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La città del re lebbroso

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Il generale, fuori di sé per la gioia, stava per precipitarsi verso la scala per riguadagnare la pagoda, quando un colpo sordo, che pareva prodotto dalla caduta d’una grossa pietra, lo arrestò di botto.

La luce che scendeva dal foro circolare era bruscamente scomparsa.

Lakon-tay, pallido come un cencio lavato, mandò un altro grido, e non certo di gioia.

«Ci hanno rinchiusi! La pietra è stata rimessa a posto! Tradimento!»

Nel medesimo istante una voce, che riconobbe per quella del pilota, echeggiò a distanza.

«Ora farete i conti con Mien-Ming, se vorrete uscire! Ah! Come vi ho giocato!»

Poi risuonò un colpo di fucile, seguito da un urlo, quindi parecchi altri colpi rimbombarono seguiti da altre grida, infine successe un silenzio profondo.

«Dottore! esclamò il generale, guardando cogli occhi smarriti l’italiano e Len-Pra. «Siamo stati traditi! I miserabili ci hanno rinchiuso vivi in questa tomba.»

Capitolo XXXII. Un selvaggio eroe

Mentre Lakon-tay, il dottore e la giovane andavano in cerca del driving-hook, Kopom, che era stato lasciato dinanzi al palazzo reale assieme allo Stiengo per sorvegliare i cavalli, studiava il modo di tentare un colpo disperato, per salvare il suo futuro mandarinato, che ormai correva troppi pericoli.

Più risoluto di Mien-Ming, perché, anche se scoperto, ben poco aveva da perdere, aveva avuto dapprima l’idea di disfarsi dello Stiengo e poi di chiamare i banditi che non dovevano essere lontani, per piombare addosso al generale e al dottore, ma aveva subito rinunciato a quel piano che presentava troppi pericoli.

E se Mien-Ming non fosse ancora giunto? Questo timore lo aveva trattenuto poiché, almeno sino a quel momento, non aveva udito nessun segnale che gli confermasse l’arrivo della banda.

Il puram, quantunque partito prima del generale, poteva essersi smarrito nei grandi boschi umidi o essere stato costretto a deviare e ad allungare la via per far smarrire le proprie tracce e per evitare un inseguimento.

E poi Kopom aveva anche notato che lo Stiengo, sempre diffidente come un vero selvaggio, non aveva abbandonato la carabina, anzi se l’era messa fra le ginocchia, col cane alzato, pronto a far fuoco sul primo che apparisse. Una mossa imprudente od un semplice sospetto, e quel figlio dei boschi non avrebbe certo esitato a sparargli addosso senza misericordia.

Era a questo punto delle sue riflessioni e stava per architettare un nuovo piano, che potesse aver maggiori probabilità di riuscita, quando al di là delle mura udì un grido stridente che si poteva scambiare pel grido sgradevole d’uno di quei grossi calaos dal becco enorme, che sono così numerosi nelle foreste del Siam settentrionale.

Udendolo, Kopom volse istintivamente il capo verso le mura di cinta.

«Il puram,» mormorò fra sé. «Allora tutto posso osare.»

Feng, il quale si era seduto sul primo gradino dello splendido scalone di marmo che conduceva nel porticato, si era bruscamente alzato, dicendo:

«Ehi, pilota, non ti sembra che questo sia un segnale?»

«È il grido d’un calaos,» rispose Kopom. «Ve ne sono molti in questo paese, anzi ne ho veduto poco fa uno svolazzare sulla cima delle mura.»

«Io ti dico che qualcuno ha voluto imitare il grido di quei volatili, e chissà che non sia uno degli uomini del puram

«Di quale puram intendi parlare?» balbettò Kopom, diventando smorto e guardando con terrore lo Stiengo.

«Ah! Già, non ti abbiamo ancora messo al corrente dei nostri sospetti, ed ignori che abbiamo ormai scoperto chi sono gli uomini che ci hanno teso tanti agguati e che hanno rapito l’uomo bianco.»

