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La città del re lebbroso

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Capitolo XXVIII. In cerca del dottore

Quando Lakon-tay si svegliò, il pilota stava preparando il tè, tranquillo come se nulla fosse accaduto, mentre Feng continuava a russare, placidamente avvolto nella sua coperta di lana.

«Non è successo niente durante la notte?» gli chiese.

«No, signore. Io non ho veduto nessuno aggirarsi intorno all’accampamento.»

«E Feng?»

«Feng ha dormito sempre, signore. Non so che cosa abbia bevuto ieri sera prima di coricarsi; mi sono provato a scuoterlo per svegliarlo, ma non ha aperto gli occhi, e io allora l’ho lasciato dormire.»

«Ciò è strano. Feng non ama i liquori.»

«Prova tu a svegliarlo, padrone.»

«Che sia ammalato?» mormorò il generale.

S’accostò al fedele servo, gli tolse di dosso la coperta e lo scosse replicatamente, dicendogli:

«Diventi un poltrone, Feng. Orsù, alzati, il sole si è già levato.»

Lo Stiengo rimase immobile cogli occhi chiusi e continuò a russare.

«Che cosa può aver bevuto questo giovane?» si chiese il generale, assai sorpreso per quel sonno profondo e così prolungato. «Che qualche serpente lo abbia morso? In tal caso il suo sonno sarebbe agitato e la sua respirazione non sarebbe così regolare.»

«Pilota!»

«Eccomi, signore.»

«Va’ a svegliare il dottore; egli saprà trovare certo la causa di questo letargo inesplicabile.»

Kopom s’avvicinò alla tenda dell’italiano, vi entrò, e subito mandò un grido di stupore.

«Signore, l’uomo bianco non c’è più.»

Lakon-tay impallidì.

«Sei cieco? È impossibile che non vi sia.»

«Vieni a vedere, padrone.»

Il generale corse verso la tenda e constatò coi propri occhi che Roberto era veramente scomparso e che con lui era scomparsa la carabina, che ordinariamente teneva presso il giaciglio.

«Che sia andato a cacciare sulle rive del lago?» si domandò il generale, un po’ rassicurato non vedendo la carabina. «Sentiamo un po’, pilota: hai sempre vegliato tu?»

«Ho dormito qualche ora, un po’ prima dell’alba,» rispose Kopom, fingendosi confuso.

«Allora sarà andato a cacciare i pellicani.»

«Chi, padre?» chiese Len-Pra, uscendo dalla sua tenda.

«Il signor Roberto.»

«Senza di me!» esclamò la fanciulla, facendo un piccolo gesto di rammarico.

«Gli spiaceva di svegliarti, a quanto pare. Caccerai più tardi; noi ci fermeremo qui fino a domani.»

«Mi rincresce però che non sia qui, poiché ho bisogno di lui.»

«C’è Feng che dorme ancora e non riesco a svegliarlo.»

«Che sia stato colto dalla febbre dei boschi?»

«Lui, uno Stiengo! E poi non presenta alcun sintomo di febbre: non ha né brividi, né sudori freddi.»

«Che cosa avrà allora quel bravo ragazzo?»

«Non ci capisco nulla, Len.»

«Manda il pilota a cercare il dottore. Non sarà andato molto lontano.»

«Vado, padrone,» disse Kopom. «Il lago è vicino e tornerò presto.»

Mentre il furfante si allontanava correndo, il generale e la fanciulla si provavano ancora a svegliare lo Stiengo, senza però riuscirvi.

Il figlio dei grandi boschi umidi dormiva sempre e russava placidamente, come se avesse chiuso appena allora gli occhi.

Lakon-tay esaminò attentamente le membra dell’addormentato e trasalì vedendo su un braccio una leggera puntura nerastra che spiccava nettamente in mezzo ad una macchia rossastra, grande come una moneta da una lira.

«È stato morso da qualche insetto!» esclamò.

«Da qualche scolopendra o da uno scorpione?» chiese Len-Pra.

«Non saprei. Credo comunque che non vi sia motivo per inquietarsi. Il sonno è tranquillo e Feng non dormirà certo eternamente.»

Lo avvolse nella coperta di lana e lo portò sotto una tenda, dicendo:

«Lasciamolo tranquillo: penserà il dottore a svegliarlo.»

Vuotarono alcune tazze di tè, mangiarono qualche biscotto e misero un po’ in ordine le tende, in attesa che il pilota ritornasse.

