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La città del re lebbroso

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«Oh mio signore, grazia per Len-Pra,» gridò il disgraziato ministro.

Il re richiuse la porta con fracasso, senza degnarsi di volgersi, e scomparve.

Lakon-tay si alzò in piedi, coi lineamenti sconvolti da un intenso dolore.

«Tutto è finito,» disse, «ma i grandi ed il popolo non assisteranno alla mia punizione. Il vecchio generale, vincitore dei Birmani e dei Cambogiani, non ha paura della morte.»

Si diresse verso la gradinata che conduceva ai giardini reali, con passo calmo. Non si accorse nemmeno che la sentinella di guardia dinanzi alla porta, che probabilmente non aveva perduto una parola di quel burrascoso colloquio, non gli rese il solito saluto.

Ormai era un uomo caduto in disgrazia, che valeva meno dell’ultimo paggio di corte.

Riattraversò, sempre immerso nei suoi dolorosi pensieri, i giardini, nei cui viali cominciavano già ad addensarsi le prime tenebre, e si diresse verso la palazzina dalla quale era uscito prima di recarsi nella sala dei S’hen-mheng.

Feng, il suo fedele paggio, lo aspettava sulla porta della magnifica sala, presso il gong sospeso sulla soglia. Vedendo comparire il padrone così disfatto, intuì la disgrazia che lo aveva colpito.

«Oh mio povero signore,» esclamò, colle lagrime agli occhi. «Il Signor elefante bianco è morto dunque?»

«Sì,» rispose il generale con voce rauca. «Tutto è finito!»

«E il re?»

Invece di rispondere, Lakon-tay entrò nella sala e con un gesto rabbioso gettò lungi da sé l’alto cappello a punta, di stoffa bianca, adorno d’un largo cerchio dorato con incisioni che rappresentavano dei fiori, insegna della sua carica; poi si strappò di dosso, lacerandola, la veste di seta gialla dalle maniche larghissime e la lunga sciarpa che gli avvolgeva i fianchi, facendo tutto a brandelli.

«Che cosa fai, mio signore?» chiese Feng, spaventato.

«Mi sbarazzo delle insegne del mio grado,» disse Lakon-tay, coi denti stretti. «Io non sono più il ministro della corte dei S’hen-mheng; oggi sono un miserabile senza carica, uno schiavo, forse un condannato ad una morte infame.

Ma Lakon-tay non poserà la testa sotto le larghe zampe dell’elefante carnefice e non darà al suo occulto nemico, né ai grandi, né al popolo, una tale soddisfazione.

Il vecchio generale mostrerà a tutti come sa morire un prode che ha sfidato il fuoco dei nemici del suo re.

Maledette insegne del mio grado… Che il vento vi disperda.

Feng, dammi un’altra veste, onde nessuno più riconosca in me il ministro della corte dei S’hen-mheng

«Mio signore…»

«Taci e obbedisci!…»

Feng, che conosceva troppo bene il suo padrone, uscì per tornare poco dopo con una bracciata di pezze di stoffa dette pagne, di varie lunghezze e di varie tinte, che i Siamesi indossano in vari modi incrociandole attorno al corpo, alle gambe e alle braccia; e dei calzoni larghissimi, nonché parecchi cappelli in forma di fungo o di cono o d’imbuto.

Lakon-tay si vestì frettolosamente, si gettò sulle spalle una fascia di seta assai larga che poi avvolse intorno al collo, in modo da coprirsi anche parte del viso, e uscì.

«Mio signore,» gli disse Feng, che si disponeva a seguirlo. «Devo farti preparare il palanchino?»

«No,» rispose seccamente il generale. «Va’ ad attendermi a casa mia e non dire nulla a Len-Pra.»

Scese una ricchissima gradinata di marmo, percorse un corridoio e aperse una porticina, slanciandosi nella via.

Era uscito dal palazzo reale.

Capitolo III. Len-Pra

Lakon-tay era il vero tipo del siamese, ma non aveva però quel portamento cascante, molle, snervato che si osserva in quasi tutti gli abitanti di quel regno e che produce su noi una pessima impressione.

Era un bell’uomo, piuttosto alto, ancora vigoroso malgrado i suoi cinquant’anni, dal petto ampio e dalle braccia muscolose che indicavano l’uomo abituato a maneggiare la pesante catana dei comandanti.

