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La città del re lebbroso

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«Che cosa c’è?» chiese Feng, armando rapidamente la carabina, mentre gli Stienghi impugnavano le loro sciabole.

Si erano appena fermati, quando videro passare a una cinquantina di passi una forma biancastra che correva all’impazzata.

«Un uomo!» esclamò lo Stiengo, che si trovava in testa al drappello.

«No, una scimmia,» rispose un altro.

«Era bianca! Nel nostro paese non ve ne sono di quel colore,» disse un terzo.

«Inseguiamola!» gridò Feng.

Tutti si slanciarono all’inseguimento, anche Len-Pra ed il generale. Il sospetto che potesse invece trattarsi del dottore metteva loro le ali ai piedi.

Giunti su uno spiazzo, rividero la forma bianca. Correva sempre colle mani in aria, traballando, cadendo e risollevandosi.

Feng, che era ora dinanzi a tutti, mandò un grido:

«L’uomo bianco! L’uomo bianco! Non fate fuoco! Non scagliate frecce!»

La forma bianca, estenuata forse da quella lunga corsa, cadde su un ammasso di foglie secche, mandando un grido rauco, poi rimase immobile.

Feng si slanciò innanzi, seguito dalla giovane siamese e da Lakon-tay.

Il dottore giaceva in mezzo alla radura, col viso contro terra, e pareva non desse più segno di vita.

Len-Pra, che lo aveva riconosciuto dalle vesti di lana bianca che indossava, si precipitò subito su di lui, gridando con voce rotta:

«Sta morendo! Una barella! Presto, amici, una barella! Non voglio che muoia!»

Lakon-tay, più calmo della fanciulla, si curvò sul disgraziato amico, e gli sentì il polso.»

«Il tet!» esclamò, impallidendo. «Conosco troppo bene quella malattia per ingannarmi; forse noi lo salveremo, ma bisogna far presto.»

Len-Pra, inginocchiata presso il dottore, piangeva, cercando di soffocare i singhiozzi e accarezzando colle sue piccole mani il volto già quasi freddo dell’uomo, che ormai intensamente amava.

«Sta per morire, padre,» diceva.

«Lo salveremo, Len; non piangere.»

Una lettiga, formata con rami frettolosamente tagliati dagli Stienghi della scorta e con foglie di banano, fu tosto pronta. Il dottore vi fu adagiato sopra, quattro uomini la sollevarono ed il drappello si mise in marcia senza indugio, dirigendosi non già verso la vecchia pagoda, bensì al villaggio del capo degli Stienghi, dove poteva trovare maggiori soccorsi.

Tre ore dopo giunsero sulle rive del Kun-Boreye, là dove sorgevano le abitazioni degli Stienghi.

Il disgraziato italiano, durante quella lunga marcia, non era ancora tornato in sé. Pareva che l’anima lo avesse abbandonato, quantunque un rauco e assai lieve respiro si facesse ancora udire.

Il capo degli Stienghi, prontamente avvertito, sebbene stesse dormendo, accorse subito.

Lakon-tay lo condusse un po’ lontano dalla capanna che gli era stata assegnata, dicendogli:

«Io ti prometto venti fucili se salvi l’uomo bianco, ed avrai inoltre la mia eterna riconoscenza.»

«È ferito?» chiese il capo.

«No, è stato assalito dal tet, da quella malattia che è più tremenda della febbre dei boschi.»

Il capo degli Stienghi fece un gesto e disse: «Noi lo salveremo, perché possediamo un rimedio infallibile. Il tet non sempre uccide. Affida a me l’uomo bianco ed io rispondo della sua vita.»

«Possiedi qualche liquore misterioso?»

«Niente liquori.»

«Come farai dunque?»

Il capo, invece di rispondere, si volse verso alcuni uomini che lo avevano seguito, dicendo:

«Scavate una buca nella foresta, nello strato di foglie secche, e mettetevi dentro l’uomo bianco a cucinare. La fermentazione delle foglie ci darà il calore necessario.»

Quindi, rivolgendosi verso il generale, soggiunse:

«Non temere: l’uomo bianco domani sarà salvo e non correrà più alcun pericolo.»

