglielo.

«Dove sono io?» gridò. «Chi siete voi e dove mi conducete? Dov’è Lakon-tay?»

Gli otto battellieri, vedendolo alzarsi, cessarono di remare, e si misero a fissarlo con viva curiosità.

Non pareva che appartenessero alla razza veramente siamese, sia pel colorito della pelle, assai più scuro, sia pei tratti dei loro volti, più duri, più angolosi, dall’espressione cupa e feroce. Erano poi di statura più alta, più magri; avevano i capelli lunghi, invece di portarli rasati come i Siamesi, fermati da una specie di pettine di bambù sormontato da una cresta di fagiano; barbe folte, sopracciglia lunghe e nerissime, ed il loro vestito consisteva in una semplice sciarpa di tela grossolana, larga solamente pochi pollici, annodata ed attorcigliata attorno ai fianchi.

Se il loro vestito era così meschino, quei selvaggi però, almeno sembravano tali, erano formidabilmente armati. Ognuno teneva a fianco una pesante sciabola a lama larghissima, d’un acciaio finissimo, che mostrava, come i paranys dei bornesi, le vene del metallo; inoltre una scure ed un lungo arco; e sulla schiena ognuno portava una piccola gerla di fibre intrecciate, piena di frecce, le cui punte acutissime erano coperte da una sostanza bruna, probabilmente qualche materia velenosa.

Il dottore, dopo averli rapidamente osservati, ripeté la domanda con voce imperiosa:

«Chi siete voi dunque e dove mi conducete? Rispondete: io sono un uomo bianco.»

Uno dei rematori, che doveva essere, un capo, poiché portava sul pettine di bambù, oltre la cresta di fagiano, anche un ciuffo di penne di tucano legate con un filo di ottone, si decise finalmente a rispondere.

«Giacché l’uomo dalla pelle bianca desidera saperlo, noi siamo Stienghi del Kun-Boreye,» disse in un siamese abbastanza comprensibile.

«E dove sono i miei compagni?»

«Quali?»

«Il generale Lakon-tay, Len-Pra e i due servi.»

«Non li conosco, non ho mai veduto generali io.»

«Chi mi ha condotto qui? Io mi ero addormentato sotto la mia tenda ieri sera; come mi trovo ora in questa scialuppa?»

«Non so,» rispose lo Stiengo, con aria imbarazzata. «Degli uomini mi hanno incaricato di condurti alla foce del Kun-Boreye ed io ho obbedito.»

«Chi erano quegli uomini? chiese il dottore, che non riusciva a raccapezzarsi.

«Non li conosco.»

«E perché mi conduci alla foce di quel fiume?»

«Non posso risponderti. Ho ricevuto degli ordini, mi hanno pagato ed io obbedisco.»

«Mi dirai almeno chi ti ha dato quest’ordine.»

«Un uomo che mi hanno detto essere uno dei più potenti del Siam. Chi poi sia, io lo ignoro, né mi occupo di saperlo.»

Il dottore ebbe uno scatto di collera.

«Bada, io sono un uomo bianco, e un’offesa fatta a me si paga cara. Riconducimi alla vecchia pagoda da dove voi, miserabili, mi avete rapito, o vi farò tagliar la testa dai carnefici del re del Siam.»

Il capo alzò le spalle, dicendo:

«Il re del Siam è troppo lontano per essere temibile e poi le sue truppe non oserebbero avanzare attraverso le nostre foreste. La febbre dei boschi fa troppa paura ai Siamesi.»

«Lakon-tay è ancora troppo vicino, e tu ti ricorderai che lui non ha avuto paura di invadere le vostre selve.»

Udendo per la seconda volta quel nome, lo Stiengo trasalì e la sua faccia si oscurò. Il dottore si era accorto che quel nome aveva prodotto una certa impressione sul selvaggio.

«Ah! è vicino,» disse lo Stiengo dopo qualche minuto di silenzio.

«Vedi che lo conosci? E prima affermavi di non averlo mai udito nominare!»