Kopom lo guardava come trasognato, cogli occhi dilatati, non avendo mai udito fino allora parlare del puram, da parte di coloro che cercava di tradire in tutti i modi.

Come avevano saputo ciò? Il dubbio che potessero sospettare anche di lui lo assalì e gli fece gelare, per un momento, il sangue nelle vene. Quel briccone nondimeno possedeva una buona dose di coraggio. Capì che, se non giocava d’audacia, era perduto e che era troppo pericoloso per lui starsene zitto.

«Non so di quale puram tu voglia parlare,» rispose. «Dico solo che tu ti sei ingannato e che quel grido lo ha mandato un calaos. Chi vuoi che ci minacci?»

Feng non faceva più attenzione a lui: curvo innanzi, ascoltava attentamente.

«Non mi sono ingannato,» disse ad un tratto, rialzandosi vivamente. «Degli uomini marciano al di là delle mura. Rimani qui mentre io vado ad avvertire il padrone.»

«E vorresti lasciarmi solo!» gridò il Cambogiano, fingendosi atterrito. «Che cosa vuoi che faccia se vengo assalito da parecchi uomini, io che so appena sparare col fucile?»

«Allora va’ tu, giacché hai paura. Spicciati però: quei banditi devono essere in molti e forse anche decisi a farci la pelle.»

Kopom, che aveva già preparato il suo piano, se ne andò frettolosamente, scomparendo entro il palazzo reale.

Lo Stiengo, rimasto solo, condusse i quattro migliori cavalli dietro un ammasso di rottami per metterli al coperto da eventuali colpi di fucile, poi si ritrasse sotto il porticato, nascondendosi dietro una colonna.

Si trovava là solo da pochi secondi, quando vide sbucare da una delle porte delle mura otto uomini, i quali avanzavano carponi, coi fucili in mano, seguiti a breve distanza da un altro che subito riconobbe.

«Il puram!» esclamò. «Il padrone non si era ingannato.»

Alzò la carabina, poi la riabbassò.

«Che cosa potrei fare contro nove uomini?» mormorò. «È meglio raggiungere il padrone per organizzare una lunga resistenza.»

Credendo di non essere stato ancora scorto, scivolò dietro una seconda colonna, poi si slanciò nella sala.

Aveva notato la direzione presa dai suoi padroni ed aveva anche osservato prima l’alta cima della pagoda.

«Devono trovarsi nel tempio,» mormorò, correndo come un cervo. «Ci barricheremo là dentro.»

Attraversò la sala, poi il cortile, quindi l’ala interna del grandioso palazzo e giunse infine dinanzi alla pagoda.

Stava per precipitarvisi dentro, avendo udito dietro di sé dei passi affrettati che annunciavano l’arrivo dei banditi, i quali forse lo avevano visto fuggire, quando udì un colpo sordo, poi la voce stridula del pilota che gridava:

«Ora farete i conti con Mien-Ming se vorrete uscire! Ah! Come vi ho giocato!»

Lo Stiengo mandò un vero ruggito da belva. Aveva finalmente capito, da quelle parole, che razza di furfante era quel pilota.

Si slanciò nella pagoda come un toro infuriato, colla carabina puntata, urlando:

«Miserabile!… Ti sei tradito!»

Il Cambogiano spiccò un salto, levandosi dalla fascia il terribile coltellaccio birmano.

«Giacché mi sono tradito, ora ti ucciderò!» rispose facendo atto di scagliarsi innanzi.

Si era però dimenticato che il figlio dei boschi sparava con una precisione straordinaria.

Un colpo di carabina rimbombò ed il miserabile cadde col cranio fracassato, senza nemmeno mandare un grido.

In quel momento alcuni uomini fecero irruzione nella pagoda, sparando all’impazzata. Erano i banditi di Mien-Ming, che avevano seguito lo Stiengo senza che egli se ne fosse accorto.

Con un balzo prodigioso, Feng si gettò dietro la statua del Re lebbroso, mettendosi al riparo dai colpi di fucile; poi, vedendo dietro di sé un’altra porta, molto meno grande della prima e che era pure aperta, approfittando del momento in cui i banditi ricaricavano le armi, si slanciò fuori dalla pagoda.