Erano entrambi un po’ preoccupati, specialmente Len-Pra, per l’assenza del dottore. Quantunque sapessero che era molto amante della caccia, non riuscivano a convincersi che potesse essersi allontanato dall’accampamento senza avvertirli; infatti nulla aveva detto la sera innanzi.

Passò un’ora, poi due, ed il pilota non si fece vedere. Le loro inquietudini si tramutarono in una vera angoscia.

«Padre,» disse Len, che impallidiva a vista d’occhio. «Che sia successa qualche disgrazia al nostro amico? A quest’ora dovrebbe essere già di ritorno.»

«Si sarà forse allontanato troppo,» rispose il generale, che non voleva allarmare la fanciulla. «Giungerà, non dubitare, e con una mezza dozzina di pellicani.»

Un’altra ora trascorse, poi finalmente il pilota comparve all’entrata del recinto. Pareva pensieroso.

«L’hai trovato?» gli chiese Len-Pra, correndogli incontro.

«No, signora,» rispose il miserabile, facendo un gesto di scoraggiamento.

«Non l’hai visto?» gridò Lakon-tay.

«Ho percorso più di due miglia, seguendo la riva del lago, senza poterlo rintracciare.»

«Non hai udito alcuno sparo?»

«Nessuno.»

Len-Pra, che era ora diventata livida e sul cui viso si leggeva un dolore intenso, guardò suo padre con smarrimento.

«È perduto,» singhiozzò, portandosi le mani al cuore. «Disgrazia! Disgrazia!»

«Non disperiamo così presto, Len,» disse il generale, cercando di nascondere la propria commozione. «Si sarà allontanato troppo o si sarà cacciato addirittura nella foresta. Mi stupisce soltanto il fatto di non aver udito in queste tre ore nessun colpo di fucile. Che cosa ne dici, pilota?»

«Non ti nascondo, padrone, che questa assenza prolungata m’inquieta.»

«Che sia stato ferito da qualche animale?»

«È impossibile, signore.»

«No, non lo crederei mai,» disse la giovane siamese. «Egli è un cacciatore troppo abile e non sbaglia mai.»

«Talvolta una capsula avariata può perdere il cacciatore,» rispose Lakon-tay.

«È vero,» disse Kopom, che si mostrava profondamente afflitto.

«Padre,» disse Len. «Andiamo alla sua ricerca.»

«Le notti sono umide e non ci sarà difficile trovare e seguire le sue orme,» disse il generale, dopo una breve riflessione. «Se poi…»

Si interruppe bruscamente, vedendo uscire dalla tenda Feng.

Il bravo giovane era ancora mezzo intontito da quel sonno troppo prolungato e sbadigliava in modo da slogarsi le mascelle.

«Feng!» esclamarono tutti e tre.

«Padrone,» disse lo Stiengo, mentre avanzava barcollando. «Che cos’è avvenuto? Mi sembra di essere come ubriaco, eppure non ho bevuto altro che dell’acqua ieri sera… Toh! il sole così alto!»

«Hai dormito molto infatti,» rispose Lakon-tay. «Qualche insetto ti ha morsicato la scorsa notte. Senti dei brividi?»

«No, signore. Mi sento invece benissimo, solamente la mia testa è un po’ pesante, come se avessi bevuto un vaso colmo di toddy.

E l’uomo bianco dov’è, che non lo vedo?»

«Ti sei svegliato in buon punto, amico, poiché ho bisogno proprio di te. Uno Stiengo sa trovare una pista, specialmente se è recente.»

«Che cosa intendi dire, padrone?»

«Intendo dire che devi aiutarci a cercare il dottore, scomparso da stamane.»

«Sì, Feng, aiutaci!» disse la giovane, afferrandogli le mani e scuotendolo.

«Egli è partito senza avvertirci e non sappiamo che cosa sia avvenuto di lui. Cerca la sua pista e seguiamola sino a quando lo troveremo, vivo o morto.»

«L’uomo bianco partito?!» esclamò lo Stiengo. «Che gli sia successa invece qualche disgrazia?»

«È quello che temiamo: cerca la sua pista, Feng, cercala.»

«Sì, padrona,» rispose il figlio delle foreste. «Io saprò trovarla.»