Il selvaggio fece un gesto di stizza, evidentemente seccato di essersi tradito, poi riprese:

«Venga pure Lakon-tay; vedremo se questa volta devasterà le nostre selve. Ha molte truppe con sé?»

«Moltissime e agguerrite.»

«Perché allora ti hanno rapito dal suo campo?»

«È a te che lo domando,» disse il dottore.

Il capo rimase silenzioso per qualche minuto, evidentemente impensierito, poi disse:

«No, non posso: Tolom non può smentire la sua promessa, e poi io ho giurato su Brâ, la nostra divinità. D’altronde tu non hai nulla da temere, perché quegli uomini non mi hanno detto di ucciderti.»

«Dimmi almeno perché mi conduci alla foce del Kun-Boreye. Chi mi attende colà?»

«Non so nulla.»

Si volse verso i suoi uomini e diede alcuni ordini in una lingua che il dottore non comprendeva.

Subito la piroga, che fino ad allora aveva proseguito la corsa verso est, allontanandosi sempre dalle rive che erano ormai appena visibili, virò di bordo, dirigendosi invece verso il settentrione.

Aveva cambiato idea il capo? Si poteva crederlo.

Il dottore, che avrebbe ben desiderato tornare alla riva per raggiungere i suoi compagni, si provò ad interrogarlo, ma senza risultato. Lo Stiengo si era rinchiuso in un silenzio ostinato e fingeva di non udire le domande del prigioniero.

Anche i suoi uomini non parlavano: lavoravano invece con accanimento, arrancando con vigore ed imprimendo alla piroga una velocità straordinaria.

Calava allora la sera, ciò che fece supporre al dottore d’aver dormito almeno ventiquattro ore, poiché quando si era addormentato sotto la tenda erano appena le nove.

Come aveva potuto dormire tanto? Non era ammissibile. Dovevano avergli somministrato qualche narcotico, ma chi e quando? Ecco quello che si chiedeva insistentemente, senza riuscire a trovare la soluzione di quel problema ingarbugliato.

E poi a quale scopo lo avevano rapito dall’accampamento, per affidarlo a quel drappello di selvaggi? E di Lakon-tay che cosa era successo? E di Len-Pra? E di Feng?

Così immerso in quei pensieri, egli non si era nemmeno accorto che la piroga, dopo una corsa rapidissima, durata qualche ora, aveva imboccato un largo fiume, ingombro d’isolotti coperti di foltissime piante, così bassi che emergevano dal livello delle acque appena pochi pollici.

Un urto abbastanza violento lo strappò dai suoi pensieri.

La piroga si era arenata contro una di quelle isolette, e in quello stesso momento un lampo abbagliante ruppe l’oscurità che aveva ormai avvolto il fiume e le rive.

«Sbarca,» gli disse Tolom, che era già balzato a terra portando tutte le sue armi.

«Dove mi conduci?» chiese Roberto.

«Cerchiamo un ricovero contro l’uragano che sta per scoppiare.»

Il dottore alzò gli occhi e solo in quel momento s’avvide che delle masse di vapori avevano coperto interamente la volta celeste.

«Dove siamo?» chiese.

«Alla foce del Kun-Boreye,» rispose il capo.

Fece assicurare la piroga al tronco d’un albero, poi si aprì il passo fra i folti cespugli che coprivano l’isolotto, mentre i suoi uomini si mettevano ai lati del prigioniero, come se avessero timore che fuggisse.

S’avanzarono così per un centinaio di passi e s’arrestarono dinanzi ad una capanna che sorgeva su un piccolo spiazzo, un’abitazione abbastanza ben fatta e solida, per essere stata costruita da selvaggi che si accontentano solitamente d’una piccola tettoia aperta a tutti i venti.

«È la tua capanna? chiese il dottore.

«È una pagoda dedicata a Brâ.»

«Non vale quelle che costruiscono i Siamesi.»