In quattro salti attraversò il cortile, rientrando nel palazzo reale. Fuggiva a rompicollo, udendo dietro le spalle le urla furiose dei banditi e la voce del puram che gridava:

«Uccidetelo!… Uccidetelo!…»

Qualche colpo di fucile rimbombava di tanto in tanto, ma le pallottole non colpivano nel segno e si schiacciavano contro le colonne, dietro le quali il fuggiasco si riparava.

Giunse così sotto il porticato, ancora incolume. Si precipitò giù dalle scale e si diresse verso i quattro cavalli che aveva nascosto dietro l’ammasso di rovine.

Era già montato sul più robusto, e stava per scioglierli, poiché erano tutti uniti dalle briglie legate insieme, quando i banditi comparvero sulla gradinata, preceduti dal puram che urlava sempre:

«Uccidetelo!… Mille tical a chi lo colpisce!…»

Una scarica rimbombò.

Uno dei cavalli cadde e anche lo Stiengo si abbandonò sul collo di quello che montava, mandando un urlo di dolore e portandosi una mano al petto.

«È nostro!» gridarono i banditi.

Arrivarono fortunatamente troppo tardi. I tre cavalli, spaventati da quelle detonazioni, spezzate le briglie che li univano al cavallo morto, si erano slanciati avanti a corsa sfrenata.

Attraversarono come un uragano la porta delle mura e si gettarono fra gli ammassi di rovine, dirigendosi verso la foresta.

Feng, aggrappato al collo del cavallo che montava e che era il più vigoroso, si lasciava trasportare in quella corsa furibonda, senza tentare di frenarlo.

Era diventato pallido, o meglio grigio, e un copioso sudore freddo gli bagnava la fronte.

La sua casacca bianca a poco a poco si tingeva di rosso: il sangue trapelava attraverso il tessuto, quantunque il poveretto si comprimesse sempre la ferita colla mano sinistra, per cercare di arrestare l’emorragia.

Il dolore che provava al costato destro era così intenso, da strappargli dei sordi gemiti.

La pallottola che aveva ricevuto doveva essere penetrata ben dentro e doveva aver offeso forse qualche organo vitale.

Tre volte fu lì lì per lasciarsi cadere di sella, sentendosi venir meno le forze; tuttavia, con uno sforzo supremo di energia selvaggia, riuscì a mantenersi ancora in groppa al destriero.

 

«No, bisogna che resista o sono perduti,» mormorava. «Non bisogna che io muoia senza aver prima veduto il capo, altrimenti i miei padroni non usciranno più vivi da quel sotterraneo.»

Si passò la fascia sulla ferita per impedire che la vita gli sfuggisse assieme al sangue, poi, invece di rallentare la corsa dei cavalli, si mise a percuoterli col calcio della carabina.

Non avendo egli avuto il tempo di scioglierli, gli animali erano costretti a galoppare l’uno a fianco dell’altro, ma a lui del resto premeva di conservarli per averne sempre sottomano uno, meno stanco di quello che cavalcava.

Raggiunto il bosco e non udendo dietro di sé più alcun rumore, il ferito arrestò un momento i cavalli presso un fossato pieno d’acqua limpidissima. Li legò ad alcuni alberi affinché non fuggissero, poi si levò la casacca e guardò la ferita.

Un buco era aperto fra la quarta e la quinta costola, prodotto da un proiettile di grosso calibro, e da quella ferita il sangue scorreva copiosamente.

«Resisterò o la morte mi colpirà prima che riveda il capo?» si chiese.

Si lavò la ferita, provando un vero sollievo, se la fasciò meglio che poté, bevve avidamente parecchi sorsi d’acqua, poi si rimise in sella, mormorando:

«Forse arriverò ancora in tempo.»

Temendo di venire colto da uno svenimento, si legò al pomo della sella, poi lanciò i cavalli al galoppo.