Vuotò due tazze di tè, che il generale gli porgeva, poi si diresse verso la tenda del dottore, guardando attentamente il suolo. Len ed il generale lo seguirono, mentre Kopom si sedeva presso il fuoco fingendo di occuparsi della colazione. Il bandito li seguiva con lo sguardo e borbottava fra sé.

Giunto alla tenda Feng girò intorno ad essa e fermò la sua attenzione su alcune orme appena visibili, che qualunque altro non sarebbe riuscito probabilmente a rilevare.

«Padrone,» disse con voce alterata. «Un uomo è venuto qui. Io vedo le tracce dei suoi piedi nudi.»

«Non sono state lasciate dal dottore?» chiese Len.

«No,» rispose lo Stiengo. «L’uomo bianco calza grossi stivali e se fosse uscito dalla sua tenda si vedrebbero ora distintamente le tracce lasciate dai chiodi. Ah!…»

«Che c’è ancora?» chiese Len, che ascoltava attentamente, col cuore stretto da una profonda angoscia.

«La traccia di quell’individuo continua fin dentro la tenda ed è più marcata qui.»

«E che cosa vorresti concludere con ciò?» chiese Lakon-tay.

«Quell’uomo doveva essere carico assai, per affondare i piedi nel suolo.»

«Che portasse…»

«Sì, padrone, portava qualcuno fra le braccia, forse l’uomo bianco.»

«Allora è stato rapito!» gridò Len, con accento disperato.

«Rapito? E da chi? A quale scopo?» disse Lakon-tay.

Lo Stiengo non rispose: pensava profondamente, tenendo lo sguardo fisso al suolo.

«Padrone,» disse ad un tratto. «Il dottore doveva avere dei nemici. La prima volta hanno tentato di assassinarlo sulle rive del Menam; la seconda volta nella foresta; ora l’hanno portato via.»

«Lui, nemici?!» esclamò il generale. «Io sì, ma lui no, è impossibile.»

«Padre,» disse Len-Pra con suprema energia. «Cerchiamolo e, se l’hanno ucciso, vendichiamolo.»

Negli occhi di quella fanciulla, ordinariamente così calma, brillava in quel momento una fiamma sinistra ed i suoi lineamenti, così dolci, erano diventati improvvisamente duri, quasi feroci.

«Sì,» disse il generale. «Noi lo cercheremo, figlia mia, e se quei misteriosi nemici lo hanno soppresso, noi li uccideremo tutti, per quanto potenti possano essere. Feng, segui la traccia lasciata dall’uomo che portava il dottore.»

 

«Una parola, prima, padrone.»

«Parla, ma spicciati.»

«Non trovi strano che l’uomo bianco, così robusto e così energico, si sia lasciato rapire senza lotta e senza emettere un grido?»

«Sì, è strano,» disse il generale, colpito da quella giusta osservazione.

«Sai, padrone, che cosa penso ora?»

«No.»

«Penso che non sia stato un insetto a pungermi. Mi hanno iniettato chissà quale veleno o narcotico per farmi dormire e la stessa cosa devono aver fatto all’uomo bianco. Ci hanno addormentati pungendoci.»

«Con che cosa?»

«Non saprei.»

«Io credo che tu abbia ragione, Feng,» rispose il generale. «I rapitori devono aver addormentato anche il dottore, per impedirgli di difendersi.»

«Padre,» disse Len-Pra. «Non perdiamo altro tempo e diamo subito la caccia a quei miserabili prima che si allontanino troppo.»

Insellarono rapidamente i tre migliori cavalli, presero le loro armi e un po’ di viveri, raccomandarono al pilota di non lasciare l’accampamento e infine seguirono la traccia scoperta, conducendo gli animali a mano. Feng, che non alzava gli occhi un solo istante, giunse così fino alla pagoda, ma qui la traccia non era più visibile.

L’uomo che portava il dottore doveva essere entrato nella vecchia pagoda, ma qui non si poteva più scorgere alcuna orma sul pavimento di pietra.

«Facciamo il giro della pagoda,» disse Lakon-tay. «Vi è un altro cortile dall’altra parte.»

Passando in mezzo a cumuli di rottami, ben presto giunsero nel secondo cortile che era meno spazioso del primo ed aveva numerose brecce: qui videro il suolo erboso e umido coperto da tracce ben visibili, lasciate da un drappello di cavalli.

«I rapitori erano a cavallo,» disse Feng.

«Ti sembrano molti?» chiese il generale.