«Gli Stienghi non sono Siamesi,» si limitò a rispondere il capo. «Accontentati di quello che ti posso offrire e siimi grato.»

Fece il giro della capanna come se avesse voluto assicurarsi della solidità delle pareti e del tetto, poi fece accendere un bel fuoco con dei rami resinosi e preparare la cena, avendo portato con sé un quarto di cervo. Invece di arrostirlo intero, quei selvaggi lo divisero in vari pezzi, poi li cacciarono entro tubi di bambù verdi e li esposero al fuoco; sistema molto strano, ma in uso presso tutte le tribù degli Stienghi, i quali non hanno mai conosciuto i forni e tanto meno gli spiedi e le pentole.

Avevano appena cominciato a mangiare, quando un improvviso colpo di vento passò sulle foreste che coprivano le due rive del fiume, facendo scricchiolare i rami e torcendo le immense foglie.

Quasi nello stesso momento dei tuoni spaventevoli si ripercossero nelle profondità del cielo, mentre lampi accecanti si succedevano l’uno dietro l’altro, con intervalli di appena pochi secondi.

«L’uragano!» disse il capo al dottore. «Spicciati.»

 

Le prime gocce cominciavano a cadere, e che gocce! Cadevano con gran rumore, battendo sulle larghe foglie con tale forza che parevano chicchi di grandine.

Il capo prese un ramo acceso, e volgendosi al dottore che aveva terminato la cena, gli disse:

«Seguimi, se ti preme metterti al riparo da questa doccia colossale.»

Entrò nella capanna, alzando la spessa stuoia che serviva da porta, e lo spinse dentro, piantando il ramo in terra.

«Buona notte,» disse, indicandogli un folto strato di foglie secche.

«E voi, non vi rifugiate qui dentro?» chiese Roberto.

«Noi non abbiamo paura dell’acqua,» rispose lo Stiengo, sorridendo. «Un cespuglio ci serve quanto una capanna.»

E lasciò ricadere la stuoia, mentre i tuoni scrosciavano con fragore assordante e l’acqua cadeva con rabbia estrema come nei tristi giorni del diluvio universale.

La capanna non conteneva che un idolo d’argilla, situato proprio nel mezzo, su un masso di pietra scolpito rozzamente, rappresentante certamente Brâ, la dea venerata dalle tribù degli Stienghi.

Appese alle pareti vi erano alcune di quelle pesanti sciabole adoperate da quei selvaggi, che forse il capo, nella sua fretta di andarsene, non aveva nemmeno osservato.

«Sarei uno stupido se non ne prendessi una,» disse Roberto. «Non si sa mai quello che può succedere.»

Ne staccò una e si coricò sul letto di foglie, mentre al di fuori l’uragano raddoppiava la sua furia.

Il vento ululava fra le selve che coprivano le due rive, torcendo rami e tronchi, mentre i tuoni rombavano con tale intensità da far tremare persino le pareti della capanna.

«Una notte d’inferno,» mormorò il dottore. «Non invidio certamente quei selvaggi, ai quali auguro che un fulmine li incenerisca.»

«Mia diletta Len-Pra, quando potrò rivederti? Possibile che io non riesca a scoprire il motivo di questo rapimento?»

Ad un tratto trasalì e si alzò a sedere.»

«Che gli uomini che mi hanno rapito siano gli stessi che hanno cercato di assassinarmi durante la caccia all’elefante? E che questi Stienghi siano loro complici? Ma il motivo? Perché devono avercela con me? Che male ho fatto loro? Che cosa darei per spiegare tutto ciò!

Oh, non rimarrò a lungo nelle mani di questi selvaggi. Ora ho delle armi e, dovessi impegnare una lotta suprema, saprò riacquistare la mia libertà.»

Così monologando, finì per addormentarsi. L’aria d’altronde era così satura di elettricità, che nessuno avrebbe potuto resistervi.

Quanto dormì? Difficile saperlo. Fu bruscamente svegliato da una sensazione di freddo che aumentava rapidamente.