Si dirigeva verso il sud, in direzione del Kun-Boreye. Aveva ormai fatto il suo piano: non si trattava che di resistere. Ci sarebbe riuscito, o la morte lo avrebbe colto prima che egli potesse vedere il capo degli Stienghi?

Abbracciato al collo del cavallo, colla testa posata sulla criniera, quasi svenuto, si lasciava sempre trasportare. Sentiva gli orecchi ronzare, le membra intorpidirsi e le forze abbandonarlo a poco a poco.

Ad ogni soprassalto del cavallo un gemito soffocato gli usciva dalle labbra, convulsamente strette e già bagnate da una schiuma sanguigna.

Tuttavia l’eroico selvaggio resisteva sempre con una tenacia incredibile, e quando i dolori diventavano meno intensi, gettava uno sguardo alla regione che i cavalli percorrevano, temendo che sbagliassero direzione.

Così passò un’ora, poi un’altra ancora, senza che quei robusti corridori rallentassero la loro corsa indiavolata.

Feng era quasi svenuto. Se qualcuno l’avesse veduto, l’avrebbe certo scambiato per un morto legato alla sella.

Quanto tempo passò ancora?

Un soprassalto violento, che spezzò la fascia stretta attorno alla ferita, fece tornare Feng in sé. Con uno sforzo disperato si risollevò, gettando all’intorno uno sguardo semispento. I cavalli s’erano arrestati sulla riva d’un largo fiume, entro il quale per poco non erano precipitati.

Un sorriso spuntò sulle labbra del povero Stiengo.

«Il Borey!» mormorò, con voce appena intelligibile.

Stette un momento indeciso, ignorando se il villaggio dei suoi compatrioti si trovasse vicino o lontano, poi vedendo che l’acqua non pareva molto profonda, spinse i cavalli nel fiume.

Quel bagno freddo lo rianimò alquanto e lo fece tornare completamente in sé. Guardò il sole per orientarsi.

«Ad occidente,» mormorò. «Chissà! Comincio a sperare!»

E lanciò i cavalli in quella direzione, seguendo la riva del fiume che non era ingombra di piante troppo compatte.

Quanto durò quella seconda corsa? Feng non lo seppe mai, perché era tornato ad accasciarsi sul collo del cavallo, vinto dallo svenimento.

Delle grida e un altro rumore di cavalli gli fecero riaprire gli occhi, velati già dalla morte.

Vide confusamente intorno a sé dei guerrieri, i quali avevano afferrato i tre destrieri per le briglie, poi si sentì levare dalla sella e deporre a terra, e infine udì una voce, a lui ben nota, esclamare:

«È Feng! È mio nipote! Arrestategli il sangue o morrà.»

Il povero Stiengo fissò sull’uomo che così parlava le sue pupille semispente.

«Il capo,» mormorò.

Poi, radunando le sue ultime forze, si levò a sedere ed afferrando una mano del vecchio gli disse con voce rantolante:

«Salvali… nella città del Re lebbroso… i nemici… che hanno rapito l’uomo bianco… là… nella pagoda… rinchiusi… raccogli i tuoi… guerrieri… là… corri… salvali…»

«Sì, andrò a salvarli, povero ragazzo… dimmi, chi ti ha ferito? gridò il capo con voce singhiozzante.»

«I nemici… del mio… padrone… addio, capo… muoio… salvali… sal…»

La voce gli si spense in un fiotto di sangue che gli gorgogliò fra le labbra. Tentò di rizzarsi sulle ginocchia, poi cadde pesantemente al suolo, mandando un rauco sospiro.

Il fedele servo del generale era morto!

Capitolo XXXIII. La morte del puram

Lakon-tay, il dottore e Len-Pra erano rimasti come fulminati udendo ricadere la pesante pietra e udendo poi subito dopo le minacciose parole del pilota e il rimbombo di quei colpi di fucile nella pagoda.

Per parecchi istanti erano rimasti muti, col cuore sospeso, guardandosi l’un l’altro, cogli occhi dilatati da un’angoscia inesprimibile.