«Sarei quasi certo di non ingannarmi, se facessi salire il numero di quei cavalli a dieci. Se avessi tempo potrei precisarlo meglio.»

«No, no, avanti, Feng!» esclamò Len-Pra. «Abbiamo già tardato troppo.»

«Raggiungiamo i cavalli, padrone,» rispose lo Stiengo. «Possiamo seguire queste tracce anche galoppando.»

Balzarono tutt’e tre a cavallo e allentarono le briglie, I rapitori avevano superato la cinta del cortile passando attraverso una breccia, poi erano penetrati nella foresta, dirigendosi verso il lago.

Le orme lasciate dai cavalli sull’umidissimo terreno della foresta erano così visibili, che Feng non aveva bisogno né di scendere, né di arrestarsi per seguirle.

Dieci minuti dopo giunsero sulle rive del lago. Là i rapitori avevano fatto una sosta. Per quale motivo? Bisognava saperlo.

Feng smontò da cavallo e perlustrò la riva per qualche centinaio di passi.

«Padrone,» disse ad un tratto. «Qui è approdata una barca.»

«Da che cosa lo arguisci?»

«Ecco qui questo buco che deve essere stato fatto da un remo e… che cos’è che brilla sulla sabbia?»

Spiccò tre o quattro salti, si curvò poi rapidamente al suolo e raccolse qualche cosa che fece scintillare ai raggi del sole.

«Padrone,» disse poi, accostandosi rapidamente al generale. «Conosci questo?»

Così dicendo mostrava un cerchio d’oro ornato di fiori pure d’oro e che era aperto da una parte, simile a quello che era sul cappello conico del generale.

Lakon-tay nel vedere quel gioiello mandò un grido.

«Il distintivo dei puram!» Poi rimase lì, cogli occhi sbarrati e fissi sul cerchio d’oro, colla bocca aperta, le mani raggrinzite, i lineamenti alterati da una collera tremenda.

«Che cos’hai, padre mio?» chiese Len-Pra.

«Il miserabile! Dovevo immaginarmelo!» esclamò finalmente Lakon-tay, con voce strozzata. «Questo cerchio lo ha tradito!»

«Di chi parli, padre?»

«Un puram solo poteva tramare una simile infamia e nutrire verso di noi, e soprattutto verso quel povero dottore, un odio così implacabile.»

«Ma chi? Parla, padre mio.»

«Mien-Ming, il puram di Bangkok, l’uomo che voleva la tua mano e che io ho messo alla porta, conoscendo troppo bene la malvagità e la doppiezza del suo animo. Ma ti tengo ormai in mano, canaglia, e per quanto tu sia possente e goda i favori del re, saprò fartela pagare.»

«Mien-Ming! Il puram Cambogiano!» esclamò Len-Pra.

«Sì, non può essere che lui, ne sono certo. È lui che ha cercato dapprima di far assassinare il dottore sulle rive del Menam, sospettando nell’uomo bianco un rivale; è lui che gli ha teso poi quell’agguato nelle foreste della valle, ed è lui che lo ha fatto ora rapire.»

«E forse è lui che ha fatto morire gli elefanti sacri, per rovinarti, padrone,» aggiunse Feng.

«Sì, può essere stato capace anche di quello,» disse Lakon-tay.

«Padre,» disse Len-Pra. «Dobbiamo agire subito e far arrestare quel miserabile.»

«E da chi, povera fanciulla? Siamo privi di qualsiasi aiuto nel territorio degli Stienghi, un paese selvaggio, dove non ci sono funzionari Siamesi.»

«Non è vero, padrone,» disse in quel momento Feng. «Dimentichi che sono uno Stiengo anch’io, che la mia tribù è una delle più numerose e delle più potenti e che io sono parente del capo? In ventiquattro ore noi possiamo giungere sulle rive del Kun-Boreye, chiedere l’aiuto del capo, quindi catturare e anche far uccidere quel maledetto Cambogiano.»

«Tu sei la nostra salvezza, Feng.»

«Allora partiamo senza troppo indugiare,» disse Len-Pra. «Dove si dirigono le orme dei cavalli?»

«Verso nord, padrona.»

«Avanti al galoppo,» comandò la coraggiosa giovane. «Vedremo se quei miserabili hanno tentato di varcare il Kun-Boreye.»

I tre cavalli, vigorosamente sferzati, partirono ventre a terra seguendo la riva del lago. Nessuno si preoccupò del pilota, il quale d’altronde aveva viveri sufficienti per qualche settimana, armi per difendersi e dei buoni animali per fuggire in caso di pericolo.