Non sapendo a che cosa attribuirla, s’alzò di colpo, domandandosi se dei serpenti si fossero introdotti nella capanna.

La torcia si era spenta ed una profonda oscurità regnava intorno a lui.

Si toccò le vesti che erano diventate estremamente pesanti, e ritrasse le mani bagnate.

«Questa è una inondazione!» esclamo.

Raccolse la sciabola che aveva deposto presso il letto di foglie e alzò i piedi. Solo allora s’accorse che tutto il pavimento della capanna era coperto da uno strato considerevole d’acqua.

«Sgombriamo!» esclamò. «Non sono già un topo per annegare in questa gabbia.»

S’avanzò a tentoni finché scoprì la stuoia che serviva da porta. Con un calcio poderoso la squarciò e balzò fuori.

La pioggia cadeva sempre con furia estrema, ma i lampi erano cessati e per di più il fuoco acceso dagli Stienghi si era spento.

«Ohé, capo!» gridò. «Dove sei?»

Nessuno rispose alla sua domanda.

«Che siano fuggiti?» mormorò. «Da un lato sarebbe una fortuna, dall’altro una disgrazia. Mi pare che il fiume si sia improvvisamente ingrossato e che le sue acque abbiano invaso l’isola. Questa è una vera inondazione.»

Non s’ingannava, perché anche fuori dalla capanna vi era un buon piede d’acqua, e la corrente si frangeva con una certa violenza contro i cespugli che coprivano quel brano di terra.

«Cerchiamo la scialuppa,» disse Roberto.

S’avanzò a tentoni verso il luogo dove supponeva si trovasse ancora l’imbarcazione, sperando di incontrare colà gli Stienghi; invece si smarrì fra i cespugli che coprivano l’isoletta da una estremità all’altra.

Fortunatamente un lampo gli mostrò la capanna, e fu ancora in tempo a raggiungerla.

Era una vera fortuna. Durante quei minuti la corrente che aveva invaso l’isola era diventata fortissima, e l’acqua si era tanto alzata da giungergli alle caviglie.

«Salviamoci sul tetto,» pensò. «Impossibile che la piena mi raggiunga anche lassù!»

La scalata non era difficile, essendo le pareti formate da canne di bambù grossissime, trattenute da traverse tenute ferme da nodi di rotang.

Aggrappandosi ora all’una ed ora all’altra, Roberto, che non era meno agile d’un siamese, in pochi slanci riuscì a guadagnare il tetto, che era formato da fitti strati di foglie secche e da travicelli di bambù.

Si appollaiò sulla parte più alta e attese, colla convinzione che le acque non lo avrebbero raggiunto a quell’altezza.

La pioggia non cessava di cadere e l’oscurità era diventata così profonda, essendo cessati i lampi, che il dottore non riusciva a vedere a cinque passi dalla punta del suo naso.

Intorno all’isoletta, già tutta sommersa, udiva il fiume muggire cupamente. Improvvisamente gonfiato da quel furioso acquazzone che durava già da parecchie ore, straripava da tutte le parti. Anche le folte foreste delle due rive dovevano essere state allagate.

«Come finirà tutto ciò?» si chiese il dottore, le cui inquietudini aumentavano di momento in momento. «E quei furfanti che mi hanno abbandonato senza prendersi la briga di svegliarmi? Che i gaviali del lago li divorino tutti!»

Uno scricchiolio sinistro, che si ripercosse fino alla punta del tetto, lo fece trasalire.

L’intera capanna vibrava come se fosse lì lì per sfasciarsi sotto gli urti incessanti delle acque, le quali si accavalcavano disordinatamente sopra l’isoletta, frangendosi contro i cespugli.

«Questa costruzione non resisterà a lungo,» mormorò il disgraziato dottore. «Fortunatamente sono un buon nuotatore e spero di poter guadagnare in qualche modo la riva.

Peccato che non lampeggi più! Con questa oscurità non sarà facile dirigersi e trovare…»

Un nuovo scricchiolio, seguito da alcuni schianti, lo interruppe.