Aveva invece, al pari dei suoi compatrioti, la tinta della pelle olivastra con indefinibili sfumature rossastre, gli zigomi assai sporgenti, la fronte un po’ stretta, che terminava in alto quasi a punta al pari del mento, le labbra grosse e rosse. Ma i suoi occhi non erano smorti, piccoli, senza fuoco, col bulbo quasi interamente giallo: erano invece due bellissimi occhi neri, dal lampo vivacissimo e dal taglio perfetto, che anche le dame Siamesi gli avrebbero invidiato.

Lakon-tay si era creata una posizione altissima, esclusivamente col proprio valore.

Di temperamento ardente e battagliero, era entrato giovanissimo nell’esercito, pensando che forse sarebbe stato quello l’unico mezzo per raggiungere una posizione elevata, giacché suo padre, un modesto costruttore di velieri, non gli aveva lasciato che una piccola fortuna.

Il giovane, che aveva coraggio da vendere ai suoi compatrioti, i quali hanno invece la brutta fama di essere pusillanimi, si era fatto subito largo, distinguendosi in parecchi scontri, poiché il Siam era allora in guerra cogli stati vicini.

A trent’anni, dopo aver respinto e battuto sanguinosamente i Peguani che erano tre volte superiori di numero, aveva già ricevuto dal re la prima scatola d’oro per conservare il betel, distintivo di nobiltà, giacché nel Siam la nobiltà non è ereditaria.

A trentacinque, già generale, dopo aver battuto le truppe birmane che avevano già varcato le frontiere, minacciando d’invadere tutto il Siam, aveva ricevuto la seconda, più grande e più elegante, ed il cerchio d’oro con fiori cesellati da mettersi sul cappello, che gli conferiva il titolo di oya, ossia di grande personaggio.

Cessate le guerre, il valoroso generale si era ritirato come privato cittadino nella sua natia Bangkok, per godersi finalmente un po’ di tranquillità e crearsi una famiglia prima di diventare troppo vecchio.

Phra-Bard invece, che non aveva dimenticato i servigi resi alla patria dal prode generale, lo aveva poco dopo chiamato alla corte, creandolo ministro della sua casa prima, poi ministro della corte dei S’hen-mheng, la carica più alta e più invidiata da tutti i notabili Siamesi.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Lakon-tay, in preda a cupi pensieri, si allontanò dal palazzo reale camminando come un ebbro, cogli occhi socchiusi e la testa china sul petto, seguendo la riva del Menam, le cui acque riflettevano vagamente le ultime luci del crepuscolo.

Bangkok è la Venezia dell’oriente e la principale città del Siam dopo la decadenza di Ajuthia, l’antica capitale dello stato, lasciata deperire per un capriccio inesplicabile dei monarchi Siamesi, i quali, al pari di quelli Birmani, amano sovente abbandonare le grandi città per dare splendore ad altre minori.

Bangkok, quantunque salita agli onori di città da poco più di un secolo, ha oggi, compresi i sobborghi, quasi quaranta chilometri di sviluppo e un milione di abitanti e gode fama di essere opulenta se non inespugnabile, malgrado i suoi nomi fastosi.

Ed infatti Krung-tlepha-mahasi-ayuthaja-mahadilok-rascathani, come la chiamano i Siamesi, che ci tengono ai nomi lunghissimi e che significa «la grande regal città degli angeli, la bella e la inespugnabile», non potrebbe resistere un’ora sola al fuoco d’una delle nostre moderne corazzate, quantunque, per renderla imprendibile, i Siamesi abbiano bagnato le fondamenta delle sue porte con sangue umano.

Al pari di Venezia, la città sorge sopra alcune isolette fangose, divise in due gruppi da un braccio principale del Menam.

La città che si estende sulla riva destra del fiume non è che una accozzaglia di casupole; quella che s’innalza sulla sinistra è veramente magnifica e cinta da mura merlate con torri e bastioni, e vi si agglomerano, non si sa come, non meno di seicentomila abitanti.

È là che sorge il palazzo reale, dinanzi a cui tutti i passanti devono scoprirsi e chiudere l’ombrello, per non correre il pericolo di vedersi fatti bersaglio da durissime pallottole di terra, che gli arcieri di guardia scagliano con ammirabile maestria.