Per tre ore galopparono, seguendo sempre le tracce dei rapitori, le quali erano visibilissime sulla riva sabbiosa, poi deviarono a causa di una palude che pareva avesse un’estensione enorme e che non era popolata che da miriadi di pellicani e di cormorani.

Verso le quattro del pomeriggio, dopo un breve riposo, entrarono in una foresta umida che costeggiava la palude, una di quelle pericolose boscaglie che aveva incontrato il disgraziato dottore durante la sua marcia.

«Queste sono le foreste preferite dai miei compatrioti,» disse Feng, che cavalcava dinanzi a tutti. «Kun-Boreye non deve essere lontano.»

«Avanti sempre,» rispose Len-Pra. «Finiremo per raggiungere quelle canaglie.»

S’ingannava, perché verso le sei essi giunsero su un terreno quasi inondato, dove non era più possibile seguire le tracce dei fuggiaschi. Sotto la foresta vi era più d’un piede d’acqua, che nascondeva completamente le orme lasciate dai cavalli di coloro che avevano rapito il dottore.

Feng si era arrestato brontolando.

«Che cosa pensi di fare ora?» chiese Lakon-tay.

«Quest’acqua che scende verso il lago deve aver cancellato le tracce,» disse lo Stiengo con voce sorda.

«Da dove viene?»

«Non lo so, padrone. Ho però un timore.»

«Quale?»

«Temo che ben presto aumenti.»

«Perché?»

«L’atmosfera è pesante e ben presto scoppierà qui un uragano. Noi Stienghi non c’inganniamo mai.»

«Siamo lontani dal tuo villaggio?» chiese Len-Pra.

«Non credo.»

«Saprai ritrovarlo?»

«Sì, quantunque vi manchi da sei anni.»

«Attraversiamo la foresta e raggiungiamo le rive del Kun-Boreye,» disse il generale. «Un uragano sta per scoppiare ed è necessario cercare un rifugio. So quanto siano terribili le bufere che scoppiano in queste regioni.»

Feng stava per frustare il cavallo, quando lo trattenne invece violentemente, dicendo: «Gli abitanti dei boschi. Saranno amici o nemici? Padrone, padroncina, prendete le armi!»

Capitolo XXIX. Il capo degli Stienghi

Da alcuni cespugli, che crescevano attorno ai tronchi degli alberi, avevano fatto capolino delle teste per nulla piacevoli e delle braccia che impugnavano archi e sciabole. Sbucavano da tutte le parti dei corpi nerastri e quasi nudi, avanzando lentamente attraverso lo strato d’acqua, cercando però di tenersi riparati dietro gli alberi ed i cespugli. Quanti erano? Molti senza dubbio perché ad ogni istante altri ne comparivano, come se sorgessero di sottoterra; tutti erano armati.

«Gli Stienghi?» esclamò il generale, staccando rapidamente la carabina che teneva appesa alla sella. «Non fidiamoci di costoro, se non appartengono alla tribù di Feng. So per prova quanto siano pericolosi e crudeli questi selvaggi.»

Vedendo i due cavalieri e la giovane siamese fermarsi e levare i fucili, armi che certamente conoscevano, gli Stienghi si erano prudentemente nascosti, senza rompere il cerchio.

Quei selvaggi abitanti delle foreste dovevano aver scorto già da qualche tempo i cavalieri e, approfittando della loro sosta, con una mossa abile li avevano circondati in modo da impedire loro tanto di avanzare come di retrocedere.

«Li conosci, Feng?» chiese Lakon-tay un po’ inquieto.

«Sono Stienghi, padrone, ma io non posso sapere, dopo tanto tempo, se appartengono alla mia tribù. Si rassomigliano tutti e non hanno nulla che li distingua.»

«Prova a parlamentare e domanda loro che cosa vogliono e perché ci chiudono il passo.»

«Volevo proportelo io.»

«Bada alle frecce!»

«Me ne guarderò. Rimani qui tu e non fare un passo innanzi.»

Lo Stiengo armò la carabina, snudò il coltellaccio e avanzò lentamente verso i cespugli che gli stavano di fronte, dietro i quali si trovava nascosto un drappello piuttosto numeroso di selvaggi.