Il tradimento del pilota, di quell’uomo che fino a quel momento avevano creduto un brav’uomo e che si erano perfino proposti di ricompensare largamente, li aveva completamente scombussolati.

Ad un tratto un grido sfuggì dalle loro labbra:

«E Feng?»

Tutti e tre avevano avuto il medesimo pensiero. Che cosa poteva essere avvenuto di quel bravo giovane che avevano lasciato dinanzi al palazzo reale in compagnia di quel traditore? Era ancora vivo, o i banditi di Mien-Ming l’avevano ucciso? Il generale era diventato pallidissimo.

«Che l’abbiano assassinato?» gridò con voce terribile. «Guai a loro, guai a quei miserabili se hanno torto un sol capello a quel bravo ragazzo, che io amo come se fosse mio figlio!»

«Ahimè, generale,» disse il dottore, «io tremo più per lui che per noi. Quei colpi di fucile che noi abbiamo udito devono aver ucciso qualcuno.»

«Che si sia lasciato sorprendere?» chiese Lakon-tay, con accento di dolore intenso.

«Padre,» disse Len-Pra, «io dubito che Feng, uomo diffidente e astuto, si sia lasciato uccidere a tradimento e senza opporre resistenza.

Tu sai bene che Feng un giorno, dopo il rapimento del signor Roberto, ti aveva manifestato qualche sospetto circa la fedeltà del pilota. Doveva quindi tenersi in guardia.»

«Tu speri dunque che egli possa essersi salvato?»

«Ne ho la convinzione,» rispose Len-Pra. «Che ne dite, signor Roberto?»

Il dottore fece col capo un cenno affermativo, quantunque non condividesse la speranza della fanciulla, poi disse:

«Generale, occupiamoci di noi per ora. La nostra situazione è peggiore di quel che voi crediate, e non so come potremo cavarcela.

Siamo nelle mani di Mien-Ming e quel miserabile non ci lascerà uscire senza imporci delle condizioni terribili che strazieranno due cuori che si amano.»

«Che cosa volete dire, dottore?» chiese Len-Pra, guardandolo con angoscia.

«Lo saprete fra poco, povera fanciulla.»

«Giammai acconsentirò, dottore,» disse Lakon-tay, con suprema energia. «Len diventare sua…»

«Silenzio, generale, per ora. Cerchiamo invece di tentare qualche cosa, prima che quella canaglia si mostri.

Se potessimo uscire, da parte mia non esiterei a impegnare la lotta contro quei banditi a colpi di fucile.»

«Ed io non meno di voi, Roberto,» rispose il generale. «Ma come uscire, ora che il pilota ha ricollocato a posto la pietra che è così pesante?»

«Non è da quella parte che dobbiamo tentare di evadere. Un uomo solo basterebbe per fucilarci a bruciapelo, e certo il pilota o qualche altro sta di guardia dinanzi alla statua del Re lebbroso.»

«Ma queste feritoie sono difese da sbarre di ferro così grosse, che nemmeno un gigante riuscirebbe a svellerle.»

«Forse non presentano quella resistenza che voi credete. Il tempo deve averle più o meno corrose.»

«Quei banditi forse ignorano ancora che questo sotterraneo ha delle finestre?» chiese Len-Pra.

«Lo suppongo,» rispose il dottore, «ma non tarderanno a scoprirle. Venite, generale: vediamo dove guardano queste finestre.»

S’accostò a una feritoia, che s’apriva ad un metro e mezzo dal suolo ed era sufficientemente larga per lasciar passare un uomo di media grossezza e difesa da quattro solide sbarre coperte da un fitto strato di ruggine. Essa guardava su un cortiletto ingombro di macerie, chiuso da un’alta muraglia in gran parte diroccata e che non aveva alcuna apertura.

«Che quella muraglia abbia servito un giorno come base a qualche torre?» si chiese il dottore, osservando l’enorme ammasso di rottami.

«Signor Roberto,» disse Len-Pra, «vi è qualche probabilità di fuggire?»