Capitolo XXX. Le rovine degli Khmer

Dieci giorni dopo il dottore, quasi perfettamente guarito da quella terribile malattia che fa annualmente grandi stragi nella Birmania e nel Siam, lasciava la capanna del capo degli Stienghi, dove era stato ricoverato.

Aveva ben sofferto il povero italiano!… Era rimasto ventiquattro ore sepolto fra le foglie secche della foresta, e quella cura strana lo aveva salvato da una morte più che certa.

Il caldo, sviluppato da quelle foglie in fermentazione, aveva arrestato di colpo la paralisi che lo aveva colpito alle gambe e che avrebbe dovuto salire fino al cuore.

Una cura strana questa se si vuole, ma che aveva avuto pieno effetto. Infatti dopo due settimane il dottore, ridotto nei primi giorni ad un’ombra di se stesso, poteva camminare senza fatica e riprendere il viaggio verso la città misteriosa del Re lebbroso, alla ricerca del famoso driving-hook.

Durante la malattia Len-Pra non aveva quasi mai abbandonato il capezzale del dottore, e forse la sua presenza aveva contribuito più che tutti i rimedi ad affrettare la guarigione.

«Dottore» disse un pomeriggio Lakon-tay entrando nella stanza abitata dal giovane italiano. «È giunta l’ora della partenza ed i cavalli sono pronti per fare una lunga galoppata. Domani giungeremo alla città del Re lebbroso, che è più vicina di quanto possiate immaginare. Credete di poter resistere?»

«Non mi sono mai sentito meglio d’oggi,» rispose Roberto. «Le mie gambe hanno riacquistato la loro agilità con quella cura indiavolata. Perbacco! Come cuocevo bene in quella buca! Non credevo di dover imparare un po’ di medicina da questi selvaggi.»

«Senza il capo degli Stienghi, non so, mio caro dottore, se io sarei riuscito a salvarvi. Dobbiamo essergli riconoscenti»

«Gli faremo un bel regalo.»

«Gli ho già dato un fucile e centinaia di tical e credo che non vi sia al mondo uomo più contento di lui. Possedere un’arma da fuoco era il sogno più ardente della sua vita.»

«Si accontenta facilmente quel brav’uomo! E Len dov’è?»

«Vi aspetta nella barca.»

«Quando è giunto il pilota?»

«Ieri sera coi cavalli e con i nostri bagagli.»

«Ecco un galantuomo come ve ne sono pochi. Un altro al suo posto ne avrebbe approfittato per fuggire.»

«A suo tempo ricompenseremo anche lui.»

«E dei miei rapitori, più nessuna notizia?»

«Sono scomparsi senza lasciare tracce visibili. Stamane sono tornati gli ultimi esploratori che il capo aveva mandato verso Ong-cor per interrogare le tribù di quei luoghi, ma nulla hanno potuto sapere sulla direzione presa dal puram

«Siete dunque profondamente convinto che sia stato Mien-Ming a farmi rapire?»

«Non ho più alcun dubbio: siete ormai un rivale troppo pericoloso, non è vero, dottore?» chiese il generale, guardandolo e sorridendo.

Il giovane arrossì come una fanciulla e rispose a mezza voce: «Grazie, generale: io l’amo.»

«E Len ricambia il vostro amore. Avrò così due figli invece di una. Amatela, Roberto, essa vi farà felice.»

«Sì, immensamente felice,» rispose il dottore.

«Orsù, partiamo: Len-Pra ci aspetta.»

Il capo li attendeva fuori, circondato dai più ragguardevoli personaggi della tribù, col fucile a bandoliera ed il corno pieno di polvere appeso alla cintura.

Mosse incontro al generale, dicendogli:

«Auguro a te e all’uomo bianco un viaggio felice, e non dimenticare che se hai bisogno di gente valorosa, gli Stienghi sono tuoi amici.

Ricordati della grande pagoda centrale, dalla cupola dorata e dalla statua gigantesca: solamente là, sotto la prima pietra potrai trovare l’uncino d’oro e in nessun altro luogo. Se non è stato già preso da altri, cosa che non credo, sono certo che tu lo troverai. Addio.»