Ed è pure là che s’innalzano la grandiosa piramide di phrachedi, che lancia la sua cima a oltre cento metri, edificio ammirabile per linee architettoniche e sotto la cui mole si crede siano sepolte le reliquie preziose di Sommona Kodom; i templi grandiosi dei talapoini, dai tetti a tre piani, coperti di lamine d’oro che brillano ai raggi del sole; la pagoda di vatbaromanivat colle sue magnifiche porte d’ebano ad intarsi di madreperla scolpite e lavorate con un’arte che non ha l’eguale, colle sue colonne e coi suoi tetti coperti di dorature che sono costate somme favolose; ed è là finalmente che si ammira la pagoda di vat-scetuphon che racchiude una colossale statua di Budda, ossia di Sommona Kodom, tutta coperta d’oro e d’un valore inestimabile.

Lakon-tay, sempre assorto nei suoi pensieri, continuava a seguire la riva del fiume, insensibile alla pittoresca grandiosità di quel superbo corso d’acqua, che vince tutti gli altri in bellezza.

Migliaia e migliaia di case galleggianti già illuminate, ormeggiate alla riva da grosse gomene di canna d’India e tenute a galla da enormi fasci di bambù legati a cento a cento, ondulavano graziosamente, scricchiolando, mentre nell’interno si udivano chiacchierii di donna, risate di fanciulli e voci di uomini.

Ondate di fumo sfuggivano dai camini e fuochi multicolori brillavano sulle zattere e dentro le case, mentre la fresca brezza notturna che veniva dal mare portava fino alla riva i mille strani odori delle cucine Siamesi.

Lakon-tay seguì il fiume, finché ebbe oltrepassato tutta la città galleggiante, urtando di frequente qualche passante; e scese verso i quartieri bassi, camminando sempre come un sonnambulo, finché giunse in un luogo deserto, dove si vedevano scintillare nelle tenebre dei fuochi giganteschi che ardevano fra una pagoda ed un tumulo gigantesco, una vera montagna di mattoni di forme strane, come se ne ritrovano sovente disegnate sulle lacche giapponesi, e che rappresentano il Fusi-yama, la montagna di fuoco.

 

Degli uomini seminudi, armati di lunghe picche, s’aggiravano silenziosamente intorno a quei fuochi, ora apparendo alla vivida luce della fiamma ed ora scomparendo fra le ondate di fumo denso, mentre dall’alto calavano pesantemente stormi di grossi avvoltoi neri, che gracchiavano sinistramente.

Quel luogo era la necropoli di Bangkok; la pagoda era quella di vat-saket; l’enorme ammasso di mattoni la Phuk-kao-thong, ossia la montagna d’oro, e quegli uomini bruciavano i cadaveri delle persone morte nella giornata.

Lakon-tay si fermò, quasi sorpreso di trovarsi in quel luogo funebre, e guardò con stupore quelle fiamme che facevano crepitare le carni dei cadaveri, spinti dai crematori sui tizzoni ardenti.

Una voce lo trasse da quella contemplazione.

«Padrone, che cosa fai qui?»

Era Feng, il quale da lontano lo aveva seguito, spaventato dall’aspetto tetro del generale.

Lakon-tay si voltò senza rispondere.

«Che cosa vieni a fare qui, padrone?» chiese nuovamente il giovane. «Non è qui la tua casa.»

«Non lo so,» rispose Lakon-tay. «Camminavo senza vedere né sapere dove andassi, e mi sono trovato fra questi morti.

Triste presagio. Quegli avvoltoi scarneranno ben presto anche il mio cadavere, giacché io non sono uomo da sopravvivere alla disgrazia che mi ha colpito. La mia morte calmerà la collera del re e salverà dalla schiavitù mia figlia.»

«Scaccia questi funebri pensieri, mio padrone,» disse Feng, che aveva le lacrime agli occhi. «Forse la tua innocenza verrà un giorno riconosciuta e potrai tornare ministro. Pensa quale dolore proverebbe la dolce Len-Pra, se tu morissi.»

«Mia figlia ha nelle vene sangue di guerrieri, perché anche sua madre era figlia d’un prode condottiero, e saprà rassegnarsi alla sua sventura.