«Sì, e anche di sorprendere quei banditi alle spalle, se si potessero levare queste maledette sbarre; impresa difficile, non ve lo nascondo, fanciulla mia. La parete è formata da blocchi di pietra che resisteranno a tutti i nostri sforzi.»

«Tentiamo di svellere qualche sbarra,» disse il generale.

«Ci vorrebbe una lima per segarle,» rispose il dottore, facendo un gesto di scoraggiamento, «e noi non ne abbiamo alcuna.»

«Saremo costretti ad arrenderci oppure a morire qui dentro di fame e di sete?»

Roberto non rispose, ma si asciugò la fronte che era madida di sudore. Tuttavia si provò a scuotere una di quelle sbarre, impiegando tutta la sua forza, ma dovette purtroppo convincersi che ogni tentativo era vano. Senza una lima o almeno una trave, mai sarebbero riusciti a fuggire da quel sotterraneo, che minacciava di diventare la loro tomba.

Il dottore e Lakon-tay si guardarono tristemente.

«Nessuna speranza?» chiese questi a mezza voce.

«Nessuna,» rispose Roberto.

«Che cosa accadrà di noi?»

«Se provassimo ad alzare la pietra?»

«Non pensateci, Roberto. Vi esporreste, specialmente voi, ad una morte sicura. «Non dimenticate che il puram odia soprattutto voi e che sarebbe ben lieto di sopprimervi. Non udite nessun rumore, voi?»

«No, generale.»

«Che i banditi si siano allontanati dopo averci rinchiusi qui dentro e dopo aver forse piombato la pietra per impedirci la fuga?»

«Se non ci fosse con noi Len-Pra, forse si potrebbe crederlo,» rispose Roberto sottovoce, affinché la fanciulla, che guardava attraverso la feritoia, non lo udisse. «È vostra figlia che Mien-Ming vuole.»

«Non l’avrà mai: o vostra o della morte.»

Roberto provò un brivido.

«Ucciderla! No, no, generale!» esclamò. «Piuttosto tenteremo di forzare la pietra.»

«Rimanete qui, dottore. Voglio accertarmi se vi è qualcuno che vigila dinanzi alla statua del Re lebbroso.»

Il generale prese la carabina e salì su per la stretta scala.

Roberto si avvicinò allora alla fanciulla che, anche in quei momenti terribili, non aveva perduto nulla della sua calma abituale.

«Len-Pra, mia cara,» le disse con voce profondamente commossa, «la vita di vostro padre sta nelle vostre mani. Volete salvarlo?»

La fanciulla alzò su di lui i suoi dolci occhi, guardandolo con profondo stupore.

«Che cosa dite, Roberto?» chiese.

«Vi ripeto che voi sola potreste salvare vostro padre.»

«In qual modo? Spiegatevi, dottore.»

«Rinunciando a me per diventare sposa d’un altro, del puram del re.»

Una dolorosa contrazione alterò il viso della fanciulla, mentre i suoi occhi s’inumidivano.

«Non mi amate più?» mormorò, con voce singhiozzante.

«Più che mai, mia dolce Len-Pra,» rispose il dottore. «Ma solo la distruzione del nostro bel sogno può salvare vostro padre.»

«È per voi che Mien-Ming ha rovinato il generale; è per aver voi che ci ha perseguitati fin qui e che ha tentato per tre volte di sopprimermi, avendo trovato in me un rivale. Rispondete, Len: siete disposta a compiere un simile sacrificio?»

«Io… diventare la moglie di quell’uomo… e rinunciare al vostro amore… mai, Roberto, mai! Preferisco la morte al vostro fianco; e so che anche mio padre mi approverebbe…»

«Grazie… grazie, mia Len… se noi siamo…»

Un colpo di fucile che rimbombò nel cortiletto gli interruppe la frase. Entrambi si precipitarono verso una delle feritoie, colle carabine in pugno, pronti a respingere l’attacco.