I guerrieri scortarono il generale e l’uomo bianco fino al fiume, dove una barca li aspettava per condurli sulla riva opposta, e dove già si vedevano i cavalli tenuti per la cavezza da Feng e dal pilota.

Len-Pra era già nella piroga.

«Andiamo, dottore,» disse la fanciulla. «L’aria dei grandi boschi vi gioverà più di quella della vostra capanna.

«Lo credo anch’io, Len,» rispose Roberto, sedendole accanto.

La piroga si staccò dalla riva, accompagnata dalle grida festose dei guerrieri, attraversò rapidamente il fiume sotto la poderosa spinta di quattro vigorosi battellieri e s’arrestò sulla riva opposta, dove erano i cavalli.

Il pilota, nel vedere il dottore, strinse i denti e una fiamma cupa balenò nei suoi occhi.

«È uno stregone che possiede qualche amuleto,» mormorò con ira. «Quest’uomo rovinerà il mio mandarinato, ma io ora non esiterò come il puram a farlo fuori.»

Salirono a cavallo e si misero in marcia, dopo aver salutato un’ultima volta il capo degli Stienghi, che stava ritto sulla riva opposta, tenendo ben alto il fucile.

La foresta umida si prolungava anche al di là del fiume, ma era meno folta e l’aria vi poteva circolare meglio.

Era cosa prudente attraversarla al più presto. Dopo il tet, il dottore poteva essere colto dalla febbre dei boschi, non meno pericolosa e forse più difficile da guarire.

Perciò affrettarono il passo, desiderosi di raggiungere le belle pianure di Theuc-Thio al di là delle quali, in un’altra e foltissima boscaglia, s’innalzavano le imponenti rovine della vecchia Angkor e della città del Re lebbroso.

Stavano anche in guardia, temendo qualche nuovo tiro da parte dell’astioso e vendicativo puram.

Quantunque gli esploratori del capo Stiengo avessero percorso parecchi giorni di seguito quelle foreste, spingendosi molto lontano, e non avessero più trovato alcuna traccia dei rapitori, pure nessuno era tranquillo, e temevano qualche nuova imboscata.

I loro timori, almeno per quel giorno, non ebbero alcuna conferma. Quando alla sera, dopo aver percorso una quindicina di miglia, si arrestarono ai confini della foresta umida, nessun fatto era avvenuto che potesse aumentare le loro inquietudini.

 

«Che quella canaglia abbia rinunciato ai suoi progetti?» chiese il dottore a Lakon-tay, mentre Feng ed il pilota preparavano l’accampamento e Len-Pra s’occupava della cena.

«Può darsi,» rispose il guerriero, «tuttavia stento un po’ a crederlo.»

«Conosco troppo bene quell’avventuriero, come conosco la sua tenacia.»

«Che ci aspetti in qualche altro luogo?»

«E dove? Domani mattina noi giungeremo alla città del Re lebbroso, da cui non distiamo che una diecina di miglia.»

«È già così vicina?»

«Guardate laggiù, oltre quel corso d’acqua che taglia la pianura; non vedete delle case?»

«Sì.»

«Là si trova Theuc-Thio, una delle ultime borgate del Siam. E presso quella, un po’ a nord, si trovano le rovine della capitale del regno scomparso.»

«Che Mien-Ming ci aspetti là?»

«Se lo troviamo, gliela faremo pagare, dottore, a buoni colpi di carabina. Non ha con sé che sette od otto bricconi, che non resisteranno a lungo ai nostri tiri. Ai primi colpi scapperanno come lepri, ed è per questo che ho rifiutato una scorta che il capo Stiengo mi voleva offrire.»

«Sì, noi bastiamo per tenere testa a quei bricconi,» disse il dottore. «Anche se Mien-Ming ne avesse il doppio, non mi inquieterei. Sono i tradimenti che mi fanno paura.»

«Quando saremo dentro le mura della città, non avremo più nulla da temere. Vi sono dei palazzi in ottimo stato e noi sceglieremo il più solido. D’altronde la nostra permanenza sarà breve e appena avremo trovato il driving-hook torneremo a Bangkok a grandi marce. E se Mien-Ming oserà seguirci, avrà a che fare col re.»