No, Lakon-tay non sopravviverà alla sua disgrazia. Che cosa diverrei io domani accusato di aver fatto morire i protettori del regno, i S’hen-mheng? Un miserabile, in patria, disprezzato dai grandi e dal popolo, un essere maledetto.»

«Tu che hai salvato il regno dalle invasioni dei Cambogiani e dei Birmani e che hai domato i miei compatrioti? O mio signore!»

«È passato troppo tempo da allora,» rispose Lakon-tay con voce cupa.

«Vieni a casa tua, padrone: Len-Pra, non vedendoti, sarà inquieta.»

Lakon-tay soffocò un gemito e si lasciò condurre da Feng, senza più opporre resistenza.

Risalirono silenziosamente la riva del fiume, ritornando nei quartieri più centrali, costituiti non più da capanne, bensì da phe elegantissime, quelle graziose palazzine che si specchiano nelle limpide acque del Menam, e che, quantunque esteriormente non offrano nulla di interessante, poco hanno da invidiare ai tanto decantati bungalow di Calcutta.

Sono piccoli lavori d’architettura puramente siamese, colle travature graziosamente scolpite, con porte doppie e persiane variopinte che durante il giorno si tengono alzate, onde si possa vedere l’altare di Sommona Kodom; e sono circondate da una larga e comoda veranda dalla ringhiera elegantissima, piena di poltrone di bambù e di vasi contenenti arbusti tagliati in forma d’animali più o meno fantastici.

Ad un tratto, Feng si arrestò dinanzi a una phe di dimensioni più vaste delle altre, situata proprio sulla riva del fiume, coi muri di legno scolpito, abbelliti da strati di lacca, una vasta veranda che correva in giro, e un giardinetto chiuso da una elegante cancellata di legno dipinto in rosso.

«Ci siamo, padrone,» disse dolcemente a Lakon-tay.

Il generale, che pareva si fosse allora risvegliato da un triste sogno, alzò gli occhi verso la veranda che la luna, allora sorta, illuminava, facendo scintillare dei grandi vasi di porcellana dorati e niellati, entro cui crescevano delle peonie di Cina e delle camelie.

«Ah!»mormorò. «E Len-Pra?»

«Ti aspetterà nella sala da pranzo.»

Con una mossa lenta, quasi automatica, Lakon-tay aperse la porta d’ebano incrostata di madreperla e salì lentamente alcuni gradini, poi percorse un corridoio ed entrò in una stanza a pianterreno, illuminata da una grande lampada dorata, con un globo sottilissimo di porcellana azzurra, che proiettava sulle pareti, tappezzate di seta di Cina dello stesso colore, e sul lucidissimo pavimento di legno di tek, una luce scialba e dolce come quella dell’astro notturno.

Vi erano pochi mobili, tutti di fattura squisita. Una tavola d’ebano già apparecchiata, con tondi e vassoi d’argento cesellato, delle sedie di bambù dalla spalliera assai inclinata e d’una leggerezza straordinaria, delle mensole sostenenti vasi della Cina e del Giappone, pieni di peonie color fuoco, dei tavolini laccati ed incrostati di madreperla, coperti di ninnoli, di vasetti, di bottigliette contenenti forse dei profumi o degli unguenti meravigliosi, di pallottole d’avorio traforato e di piccole statue di bronzo e d’oro raffiguranti Sommona Kodom.

«Dov’è Len-Pra?» chiese il generale, lasciandosi cadere in una poltrona.

Una voce armoniosa, dolcissima, si fece subito udire dietro le tende di seta che si gonfiavano sotto i soffi profumati dell’aria notturna, poi una fanciulla entrò, muovendo rapidamente verso il generale.

Era Len-Pra.

La figlia del vincitore dei Birmani e dei Cambogiani aveva una figurina graziosa, sottile come un giunco, squisitamente modellata; una bella testolina, un viso dai lineamenti perfino troppo regolari per una indocinese, un profilo quasi caucasico, una boccuccia perfetta, occhi nerissimi e lampeggianti come quelli di suo padre, leggermente obliqui.