Giunto a cinquanta passi, ossia ancora fuori tiro da quei dardi pericolosi, fermò il cavallo, gridando nella sua lingua:

«Dov’è il capo? Io vengo da amico e non già da nemico.»

Udendo quelle parole, dieci o dodici selvaggi, che erano rapidamente sbucati dai cespugli tenendo gli archi tesi, abbassarono le frecce, poi, dopo una breve esitazione, le ricollocarono nelle faretre.

Era un segno di pace e Feng, che conosceva troppo bene gli usi di quelle tribù, si affrettò a sua volta ad abbassare la carabina, dicendo: «Siamo amici: chiamatemi il capo.»

Un momento dopo un vecchio selvaggio dai capelli lunghissimi, la barba che gli scendeva fino al petto, il viso tutto grinzoso e che portava nella fascia due sciabole dall’impugnatura di ottone e sul capo un diadema di penne d’uccello lira, uscì da un gruppo di piante, avanzando verso Feng che rimaneva sempre immobile.

«Chi sei tu che parli la nostra lingua?» gli chiese.

«Un uomo della vostra razza,» rispose lo Stiengo.

«E gli altri?»

«Un generale del Siam e sua figlia.»

«Se tu sei veramente uno Stiengo, dimmi a quale tribù appartieni,» disse il capo.

«A quella dei Naconnyok.»

Il capo non poté reprimere un gesto di stupore.

«Alla mia,» disse poi. «Chi sei tu dunque?»

«Feng, figlio di Nayan, il cacciatore di bufali.»

«Feng, hai detto?» gridò il capo, gettando via l’arco che teneva in mano. «Il ragazzo raccolto da un siamese, quando ferveva la guerra in queste foreste?»

«Chi sei tu dunque che sai tante cose?» chiese il servo di Lakon-tay.

«Non mi conosci più dunque?» chiese il capo, avanzando velocemente verso il cavallo. «Io sono il capo dei Naconnyok, il fratello di tua madre.»

Feng mandò un grido e si slanciò giù dal cavallo, precipitandosi verso il capo che lo aspettava a braccia aperte.

«Tu sei il fratello di mia madre!» esclamò, abbracciandolo. «Padrone, padrone, noi siamo salvi!»

Lakon-tay e Len-Pra, vedendolo fra le braccia del capo, si fecero avanti, riappendendo le carabine all’arcione, mentre gli Stienghi uscivano dai cespugli in gran numero, senza mostrare intenzioni bellicose.

«Il mio padrone, che mi ha adottato e che mi ama come un figlio,» disse Feng al capo, presentandogli il generale.

«Essi sono miei ospiti,» rispose il selvaggio. «Che mi seguano al villaggio, prima che scoppi l’uragano; la riconoscenza è una virtù degli Stienghi.»

Due minuti dopo la comitiva era in marcia. Duecento guerrieri scortavano i cavalieri, aprendo a gran colpi di sciabola un largo sentiero nella fitta foresta umida, mentre in cielo cominciava già a tuonare e a lampeggiare.

Il capo, che discorreva animatamente con Feng, indicava la via e pareva soddisfatto d’aver ritrovato dopo tanti anni il nipote, che aveva temuto di non rivedere mai più.

Cominciavano a cadere le prime gocce, quando la truppa giunse al villaggio del capo, che sorgeva sulla riva del Kun-Boreye.

 

Esso era composto da un centinaio di capanne, abbastanza ampie e formate da bambù intrecciati, aperte ai lati e collocate su pali alti una decina di metri, per mettere gli abitanti al sicuro dagli assalti delle tigri, se non dalle pantere che sono abili arrampicatrici.

Era un lusso veramente eccezionale, accontentandosi per lo più gli Stienghi d’una semplice tettoia costruita al momento, con pochi bastoni e poche foglie di banano.

Il capo fece sgombrare da coloro che la abitavano una delle capanne più vaste ed invitò Feng, il generale e Len-Pra a prenderne possesso, cosa che i tre fecero subito, poiché l’uragano cominciava già ad imperversare con estrema violenza. Fece portare poi agli ospiti del pesce secco, un quarto di cervo, alcuni vasi di toddy, della frutta, dei rami resinosi e delle coperte filate grossolanamente.

Quando furono soli, Lakon-tay e Len interrogarono ansiosamente Feng, per sapere se i rapitori erano giunti al villaggio o se erano stati visti passare.

«Sì,» rispose lo Stiengo, «sono stati scorti stamane da due cacciatori, ma non vi era con loro nessun uomo bianco. Il capo me lo ha giurato su Brâ.»