I bambù che formavano le pareti cominciavano a cedere, due o tre per volta, e l’acqua irrompeva ormai entro la capanna, gorgogliando.

Il dottore affondò le mani nella massa di fogliame che formava il tetto.

«Chissà!» mormorò. «Forse galleggerà. Non disperiamo.»

Le oscillazioni della capanna aumentavano ed il tetto cominciava ad inclinarsi da un lato.

Per fortuna, proprio nel centro, s’ergeva un’asta formata da un grosso bambù, sicché il dottore, che vi si era aggrappato solidamente, poteva resistere a qualunque inclinazione.

Ad un tratto i pali cedettero assieme ai rotang, ed il tetto precipitò in acqua. Si sommerse, sollevando tutt’intorno alti spruzzi di spuma, poi rimontò a galla e filò attraverso l’isola, ondeggiando e girando lentamente su se stesso.

Come il dottore aveva previsto, galleggiava come una zattera, quantunque fosse in parte sommerso.

Quando però si trovò nel fiume, la sua corsa divenne rapidissima, tanto che il naufrago ebbe per qualche momento il timore di non poter più resistere.

Quella strana zattera correva vertiginosamente, girando e rigirando su se stessa entro i gorghi o balzando e rimbalzando sui cavalloni. La corrente del fiume la trasportava verso il lago.

Ad ogni momento urtava con grandi scossoni contro tronchi d’albero. Quella massa di foglie, fortunatamente ben unita da fibre solidissime di rotang e di sagù, cappeggiava pericolosamente e affondava, facendo prendere al naufrago dei continui bagni.

«Purché non si sfasci, tutto andrà bene,» mormorava Roberto, stringendo nervosamente il bambù.

Quella corsa vertiginosa durò una ventina di minuti, poi quasi improvvisamente cessò, ma allora successero delle ondulazioni ben più pericolose.

Dei cavalloni si rovesciavano incessantemente sulla zattera, muggendo e scrosciando, passandovi sopra e coprendo volta a volta il naufrago, il quale faticava assai e correva pericolo di venir portato via.

Erano le onde del lago.

Anche il Tuli-Sap era in piena e l’uragano l’aveva sconvolto. Quei pochi, ma poderosissimi soffi erano bastati per turbare la sua superficie, solitamente così tranquilla.

Sempre ondulando, il tetto della capanna continuava ad allontanarsi dalla foce del Kun-Boreye, spinto dalla corrente del fiume che doveva farsi sentire ad una distanza notevole.

Il dottore resisteva sempre tenacemente agli assalti delle onde, che non gli accordavano un istante di tregua. Quantunque si sentisse affranto, non lasciava il bambù, anzi lo stringeva con crescente energia colle mani e colle gambe.

Non sapeva più dove fosse. Si trovava ormai molto lontano dalla riva o vicino? Era impossibile saperlo, perché l’oscurità regnava sempre sovrana sul lago.

«Non disperiamo,» ripeteva. «L’alba non tarderà a rompere queste maledette tenebre. Se riesco a resistere fino ad allora, saprò ben io dirigere alla meglio la mia zattera.

Dopo tutto, non debbo lamentarmi di questo uragano, che mi ha strappato dalla compagnia di quei bricconi.»

Capitolo XXIV. L ‘assalto della pantera

Quando finalmente i primi albori diradarono a poco a poco le tenebre, il dottore poté rendersi esattamente conto della sua situazione.

La corrente del fiume e fors’anche il vento, che non aveva cessato di soffiare dalla parte della riva, l’avevano spinto a tre o quattro miglia al largo, facendolo deviare verso il sud: la foce del Kun-Boreye non si scorgeva più.

La costa che aveva di fronte non era più quella che aveva osservato il giorno innanzi. Era una terra assai bassa, interrotta da paludi piene di canneti e da boscaglie con tek altissimi.