Un uomo, certo uno dei banditi di Mien-Ming, si teneva a cavalcioni della muraglia e stringeva in mano il fucile, la cui canna fumava ancora. Doveva aver sparato in aria e non già verso il sotterraneo, allo scopo di richiamare soltanto l’attenzione dei prigionieri.

Len, che una collera improvvisa rendeva pericolosa, puntò risolutamente la carabina verso il bandito. Il dottore con un gesto rapido le abbassò la canna.

«No, Len,» disse. «Sentiamo prima che cosa vuole quel briccone. Pel momento è un parlamentario che dobbiamo rispettare.»

 

Il bandito, vedendo l’uomo bianco, fece sventolare una pezzuola più o meno bianca, gridando:

«Non fate fuoco, se vi è cara la vita.»

Lakon-tay in quell’istante li raggiunse. Aveva udito lo sparo e, temendo un attacco, era accorso per prendere parte alla difesa. «Che cosa vuole quella canaglia?» chiese.

«Ora lo sapremo,» rispose il dottore. «Vorrà dettarci delle condizioni di resa a nome del puram

«Parla, mascalzone,» gridò il generale, «e spicciati, o ti uccido come un cane, in attesa di fare altrettanto al tuo padrone.»

Il bandito, quantunque poco incoraggiato da quella accoglienza, si fece portavoce colle mani e disse:

«È il puram del re che mi manda.»

«Che cosa vuole?»

«Vi ordina di consegnargli Len-Pra. Solo a questa condizione egli acconsentirà a rendere la libertà a voi e all’uomo bianco.»

«E se rifiutassi?»

«In tal caso devo avvertirvi che nessuno di voi uscirà vivo dal sotterraneo.»

«È tutto qui?»

«Non ho altro da dirvi.»

«Dirai al puram che ad un simile mascalzone non acconsentirò mai a dare in isposa mia figlia, che è ormai la fidanzata dell’uomo bianco, e gli dirai che tutti noi preferiamo la morte. Ecco la risposta del generale Lakon-tay. Ed ora vattene o ti sparo addosso.»

Vedendo che il generale puntava già la carabina, pronto ad eseguire la minaccia, il bandito s’affrettò a lasciarsi cadere dall’altra parte del muro.

Un momento dopo, una voce, che la rabbia rendeva rauca, gridò al di là della muraglia:

«Aspetterò che la fame e la sete vi costringa alla resa. Mien-Ming non ha fretta.»

«Mostrati, vile!» urlò Lakon-tay, che aveva riconosciuto la voce dell’infame Cambogiano.

«Sì, più tardi, quando la fame vi avrà reso meno pericolosi,» rispose Mien-Ming, con tono ironico. «Buona notte ed i miei omaggi alla graziosa Len-Pra.»

Al di là della muraglia si udì un sordo brusio, poi il silenzio tornò più profondo di prima.

Lakon-tay si volse verso il dottore e Len.

I due giovani si tenevano per mano, guardandosi tristemente, ma nei loro occhi si leggeva una implacabile volontà.

«Meglio la morte non è vero, Len?» disse il dottore.

«Sì, Roberto, accanto a te ed a mio padre,» rispose la fanciulla con accento risoluto. «Qualcuno un giorno ci vendicherà.»

«Sei degna di tuo padre,» disse il generale, con voce spezzata. «Figli miei… abbracciatemi…»

Cominciavano a calar le tenebre. Len-Pra e Roberto, seduti l’uno presso l’altro sul basamento della statua, non avevano più aperto bocca. Il generale invece, in preda ad una collera terribile, passeggiava pel sotterraneo come un leone in gabbia, pronunciando parole tronche e facendo gesti furibondi. Di quando in quanto s’arrestava dinanzi all’una o all’altra feritoia e si metteva in ascolto, poi ricominciava a passeggiare.

Erano già trascorse parecchie ore da che le tenebre avevano invaso il sotterraneo, quando una scarica improvvisa rimbombò sopra le teste dei prigionieri, seguita subito da un clamore spaventoso.

Lakon-tay fece un salto verso la feritoia più vicina, mentre Roberto e Len balzavano in piedi.