«Quanti erano?

«Dieci, tutti a cavallo.»

«E il loro capo?»

«Ho la certezza che fosse Mien-Ming, dalla descrizione che mi ha fatto di lui il capo.»

«Il miserabile!» esclamò Lakon-tay. «E dove si dirigevano?»

«Sono stati visti attraversare il fiume, poi scomparire nella foresta della riva opposta.»

«Ma e il dottore, allora?» chiese Len con angoscia. «Che l’abbiano ucciso?»

«Non credo che Mien-Ming abbia osato tanto,» disse Lakon-tay. «Gli uomini bianchi sono troppo temuti e lo stesso re si guarderebbe dal farne uccidere uno.»

«Padrone,» disse in quel momento Feng. «Vi ricordate dell’impronta di quel remo che abbiamo scoperto sulla riva del lago?»

«Sì, e con ciò?»

«Che l’abbiano imbarcato, il dottore?»

«Per condurlo dove?»

«Io non lo so, tuttavia presto o tardi riusciremo a saperlo. Un uomo bianco non può sfuggire inosservato.»

«Domani chiederai al capo di fare delle ricerche, promettendogli dei regali se riesce a trovare il nostro disgraziato compagno. E tu, Len, va a riposarti; questa notte nulla possiamo fare, specialmente con questo uragano.»

Si avvolsero nelle coperte e cercarono di addormentarsi. Però nessuno riuscì a chiudere gli occhi, tanto erano rattristati. E poi l’uragano non permetteva di dormire, con tutti quei tuoni assordanti, quelle raffiche impetuose che scuotevano furiosamente la capanna minacciando di abbatterla, e quei rovesci d’acqua che penetravano perfino dentro la stanza, filtrando fra le foglie del tetto. Solamente verso l’alba, essendosi la bufera un po’ calmata, poterono riposare qualche ora. Ai primi raggi del sole erano già in piedi.

Stavano per lasciare la capanna, quando videro il capo salire precipitosamente la scala di fibre di rotang, che Feng non aveva ritirato.

«L’uomo bianco è stato visto!» gridò, entrando come un fulmine.

«Dove?» chiesero ad una voce Len-Pra, il generale e Feng.

«Sul lago, assieme ad alcuni Stienghi che montavano una piroga e che pareva si dirigessero verso la foce di questo fiume.»

«Tuoi sudditi?» chiese Feng.

«No, appartengono ad un’altra tribù, che ha i suoi villaggi più a settentrione, verso Theuc-Thio.»

«Era vivo?» chiese Len-Pra.

«Sì, vivo e anche libero.»

«Chi lo ha visto?» chiese Lakon-tay.

«Uno dei miei uomini, che ieri, verso il tramonto, stava pescando sulla riva del lago.»

«Ha veduto la piroga imboccare il fiume?»

«Sì.»

«Allora è necessario rivolgere da quella parte le nostre ricerche,» disse Len-Pra.

«Ho già inviato verso la foce tre piroghe armate ed ho dato ordine agli equipaggi di arrestare quegli Stienghi e di condurre qui l’uomo bianco. Ho mandato anche dei cacciatori sulle rive del lago e nelle foreste.»

«Padre, partiamo anche noi,» disse Len-Pra.

«È meglio attendere il ritorno delle piroghe, padrona,» disse Feng. «Se non avranno raggiunto gli Stienghi, ci metteremo allora anche noi in movimento.»

«Sarà lunga la loro assenza?»

«Il fiume è grosso assai e gli equipaggi avranno molto da fare per rimontare la corrente,» rispose il capo. «Mi si dice anzi che verso la foce il fiume sia straripato e abbia invaso le foreste delle due rive. Venite a fare colazione a casa mia e aspettiamo. L’uomo bianco, presto o tardi, lo si troverà, siatene certi.»

Len-Pra si arrese, quantunque a malincuore, alle ragioni del capo e tutti si recarono nella dimora dello Stiengo, che era più ampia, più comoda e anche meglio riparata, colle pareti ed il pavimento coperti da belle stuoie variamente dipinte con succhi vegetali.

La colazione fu triste, quantunque il capo si sforzasse continuamente di rassicurarli sulla sorte del dottore.

Dopo il mezzodì un uomo giunse al villaggio. Non veniva dalla parte del fiume, bensì dalle rive del lago, e recava una notizia preziosa che fece balzare dalla gioia il cuore della fanciulla.