«Siete dunque proprio sicuro che il driving-hook si trovi realmente nascosto in una di quelle pagode?»

«Ho avuto dal capo degli Stienghi una preziosa informazione.»

«Quale?» chiese vivamente il dottore.

«Egli mi ha narrato che nella sua gioventù, durante una visita fatta alla città del Re lebbroso per prendere il rame dorato che copre le statue di Budda, vide dinanzi ad una statua gigantesca, che sorge nel mezzo della pagoda centrale, una pietra, su cui era inciso un po’ rozzamente una specie d’uncino, simile a quello che usano i nostri mahut.

Quella pietra, di forma circolare, aveva un anello di rame nel mezzo, circondato da iscrizioni che non riuscì a decifrare, ma che gli parvero scritte in caratteri bali, l’antica scrittura usata dai Cambogiani. Io sono quindi convinto che il driving-hook si trovi sotto quella pietra, ed anche lo Stiengo è della mia idea.»

«Purché qualcuno non l’abbia preso prima di noi,» disse il dottore.

«Gli Stienghi, che qualche volta si spingono fino in quella città, non si occupano che del rame, metallo necessario alla fabbricazione delle loro armi bianche, e che è abbondantissimo nell’interno delle pagode. Io sono convinto, dottore, che noi domani avremo quel prezioso uncino.»

«E io sono pure convinto che fra qualche settimana gli elefanti bianchi accorreranno in gran numero a Bangkok, per farsi uncinare dal driving-hook del grande Budda,» rispose il dottore, ridendo. «Non è vero, generale?»

«Voi scherzate; che si mostrino o no, io tornerò egualmente trionfante e riacquisterò la popolarità, perduta per colpa di quella canaglia di Cambogiano.»

«Spero che lo farete per lo meno bastonare, se tornerà a Bangkok a rioccupare la sua carica.»

«Il re esigerà la sua testa, e nemmeno la posizione di gran giudice salverà Mien-Ming. Phra-Bard non scherza. Andiamo a cenare, dottore, poi corichiamoci. Dovete essere molto stanco.»

Si voltarono entrambi e videro a due passi il pilota, appoggiato ad una pianta, che ascoltava attentamente i loro discorsi.

«Che cosa fai tu qui?» gli chiese Lakon-tay.

«Signore,» rispose Kopom, cercando di giustificarsi. «Temo che passeremo una brutta notte.»

«Chi ci minaccia?»

«Ho udito poco fa l’urlo d’una tigre.»

«Forse che manchiamo di carabine e di munizioni?» disse il dottore

«Tranquillizzati: sai che non siamo tipi da preoccuparci per la vicinanza d’una belva.»

«È vero,» borbottò il Cambogiano, facendo una smorfia. «Sono uno stupido ad impressionarmi.»

Non era la tigre che lo impressionava: erano i discorsi uditi poco prima.

Infatti Len-Pra e Feng, interrogati, affermarono di non aver udito alcun urlo.

«Deve essersi ingannato,» concluse il dottore. «D’altronde se quella tigre oserà mostrarsi, la saluteremo con una scarica che le leverà per sempre la voglia d’importunare dei pacifici viaggiatori.»

Cenarono alla lesta, poi si coricarono, mentre Feng faceva la guardia. La notte non fu turbata da alcun spiacevole avvenimento e la tigre, inventata dal pilota per stornare qualsiasi sospetto negli animi del dottore e del generale, non si fece vedere e nemmeno udire.

All’indomani, dopo il tè, ripartirono al trotto, ansiosi di arrivare dentro la famosa città del Re lebbroso e di cominciare subito le ricerche.

Attraversarono le ultime pianure, girando al largo di alcune borgatelle, poiché non avevano alcun interesse a fermarsi in quei luoghi, e alle sette, dopo aver avvistato in lontananza Angkor, l’attuale capitale della provincia omonima, che sorge su una landa sabbiosa e si estende fino ai primi contrafforti della catena dei monti Sowrais, si cacciarono nell’immensa foresta, che da secoli e secoli copre le rovine dell’antico regno degli Khmer.