Il tetto non aveva ceduto. Solamente i suoi margini erano stati danneggiati e ridotti a brandelli dagli incessanti attacchi delle onde, tuttavia per il momento non correva alcun pericolo, tanto più che il lago cominciava a calmarsi.

«Come riguadagnare la costa?» si chiese il dottore, che si era rizzato in piedi per meglio osservarla. «Ci vorrebbe qualche remo, mentre non posseggo che la mia sciabola… Un remo!… Non ne ho forse uno? Quello che stringo fra le mani in questo momento? Proviamo a levarlo.»

Allargò prima colla punta della sciabola gli strati di foglie che formavano il culmine del tetto, poi si mise a scuotere vigorosamente il grosso bambù.

Stava già per strapparlo, quando il tetto s’inclinò improvvisamente da un lato affondando più che mezzo. Se il naufrago non avesse tenuto in quel momento il bambù ancora fra le mani, sarebbe certamente caduto in acqua, tanto era stata brusca quella scossa.

«Chi squilibria la mia zattera?» esclamò, voltandosi rapidamente.

Una testa orribile, armata di lunghe mascelle irte di denti aguzzi e giallastri, era emersa improvvisamente, allungandosi verso il naufrago.

«Un gaviale!» esclamò il dottore impallidendo. «Se cadevo in acqua trovavo una bella bocca!»

Il sauriano aveva già appoggiato le zampe anteriori sull’orlo del tetto e tentava di spingersi verso la preda umana.

Il galleggiante, sotto quel peso, continuava ad inclinarsi, minacciando di capovolgersi.

Il dottore non si perdette d’animo, quantunque sapesse d’aver a che fare con un avversario non meno pericoloso dei coccodrilli che infestano le acque dei fiumi africani.

Si aggrappò colla sinistra al bambù, afferrò colla destra la pesante sciabola che teneva infissa nella fascia, e menò al sauriano un colpo formidabile. La grossa scatola ossea del mostro crepitò sotto l’urto dell’acciaio, senza però cedere.

«Ah!… Non vuoi lasciarmi!» gridò il dottore, che sentiva il tetto inclinarsi sempre. «Prendi, bruto!…»

Menò un secondo colpo e non già sulle piastre ossee che corazzavano il rettile, bensì su una delle zampe appoggiate all’orlo della zattera, troncandogliela netta.

Quasi subito il tetto si raddrizzò, mentre quel pericoloso abitante dei laghi e dei fiumi indocinesi s’inabissava con fragore, mandando un rauco muggito.

«Perbacco!… Come tagliano queste sciabole!» esclamò il dottore. «Non avrei creduto che dei selvaggi potessero dare al loro ferro una simile tempra. Speriamo che quel bruto mi lasci ora tranquillo.»

Pulì la sciabola rimettendosela nella fascia, poi con uno strappo violento levò il bambù. Era una bella canna, grossa quanto il braccio d’un uomo, lunga due metri. Certamente non poteva servire gran che a dirigere una zattera, per quanto piccola e leggera fosse.

 

Il dottore seppe trarne egualmente partito. Strappò alcuni fasci di foglie secche e le legò strettamente ad una delle estremità.

«Se non sarà precisamente un remo, me ne servirò egualmente, disse. «La riva non è che a tre miglia e sono certo di poterla raggiungere fra un paio d’ore.»

Si sedette sulla cima del tetto, infilando i piedi nel buco che aveva aperto per meglio strappare il bambù, e si mise a remare, imprimendo al galleggiante delle piccole scosse.

Non guadagnava molto, a dire il vero, tuttavia avanzava, favorito anche dalle onde che andavano a rompersi contro la costa.

Dopo il mezzodì poté finalmente toccare la sponda. Era talmente esausto che, appena salita la riva, si lasciò cadere di peso al suolo, all’ombra d’un banano selvatico che stendeva per un vasto tratto le sue immense foglie.

Dove era sbarcato? Per il momento non si curava di saperlo, troppo contento di aver raggiunto la terra e lasciato quella pericolosa zattera che poteva da un momento all’altro sfasciarsi.