Da una donna che raccoglieva frutta nella foresta prossima al lago, era stato visto un uomo dalla pelle bianca, vestito pure tutto di bianco, il quale era approdato su una specie di zattera, allontanandosi qualche ora dopo verso sud.

«Il dottore!» esclamarono Len-Pra e Lakon-tay.

Non si chiesero nemmeno come mai il loro compagno, che era stato visto il giorno innanzi su una piroga montata dagli Stienghi di Theuc-Thio, poteva ora trovarsi solo, così lontano dalla foce del Kun-Boreye.

«A cavallo! A cavallo!» gridarono. «Partiamo!»

Il capo, che era troppo vecchio per seguirli, formò una scorta di otto giovani, valenti corridori e cacciatori, che conoscevano alla perfezione le foreste circostanti il lago, e dieci minuti dopo Len-Pra, Lakon-tay e Feng lasciarono il villaggio, dirigendosi verso levante.

Erano ormai certi di raggiungere il dottore, il quale non poteva percorrere certamente molto cammino.

Nei loro animi era già nato il sospetto che egli si fosse diretto verso sud, nella speranza di raggiungere la vecchia pagoda e, come sappiamo, non s’ingannavano.

Verso sera giunsero sulla riva del lago, là dove la donna aveva detto d’aver visto sbarcare l’uomo bianco.

Trovarono il tetto d’una capanna arenato sulla sabbia e semisfasciato, poi, allargando le ricerche, riuscirono a scoprire le impronte lasciate da un uomo che calzava stivali con grossi chiodi. Non rimaneva più alcun dubbio. Era la pista del dottore, giacché gli Stienghi non conoscevano l’uso degli stivali.

Len-Pra era raggiante e non lo erano meno Lakon-tay e Feng. Fu deciso di continuare le ricerche e di seguire quella pista che si dirigeva verso sud, seguendo le rive del lago.

Fecero un’ampia raccolta di rami resinosi e ripartirono, conducendo i cavalli a mano, essendo il margine della foresta così folto da non permettere il passaggio d’un cavaliere.

Così, verso le dieci della sera, ossia due ore dopo il tramonto, giunsero sulla riva dell’ampia palude che aveva arrestato il dottore.

Fecero una sosta di qualche ora per mangiare un boccone, avendoli il capo provvisti di una scorta di viveri e di noci di cocco piene di toddy, poi seguirono la riva della palude.

Le impronte lasciate dal dottore su quel suolo umidissimo erano sempre visibili, specialmente alla luce delle torce resinose. Si dirigevano ora verso ovest.

«Sì,» disse Lakon-tay. «Il dottore cerca di raggiungere la vecchia pagoda. Chissà che non lo troviamo all’accampamento.»

«Quale gioia proverò nel rivederlo!» esclamò Len-Pra, che piangeva e rideva ad un tempo. «Povero dottore! Chissà quante gliene avranno fatte provare i suoi rapitori!»

«Vi è una cosa che non riesco a capire.»

«Quale, padre?»

«Vorrei sapere perché Mien-Ming, invece di tenerlo prigioniero, lo ha affidato a quegli Stienghi.»

«Lo sapremo dal dottore stesso.»

«Alt!» disse in quel momento un uomo della scorta, che precedeva i compagni.

«Vi sono delle macchie di sangue qui!»

Len-Pra, udendo quelle parole, si sentì mancare.

«Che abbiano ucciso il dottore?» gridò.

«No,» disse Feng. «Ecco qui le sue orme che si dirigono sempre verso ovest.»

«Temevo che fosse stato assalito e sbranato da qualche belva,» disse la fanciulla, la cui voce ancora tremava.

«Avanti, avanti sempre!»

Il drappello riprese la marcia sotto l’umida foresta, tenendo alte le fiaccole per evitare i rami e le radici che s’intrecciavano in tutti i sensi, e i rotang e i calamus che pendevano a festoni fittissimi.

Le orme del dottore non avevano più una direzione fissa. Descrivevano delle curve e degli angoli, ora deviando verso sud ed ora verso nord. Doveva essersi smarrito nella tenebrosa foresta.

Un altro giorno trascorse così in inutili ricerche. Verso sera stavano attraversando un bosco di banani, quando udirono dinanzi a sé uno scricchiolare di rami ed un rumore di foglie secche calpestate.