Gli spari si succedevano agli spari pressoché senza interruzione, mentre i clamori raddoppiavano.

«Assalgono i banditi!» gridò il generale. «Queste sono le urla di guerra degli Stienghi. Dottore! Len-Pra! Vengono in nostro aiuto!»

«Come è possibile?» chiese Roberto. «Chi può averli avvertiti?»

«Chi? Chi? Feng, ne sono certo… Facciamo fuoco attraverso le feritoie per indicare a quegli uomini valorosi che siamo qui.»

La lotta stava per finire. Non si udiva più ormai che qualche rado colpo di fucile, e anche le urla di guerra degli Stienghi erano cessate. Il generale continuava a far fuoco, sparando in aria, imitato da Len-Pra e dal dottore.

Ad un tratto si videro brillare delle fiaccole sulla cima della muraglia, poi comparvero alcuni uomini armati di sciabole e di archi.

«Gli Stienghi! Gli Stienghi!» gridò Lakon-tay, che li aveva subito riconosciuti. «Scendete, amici! È qui l’uomo bianco!»

Una quindicina di selvaggi invasero tosto il cortiletto, agitando le fiaccole e gridando. Accortisi che le feritoie erano difese dalle sbarre di ferro, raccolsero una trave che spuntava fra le macerie e con due colpi ben assestati le sfondarono.

«E i banditi?» chiese Lakon-tay, appena fu liberato.

«Tutti uccisi, meno uno,» rispose colui che comandava il drappello.

«Chi è costui?»

«Il loro capo.»

«Mien-Ming! Chi vi ha avvertito che noi eravamo prigionieri?»

«Feng, il nipote del capo.»

«È vivo ancora Feng?» chiesero ad una voce Roberto, il generale e Len-Pra.

«Non so… venite… il nostro capo vi aspetta.»

Gli Stienghi li aiutarono a varcare la muraglia, girarono intorno alla pagoda e li introdussero nel tempio, che era illuminato da parecchi rami resinosi.

Un terribile combattimento era avvenuto intorno alla statua del Re lebbroso. I banditi dovevano essersi difesi disperatamente prima di cadere, a giudicare dal numero degli Stienghi caduti sotto i colpi delle loro carabine; poi erano stati sconfitti e ora i loro corpi, privati della testa, giacevano ammucchiati alla rinfusa, in un lago di sangue.

Il capo degli Stienghi, che era accompagnato da un centinaio di guerrieri, mosse verso il generale, dicendogli:

«Sono molto lieto di averti salvato: che cosa farai ora di quell’uomo?»

Ad un suo cenno le file degli Stienghi s’apersero e Lakon-tay vide, inginocchiato presso la statua del Re lebbroso, e tenuto pei polsi da due guerrieri, il puram, livido, coi baffi irti e gli occhi fuori dalle orbite.

Il generale gli si avvicinò, seguito da Len e dal dottore, e dopo averlo guardato per alcuni istanti in silenzio, gli disse:

«Ti dono la vita, io: ma ti giudicherà il re.»

Mien-Ming provò un brivido così forte, che tremò da capo a piedi, poi, alzando bruscamente la testa, fissò su Len-Pra uno sguardo in cui si leggeva un odio implacabile.

«Tu mi hai perduto, fanciulla, ma mi seguirai nella tomba.»

Con una scossa irresistibile, atterrò i due Stienghi che lo tenevano pei polsi, poi, estratto rapidamente il coltellaccio, che teneva nascosto nella larga fascia, si scagliò contro Len-Pra.

Il dottore ed il generale mandarono un urlo, che fu subito seguito da un colpo sordo e da un rantolo.

Il capo degli Stienghi con una mossa fulminea si era gettato addosso al puram e l’aveva atterrato.

Poi, prima che Lakon-tay ed il dottore potessero impedirglielo, voltò il fucile su Mien-Ming e appoggiatagli la canna sulla fronte, lo freddò, bruciandogli le cervella.

«Feng è morto!» gridò. «Io l’ho vendicato!»