Cominciarono ad apparire i primi ruderi delle immense città, che un tempo sorgevano in quella regione ed erano state così floride e popolose. In mezzo alle macchie, fra alberi, rotang, bambù ed erbe altissime, di tanto in tanto apparivano pagode e archi trionfali diroccati, pezzi di bastioni ormai crollanti, torri tronche, acquedotti sfasciati che attestavano la civiltà e la ricchezza di quel regno, scomparso così misteriosamente nella notte dei tempi.

«Quante rovine!» esclamò il dottore. «Si direbbe che un terremoto tremendo abbia d’un sol colpo distrutto tutte le città del regno degli Khmer.»

«Può darsi che siano stati i fuochi centrali della terra a far crollare ogni cosa,» rispose il generale. «Voi sapete che il nostro suolo è sempre in convulsione, al pari di quello birmano.»

«Qui vi sono rovine di città immense.»

«E ben altre ve ne sono più a sud, in prossimità del lago. A tre giornate da Angkor, l’attuale capitale di questo distretto, io ho visitato gli avanzi di tre altre città che un tempo devono essere state vastissime e ho anche visto un tempio grandioso, sostenuto da un numero infinito di colonne e sormontato da cinque torri. Una vera meraviglia.»

«Allora anche nella città del Re lebbroso troveremo dei monumenti imponenti?»

«Meravigliosi, ve lo assicuro, dottore.»

«Siamo ancora lontani?»

«Tre o quattro miglia, così mi ha detto Feng.»

«Lo Stiengo dunque l’ha già visitata?»

«L’ha vista soltanto da lontano. Al galoppo, dottore! Forse fra poche ore noi avremo in nostra mano il driving-hook

La foresta diventava sempre più folta, ma le rovine aumentavano ad ogni passo.

Vi erano delle vere montagne di rottami, ormai coperti dalle piante parassite e dai cespugli, e nascosti in mezzo alle macchie più folte. La vegetazione ormai tutto aveva coperto da secoli e secoli.

Man mano che il drappello s’avvicinava alla città del Re lebbroso, raddoppiava le precauzioni, temendo sempre una sorpresa da parte di Mien-Ming e della sua banda. Avanzavano con estrema prudenza, scrutando attentamente le macchie e tenendo le carabine già armate dinanzi alla sella.

Len-Pra era stata messa nel mezzo del drappello per tenerla al riparo da una scarica improvvisa, ed il pilota era stato incaricato di aprire la marcia, avendo egli detto di conoscere la via. Feng, invece, si era messo alla retroguardia, coi cavalli di ricambio che portavano i viveri, le munizioni e le tende.

Tuttavia pareva che l’immensa foresta non fosse abitata da alcun essere umano. Non si vedeva che qualche cervo fuggire precipitosamente attraverso i cespugli; e qualche cinghiale.

Verso mezzodì il drappello sbucò improvvisamente su una vasta pianura, dove si alzavano delle mura altissime, difese da torri imponenti, dietro le quali giganteggiavano pagode colossali e costruzioni grandiose.

«La città del Re lebbroso!» gridò Feng. «Padrone, il driving-hook è ormai nostro.»

«Mano alla carabina,» rispose il generale, «e facciamo la nostra entrata nella capitale degli Khmer.»

Capitolo XXXI. La città del Re lebbroso

Angkor-tom, l’antica capitale del regno della Cambogia, meglio conosciuto anticamente sotto il nome di regno degli Khmer, s’innalza a circa quindici miglia dal Tuli-Sap, verso il 15° di latitudine ed il 102° di longitudine.

Quale spazio occupasse, lo si può facilmente capire dalla infinita quantità delle sue rovine che sono disseminate fra le boscaglie per miglia e miglia; quale magnificenza avesse raggiunto lo si può giudicare dalle sue pagode colossali e dai suoi palazzi meravigliosi, ancora esistenti sebbene debbano aver sopportato le ingiurie del tempo per decine di secoli.

Sono così imponenti quelle rovine e sono frutto d’un lavoro così prodigioso, che alla loro vista si rimane compresi della più profonda ammirazione e non si può fare a meno di chiedersi che cosa mai possa essere avvenuto di un popolo tanto potente, civile ed illuminato, che era riuscito ad innalzare monumenti così grandiosi, da superare per mole, per linee architettoniche, per fregi meravigliosi, i più bei monumenti lasciati dai Greci, dai Romani e dagli stessi Egizi.