Appoggiato col dorso contro il tronco della pianta, guardava con viva curiosità la sponda, che era cosparsa di sabbia e di penne di cormorani e di pellicani.

Non vi erano né barche, né capanne, né verso nord, né verso sud. Forse quella parte del lago non era mai stata visitata nemmeno dagli Stienghi, i quali di rado escono dalle loro folte ed umide foreste.

«Procuriamoci la colazione,» disse Roberto, dopo essersi riposato una mezz’ora. «Poi cercherò di orientarmi per raggiungere la pagoda. Lakon-tay e Len-Pra non l’avranno certo lasciata e mi aspetteranno ancora.

Poveri e cari amici! Come saranno inquieti per questa mia lunga assenza! Ma non piangere, mia adorata fanciulla: noi ci rivedremo ancora, a dispetto di quei misteriosi nemici che mi perseguitano con tanta ostinazione. Ora infatti sono ben convinto che si tratta degli stessi che mi hanno teso un agguato durante la caccia all’elefante.»

Si alzò e discese la riva, dove si scorgevano numerose buche coperte da ramoscelli e da foglie secche.

«Devono essere nidi di cormorani,» mormorò.

Dopo averne visitati parecchi senza risultato, riuscì finalmente a scoprirne uno che conteneva una mezza dozzina d’uova, un po’ più grosse di quelle dei piccioni e col guscio leggermente rugoso.

«Per il momento basteranno,» disse. E le vuotò una dietro l’altra, senza nemmeno accorgersi che avevano un certo gusto di pesce poco gradevole.

Un po’ riconfortato da quella modesta colazione, tagliò un ramo per servirsene di bastone e si mise a costeggiare il lago, dirigendosi verso il sud.

Avendo voltato le spalle alla foce del Kun-Boreye, era certo di rintracciare la vecchia pagoda, quantunque ignorasse a quale distanza si trovava. La sua marcia non durò a lungo, perché dopo qualche ora si vide chiuso il passo da una vastissima palude, che pareva dovesse avere una estensione immensa.

«Non avevo pensato a questi ostacoli,» disse, facendo un gesto di malumore. «Se dovrò fare il giro di questa palude, raddoppierò e forse anche triplicherò il mio cammino, e corro il pericolo di non ritrovare mai più Lakon-tay e Len-Pra. A meno che non mi spinga fino alla città del Re lebbroso, se saprò trovarla.»

Rimase parecchi minuti immobile, cercando invano la soluzione di quel difficile problema, poi prese ad un tratto il suo partito.

«Giriamola,» disse. «Raddoppierò le marce e non dormirò che qualche ora.»

E si cacciò senz’altro nella boscaglia che contornava la palude.

Era una di quelle foreste umide che sono preferite dalle tribù degli Stienghi, perché li pongono al coperto dalle invasioni dei loro nemici, i Cambogiani ed i Laotini. Foreste orribili, sature di umidità, sorte su terreni paludosi, pullulanti di sanguisughe, di scorpioni, di centopiedi, di scolopendre e di serpenti velenosi, e che celano sotto la loro ombra quella terribile febbre dei boschi, così micidiale agli europei non solo, ma perfino agli stessi Siamesi.

Il dottore, animato dal desiderio di ritrovare il generale e soprattutto Len-Pra, che ormai amava intensamente, proseguiva intrepidamente la sua marcia, sciabolando i rami ed i rotang che gli ostacolavano il passaggio, inoltrandosi sempre più in quella gigantesca foresta.

Aveva lasciato la riva paludosa a causa della poca consistenza del suolo, e badava di non allontanarsi troppo per paura di smarrirsi fra quelle migliaia e migliaia di piante, cosa non improbabile, non avendo alcun mezzo per dirigersi, nemmeno il sole, il quale non si lasciava vedere fra quelle foglie mostruose che formavano una volta assolutamente impenetrabile.