La bella capigliatura, nera e abbondante, le cadeva in pittoresco disordine sulla larga veste di seta azzurra a ricami d’oro; la pelle, quasi mai esposta al sole, era appena abbronzata, con sfumature che ricordavano certi riflessi dell’alba; aveva le braccia nude e adorne di ricchissimi braccialetti, e i piedi racchiusi in babbucce di seta gialla con ricami di perle, così piccoli da poter reggere vittoriosamente il confronto con quelli tanto decantati delle donne Cinesi.

Vedendo suo padre così accasciato, quasi interamente abbandonato sulla poltrona, col viso cupo e lo sguardo semispento, Len-Pra mandò un grido.

«Che cos’hai, padre mio?» gli chiese.

«Nulla, fanciulla mia,» rispose il disgraziato generale, risollevandosi con uno sforzo supremo. «Sono semplicemente preoccupato per la malattia del S’hen-mheng

«Tu stai male e sei oppresso da qualche cosa di più grave d’una preoccupazione,» disse la giovane.

«No, non è nulla.»

«È dunque gravemente ammalato anche l’ultimo dei S’hen-mheng?» chiese Len-Pra impallidendo.

«È un po’ triste, tuttavia noi lo salveremo.»

«Se dovesse morire?»

«Non vi è alcun pericolo per ora. Fa’ portare la cena, e siedi presso di me, mia piccola Len-Pra. Desidero ritirarmi presto questa sera. Domani questa stanchezza sarà scomparsa.»

La fanciulla percosse con un martelletto d’ebano un piccolo gong sospeso sotto la lampada, e poco dopo entrarono due giovani valletti portando, su dei grandi vassoi d’argento, parecchi tondi pieni di vivande fumanti, di frutta e di tuberi di varie specie.

Il popolo siamese passa per uno dei più frugali della terra e anche per il meno esigente, quantunque, in quel regno fortunato, i viveri costino una vera miseria, così poco anzi che per un fund, ossia per circa cento lire, si possono comperare, su qualunque mercato, tre polli!…

Il popolo si nutre ordinariamente al pari del cinese di riso, condito con un miscuglio puzzolente che somiglia, in peggio, al curry indiano, composto di gamberetti di mare lasciati prima putrefare e di parecchie erbe e droghe fortissime. Non sdegna però, specialmente il popolo campagnolo, i topi, le lucertole, le locuste, i vermi di terra. In ciò è eguale, per gusto, al cinese.

I ricchi preferiscono invece i pesci freschi o salati che si vendono in quantità prodigiose sul mercato galleggiante di Bangkok, gli steli di bambù, i fagiolini ricciuti, conditi con olio di cocco, che se fresco, ha un sapore gradevolissimo, degno dei migliori olii della Riviera genovese e della Provenza; raramente invece mangiano polli e quasi mai carni d’animali, perché la loro religione proibisce di ucciderli, quantunque permetta loro di mangiarne se uccisi da altri che non siano Buddisti.

Lakon-tay, che voleva nascondere le sue angosce e anche il triste disegno che meditava, si mise ad assaggiare le vivande portate, inaffiandole abbondantemente con tazze colme di trau, un liquore distillato dal riso, mescolato a calce ed a sciroppo di canna da zucchero, che i Siamesi pretendono sia atto a riparare le energie fisiche estenuate dalla continua traspirazione.

Il disgraziato cercava di stordirsi e di acquistare un’allegria fittizia.

Terminato il pasto, si fece portare la scatola d’oro regalatagli dal re, piena di noci di areche e di betel con un po’ di calce, e si mise a masticare lentamente quel miscuglio piccante, che annerisce i denti e che fa sputar saliva color del sangue, mentre Len-Pra preparava il tè, versandolo in microscopiche chicchere di porcellana cinese, sulle quali era dipinto, nello stile nazionale, il cielo degli Indù colle falangi dei thevada.

«Mia dolce Len,» disse ad un tratto il generale, che da alcuni minuti era ricaduto nei suoi tristi pensieri. «Tu hai compiuto già da tre settimane i tuoi quindici anni, mentre io sono vecchio, e mi potrebbe da un momento all’altro toccare qualche disgrazia.»

«Che cosa dici, padre mio? Quali neri pensieri turbano questa sera il tuo cervello?»

«Nessuno,» rispose il generale, soffocando un sospiro. «Prendo precauzioni, in vista di certi avvenimenti che potrebbero verificarsi.»

«Tu mi spaventi, padre.»

«No, Len-Pra.»