Il tempo, i terremoti, i barbari, provenienti forse dal cuore della Cina e dal Siam, forse anche dal Tonkino, hanno rovinato gran parte di quella ricca capitale; tuttavia rimangono ancora in piedi mura, palazzi e pagode, ad attestare il genio meraviglioso degli architetti dell’augusto regno di Maha-Nokhor-Khmer.

Le mura che dovevano difendere la parte centrale della città, abitata dai re, s’ergono ancora, prolungandosi per ben ventiquattro miglia, con uno spessore di tre metri e ottanta centimetri e un’altezza di sette, con quattro magnifiche porte, che s’aprono verso i quattro punti cardinali.

Entro quelle vaste mura, ormai coperte da alberi, cespugli e ammassi di piante parassite, s’innalza un gran numero di monumenti d’una grandiosità stupefacente, tutti più o meno rovinati e che a poco a poco continuano a sgretolarsi; ma nel centro si erge ancora superbo, e abbastanza ben conservato, l’antico palazzo reale, difeso da tre ordini di mura staccate le une dalle altre e circondate ognuna da un profondo fossato, difese da torri colossali e abbellite da archi trionfali che le uniscono.

È cosa davvero impossibile descrivere la bellezza meravigliosa di quel palazzo, costruito tutto in marmo, con innumerevoli colonne, terrazze gigantesche, sale immense e che verso il centro si eleva gradatamente, formando una torre colossale a più piani, coi tetti arcuati e dorati, con statue, con massi scolpiti stupendamente, con frontoni d’una finezza sorprendente. Su tutte le facciate si vedono numerose iscrizioni, in una lingua che tutti ignorano e che perfino i letterati della Cambogia e del Siam non sono mai riusciti a decifrare.

Chi ha costruito quel capolavoro d’architettura, che dopo tanti secoli s’innalza ancora maestoso a ricordare la potenza di quel popolo, così misteriosamente scomparso?

Se si interrogano i Cambogiani e gli Stienghi, che sono probabilmente i lontani discendenti degli Khmer, vi rispondono che è opera del re degli angeli Pra-en; oppure che è opera dei giganti, o anche che il palazzo si è creato da se stesso.

Gli storici invece affermano che quel palazzo fu fatto costruire da un Re lebbroso, in un’epoca non ancora determinata, e sembra che abbiano ragione, poiché all’interno della pagoda che s’innalza in uno dei cortili del palazzo reale, si può ammirare ancora la colossale e bellissima statua di quel potente monarca.

Ma anche fuori dalle mura del palazzo reale rimangono ancora edifici non meno ammirabili, in gran parte coperti da piante parassite, che ne affrettano la distruzione: sono palazzi giganteschi in parte crollati, sono pagode enormi, e vi è pure, un po’ a sud di quelle imponenti rovine, un ponte, per la maggior parte distrutto, lungo quarantacinque metri con una larghezza di cinque e con quattordici archi, un’opera degna dei romani e degli egizi.

Quando Lakon-tay ed i suoi compagni, dopo aver superato ammassi colossali di rottami, entrarono fra le mura del palazzo reale, era mezzodì.

Un silenzio profondo, che stringeva il cuore, regnava fra quelle immense rovine, rotto solo dallo scalpitio dei cavalli, che avanzavano su una via lastricata di pietre ancora ben connesse.

 

Tutti tacevano, come se non osassero turbare quel gran silenzio che da secoli regnava assoluto sulle ultime rovine di quel gran popolo scomparso.

Quando giunsero dinanzi alla superba scalinata che metteva nell’immenso porticato del palazzo reale, sorretto da due ordini di colonne meravigliosamente scolpite, tutti si arrestarono guardando con stupore quell’imponente edificio, da cui ormai non usciva più alcun rumore.

«Mi sembra di trovarmi in un cimitero,» disse finalmente il dottore. «Questo silenzio, in mezzo a queste grandiose rovine, produce su di me un’impressione strana che non saprei spiegare.