Avanzò così per parecchie ore, raccogliendo qua e là qualche frutto, finché, esausto da quella lunga marcia e semisoffocato dal calore intenso che regnava nella foresta, si fermò sotto un albero d’aquila di proporzioni enormi, coll’intenzione di passare colà la notte. Mancando ancora qualche ora al tramonto, si mise a frugare i cespugli vicini colla speranza di sorprendere qualche cerbiatto, avendone scorti parecchi fuggire durante la giornata.

Era tutto intento nelle sue ricerche, quando udì sopra il suo capo agitarsi le fronde d’un tonki. Alzò gli occhi e scorse, non senza un brivido di terrore, un grosso animale dal pelame giallastro, picchiettato di macchie a forma di mezzaluna, che stava appiattato nella biforcazione d’un grosso ramo e lo fissava con due occhi gialloverdognoli dalla pupilla rotonda.

Il dottore fece tre o quattro salti indietro, alzando la sciabola e mettendosi in guardia, come uno schermitore che si prepara a parare una botta.

«Una pantera!» esclamò. «Cattivo incontro, se è affamata. Se non avessi questa sciabola, per me la sarebbe finita subito.»

La pantera pareva però che non avesse fretta di assalirlo. Forse la posa del dottore e lo scintillio dell’arma tenuta in alto la rendevano più prudente.

Lo fissava coi suoi occhi verdastri, contraendo le labbra e ondeggiando lievemente la coda, mentre le sue unghie s’affondavano con un sinistro crepitio nella corteccia del ramo.

Il dottore stava per fare un’altra mossa indietro, onde mettersi fuori portata dallo slancio della belva, quando vide i cespugli che crescevano attorno al tronco della pianta aprirsi con precauzione, e comparire un uomo, il quale aveva l’arco già teso con una lunga freccia incoccata.

«Toh! Uno Stiengo ora!» esclamò il dottore. «Non bastava la pantera?»

Il selvaggio aveva puntato risolutamente la freccia sul dottore, alzandola e abbassandola come se cercasse il punto migliore per toccare qualche organo vitale.

Era un uomo di alta statura, dalla carnagione assai scura con riflessi giallastri, i lineamenti duri e angolosi, gli occhi nerissimi e foschi: era quasi nudo, non avendo che uno straccio grossolano attorno ai fianchi.

Oltre l’arco e la faretra, portava dietro al dorso una sciabola simile a quella che aveva il dottore.

Pareva non si fosse ancora accorto della presenza della pantera, che gli stava quasi sopra la testa. Altrimenti non si sarebbe certo fermato in quel luogo troppo pericoloso.

Il dottore, che temeva fosse uno di quelli che lo avevano rapito, con una mossa fulminea si gettò dietro il tronco d’un albero d’aquila, gridando al selvaggio con voce minacciosa:

«Abbassa quella freccia, canaglia! Non vedi che sono un uomo bianco? Guarda invece sopra la tua testa.»

Lo Stiengo, sia che non comprendesse il siamese o che fosse deciso ad assalire l’uomo dalla pelle bianca, invece di abbassare la freccia uscì dai cespugli, tenendo l’arco sempre teso, e fece due passi di fianco per prendere una posizione più adatta a scagliare quel pericoloso dardo.

In quell’istante il dottore, che non perdeva d’occhio neanche la pantera, vide la belva alzarsi lentamente sulle sue tozze e robuste zampe e raccogliersi come i gatti quando si preparano a saltare.

«Guardati!» gridò al selvaggio. «La pantera! Stupido, sta per scagliarsi su di te!»

Un sordo brontolio fece alzare la testa allo Stiengo. Vedendo il felino, fece l’atto di fuggire, ma gliene mancò il tempo.

La terribile belva con uno slancio fulmineo gli piombò addosso, lo atterrò di colpo con una poderosa zampata sulla spalla sinistra, poi scomparve in mezzo agli alberi, mandando un sordo mugolio.

L’assalto era stato così rapido, che il dottore non aveva avuto il tempo di accorrere in aiuto del selvaggio.