«Che cosa vuoi concludere allora?»

«Che alla tua età devi sapere dove si trovano le ricchezze che un giorno ti dovranno spettare in eredità.

All’estremità del nostro giardino, in un forziere che io ho immerso nella vasca, si trovano rinchiuse tutte le gioie della famiglia e le verghe d’oro che ho accumulato in tanti anni di economia.

Vi è là dentro tanto da farti ricca, giacché, nei saccheggi delle città cambogiane e birmane, mi è toccata come mia parte una fortuna considerevole.

Nessuno sa che le mie ricchezze si trovino immerse in quel bacino, che è guardato dai due gaviali onde garantirle dai ladri. Ecco quello che volevo dirti.»

«Potevi dirmelo un altro giorno, o fra parecchi anni, padre,» disse Len-Pra. «Tu sei ancora robusto e nessuna malattia ti minaccia.»

«È vero, ma per precauzione ho preferito dirtelo questa sera.»

Si alzò, voltando le spalle alla lampada per nascondere la profonda emozione che gli alterava il viso, e si diresse verso un angolo della stanza, dove stava un gran bacino d’argento pieno d’acqua, con entro un altro bacino di rame sottilissimo, già quasi tutto sommerso.

Era un orologio ad acqua, usato anche oggi dai Siamesi. Nel secondo bacino, più piccolo del primo e leggerissimo, vi è un buco quasi invisibile che permette all’acqua di entrare a poco a poco finché lo fa colare a picco.

«Un’altra ora è passata,» disse, mentre il bacino s’immergeva.

In lontananza, i gong del palazzo reale echeggiavano rumorosamente, invitando gli abitanti a spegnere i lumi ed a coricarsi.

«È tardi,» disse Lakon-tay con voce ferma. «Le ombre dei morti lasciano il cielo e scendono sulla terra. Va’ a coricarti mia dolce Len.»

S’accostò alla fanciulla, che lo guardava con una profonda mestizia, la fissò un momento, poi le depose un bacio sulla fronte.

«Va’, fanciulla,» le disse. «Avrò ancora da fare un po’ prima di coricarmi.»

Mentre Len-Pra si ritirava nella sua stanza, Lakon-tay uscì sulla veranda, aspirando avidamente l’aria fresca della notte, carica di profumi deliziosi.

Il Menam, illuminato dalla luna salita ormai in cielo, svolgeva la sua immensa curva, scintillante come se le sue acque fossero d’argento, scorrendo fra la moltitudine di case galleggianti e mormorando dolcemente, in un incessante scricchiolio di zattere e di barche che si alzavano per la marea montante.

I lumi delle case acquatiche a poco a poco si spegnevano e le canzoni dei battellieri morivano sulla superficie dell’immenso fiume, mentre lontano lontano echeggiavano ancora i dolcissimi suoni d’un tro.

La città s’addormentava a poco a poco, mentre la luna saliva sempre fra miriadi di stelle scintillanti in un cielo purissimo, facendo balenare i tetti dorati delle pagode e le punte ardite delle piramidi gigantesche; e la brezza notturna faceva tintinnare i campanelluzzi delle phra-chedi e tremolare le immense foglie dei cocchi che servivano di sfondo a quel superbo quadro.

 

Lakon-tay, appoggiato alla ricca balaustrata della veranda, laccata e dorata, teneva gli sguardi fissi su un punto lontano, dove si vedevano talora brillare dei fuochi ed innalzare nubi nerissime. Guardava verso la necropoli.

«Domani anche il mio corpo sarà là,» disse. «No, Lakon-tay non deve sopravvivere alla sua disgrazia. Siano maledetti i vili che hanno uccisi i S’hen-mheng! Che la maledizione di Sommona Kodom li perseguiti in questa e nell’altra vita. Len-Pra mi perdonerà di averla privata del padre e comprenderà che la mia morte era necessaria. Almeno sfuggirà alla schiavitù che l’attende.»

Un grido che echeggiò in quell’istante proprio sopra il tetto della casa lo fece trasalire.

«L’uccello della notte si è posato sulla mia phe,» disse con un triste sorriso. «Forse l’anima di mia moglie. Sì, vengo a raggiungerti.»

Percorse con passo fermo tutta la veranda e aprì una porta, entrando nella sua stanza da letto.