Quale magnificenza! Che cosa sono gli architetti dell’antica Grecia e della grande Roma in confronto a quelli degli Khmer? Non avrei mai creduto di trovare, in mezzo a queste foreste, avanzi simili, che attestano la grandezza e l’opulenza di quello sventurato popolo!

«Scendiamo,» disse Lakon-tay, «ed entriamo.

«È qui che noi troveremo il driving-hook con cui io potrò riabilitarmi.»

Balzarono a terra, affidarono i cavalli al pilota ed a Feng, e, prese per maggiore precauzione le carabine, salirono la gradinata e s’inoltrarono sotto l’immenso porticato che era lastricato di marmo.

L’eco dei loro passi si ripercuoteva sotto le volte con una sonorità incredibile. Pareva che invece di quattro sole persone avanzasse fra quei giganteschi colonnati una compagnia di guerrieri della guardia reale dei re degli Khmer, tanto l’eco ripeteva e moltiplicava i suoni.

L’illusione era così perfetta, che tutti si guardarono intorno, credendosi seguiti da una folla di persone.

«Che i defunti guardiani del palazzo siano usciti dalle loro secolari tombe per farci da scorta?» disse il dottore, cercando di scherzare.

«Avanti,» ripeté Lakon-tay, che era diventato estremamente nervoso.

Nel mezzo del porticato, s’apriva una porta cogli stipiti scolpiti meravigliosamente. La varcarono e si trovarono in una sala immensa, colle pareti di marmo piene d’iscrizioni e di mensole che reggevano un numero infinito di statuette raffiguranti dei re o delle divinità.

In alto correva una galleria, in parte diroccata, adorna di statue per la maggior parte in porcellana azzurra o gialla e colle balaustrate di rame dorato. Vedendo all’estremità della sala un’altra porta, Lakon-tay ed i suoi compagni vi si diressero, e varcatala si trovarono in un vasto cortile, ingombro di sterpi e di erbacce, tutto circondato da porticati e con in mezzo una fontana sormontata da una statua di rame dorato, mancante delle braccia e della testa.

Gli Stienghi o i Cambogiani dovevano aver visitato quel cortile per provvedersi di rame e anche per cercare, come si poteva supporre da alcune profonde fosse, quelle verghe d’argento chiamate nane, pesanti trecentosessantotto grammi, che si rinvengono ancora in buon numero rovistando le rovine, e che dovevano costituire la moneta del regno scomparso.

Scorgendo, al di là d’uno di quei porticati, una torre colossale a vari piani, coi cornicioni dorati e le tegole di porcellana gialla, Lakon-tay ed i suoi compagni vi si diressero, immaginando che quella dovesse essere la cupola della pagoda annessa al palazzo reale.

Attraversarono una seconda sala, non meno vasta della prima, assolutamente vuota e dalle pareti in vari luoghi screpolate, e si trovarono in un secondo e più spazioso cortile, in mezzo a cui giganteggiava una pagoda, ricca di sculture, d’iscrizioni e di colonne istoriate e con un numero infinito di piccole finestre che s’aprivano a sessanta e più piedi dal suolo.

«Là! Là!» esclamò Lakon-tay con voce strozzata. «Il driving-hook è nostro!»

Fecero rapidamente il giro della pagoda, che era in ottimo stato di conservazione, e scoprirono finalmente l’entrata.

La porta, d’uno spessore enorme, costruita tutta in legno di tek, con borchie gigantesche di metallo dorato, era aperta. Tutti si precipitarono nel tempio. Un grido di gioia sfuggì al generale.

«La statua del Re lebbroso! Il driving-hook è là!»

La volta della pagoda era tanto alta, che non si potevano distinguere gli ornamenti che la decoravano. Sulla cima s’apriva un foro circolare, da cui scendeva un gran fascio di luce, e vi si accedeva per mezzo di una gradinata che saliva a spirale, girando intorno alla parete della immensa cupola.

In tempi antichissimi la pagoda doveva essere stata devastata da qualche invasione nemica, poiché l’interno era cosparso di statue infrante, e persino le iscrizioni erano in gran parte rovinate.

Solo la statua del Re lebbroso, del fondatore della superba città, era stata risparmiata. Sorgeva proprio nel mezzo del tempio, su un enorme masso di marmo di forma quadrata, tutto adorno d’iscrizioni. Era una statua di fattura squisita e ben proporzionata, alta quasi quattro metri, di marmo grigio, che portava sul capo una specie di corona a forma di cono, di metallo dorato, ed aveva i lineamenti del viso non solo regolari, ma anche bellissimi.

Lakon-tay non si fermò nemmeno a osservarlo. Si slanciò verso il basamento, davanti al quale si scorgeva un anello di metallo finemente cesellato, infisso in una lastra di marmo di forma circolare, della circonferenza di due metri.

Colle mani spazzò via la polvere che copriva la lastra e mostrò, con braccio tremante, una profonda incisione, che raffigurava un uncino simile a quello che usano i mahut per guidare i loro elefanti.

«Il driving-hook!» gridò con voce soffocata dall’emozione. «Dottore… Len… aiutatemi! Deve trovarsi qui sotto!»

«Calma, generale,» disse Roberto, il quale tuttavia non era meno commosso. «E se poi fossimo delusi nella nostra speranza?»

«No, guardate, questa pietra non deve essere stata mossa da secoli e secoli.»

Len-Pra passò la canna della sua carabina attraverso l’anello, poi tutti e tre tirarono energicamente.

Per un po’ la pietra resistette, poi alla quarta scossa uscì dal suo alveolo, lasciando vedere al di sotto una stretta gradinata, che sembrava condurre in qualche sotterraneo.

«Scendiamo,» disse Lakon-tay.

«Accendiamo un pezzo di candela, se ne abbiamo.»

«Non è necessario; vedo della luce in fondo alla scala.»

Passò per primo, seguito subito da Len-Pra, quindi dal dottore. Dopo essere scesi per una quindicina di gradini si trovarono in un sotterraneo illuminato da due strette feritoie, difese da enormi sbarre di ferro che il tempo non aveva ancora corroso.

Era una sala circolare, poco alta, che pareva scavata in un enorme blocco di pietra, vasta tanto da poter contenere una ventina di persone e colle pareti coperte d’iscrizioni.

Nel mezzo s’elevava una statua di porcellana gialla, rappresentante in piccolo la figura del Re lebbroso, posata su un masso quadrato pure di porcellana, su cui si vedeva ancora disegnato un driving-hook. Tutti si erano arrestati dinanzi alla statua, chiedendosi ansiosamente dove potesse trovarsi il prezioso uncino del mahut di Sommona Kodom.

«Dottore,» disse Lakon-tay, con voce alterata. «Dove possiamo cercarlo?»

Roberto, invece di rispondere, percosse la statua colla canna della carabina e dal suono che diede la porcellana capì che doveva essere interamente vuota.

«Atterriamola,» disse. «Se il driving-hook non si trova qui dentro, non lo troveremo in nessun altro luogo.»

Impugnarono le carabine per la canna e percossero furiosamente la statua, la quale cadde in frantumi. Fra i cocci che rimbalzavano da tutte le parti sulle lastre di pietra del pavimento, videro pure cadere un cofanetto di metallo giallo che pareva d’oro, lungo quasi mezzo metro e largo circa quindici centimetri.

Il generale con un salto vi si precipitò sopra, afferrandolo e alzandolo.

Nella caduta le cerniere si erano spezzate e dentro il prezioso scrigno, che era adorno di cesellature meravigliose per finezza e per disegno, aveva scorto un oggetto risplendente che aveva la forma d’un uncino da elefante.

Lo prese e lo mostrò a Len-Pra ed al dottore, gridando:

«Il driving-hook! Il driving-hook del mahut di Sommona Kodom! Sono salvo! La mia riabilitazione è assicurata! Len! Dottore! La gioia mi soffoca!»

Sì, era proprio quel famoso e preziosissimo uncino di cui parlavano gli antichi libri sacri! La punta era d’oro purissimo, l’asta d’argento cesellato ed il manico formato da uno smeraldo più grosso e più superbo di quello che si ammirava nella grande pagoda di Bangkok, raffigurante, come quello, una piccola statua di Budda.