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La città del re lebbroso

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Capitolo IV. Il dottore bianco

La stanza del generale era ampia e arredata con molto buon gusto, quantunque predominasse in tutti i mobili lo stile cinese piuttosto che il siamese.

Le pareti erano coperte di quella meravigliosa carta di seta, con fiori, uccelli, lune e draghi, così cara ai Cinesi; il soffitto era tutto scolpito e dorato, il pavimento di porcellana a disegni stravaganti, che raffiguravano animali fantastici. Alle finestre ricche tende di seta verde cupe, nel mezzo un ampio letto di forme massicce, con coperte di seta e una zanzariera poi qua e là, negli angoli e lungo le pareti, divanetti, mobili leggerissimi laccati ed incrostati d’avorio e d’argento, poi vasi giapponesi e Cinesi, e vasi Siamesi d’oro, meravigliosamente cesellati; e di fronte al letto, su una mensola di ebano, una statuetta di Sommona Kodom.

Appesi alle pareti, disposti con un disordine pittoresco, si vedevano tondi istoriati di antichissima porcellana, armi di varie specie, e drappi preziosi tempestati di rubini, che ricordavano nei loro disegni e nelle loro tinte gli splendidi tessuti dei Birmani.

Lakon-tay, appena entrato, si diresse lentamente verso un angolo in cui, sopra una mensola d’argento, si vedeva una larga spada dalla lama diritta a due tagli, colla guardia piccolissima, specie di enorme rasoio. Era la sua catana di guerra, un’arma di fabbrica giapponese, taglientissima, già tinta e ritinta un tempo nel sangue dei Birmani e dei Cambogiani.

La impugnò con mano ferma e la guardò per alcuni istanti, alla luce della lampada azzurra che ardeva proprio sopra il letto; poi, senza che un muscolo del suo viso trasalisse, se l’accostò alla gola.

Ad un tratto però abbassò l’arma, poi la gettò su uno dei divanetti.

«No,» disse. «Il sangue farebbe troppa impressione alla dolce Len-Pra.»

Stette un momento irresoluto, poi si diresse verso un tavolino giapponese, su cui stavano parecchi vasi di porcellana, delle tazze e delle caraffe piene d’acqua e di liquori.

«La morte mi coglierà nel sonno,» mormorò.

Aprì uno di quei vasetti e ne tolse una palla di colore brunastro, grossa come una piccola noce di cocco, che tagliò a metà con un coltello dal manico d’oro. Levò dall’interno, che era un po’ molle, un pezzetto che gettò in una tazza già piena d’acqua.

Mescolò per alcuni minuti finché quel pezzetto di pasta fu sciolto, alzò la tazza e la vuotò d’un fiato.

Poi attraversò la stanza, sempre calmo, sempre impassibile, e si adagiò sul letto, mormorando: «Addio, mia dolce Len-Pra. Possa la mia morte placare la collera del re e salvarti dalla schiavitù.»

Un tremito scosse il suo corpo.

«Ecco il sonno eterno che si avanza,» mormorò ancora.

E chiuse le palpebre divenute pesantissime, mentre sulla veranda l’uccello della notte faceva echeggiare per tre volte di seguito il suo funebre grido.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Feng, il paggio affezionato, che nutriva verso il generale una devozione senza limiti, aveva intuito che Lakon-tay maturava nel suo cervello, eccitato dalla disgrazia che ormai stava per coglierlo, un triste disegno.

Già, nel Siam, il suicidio è cosa comune quanto nel Giappone. Un alto personaggio che cade in disgrazia, difficilmente osa affrontare la derisione dei personaggi che un giorno gli furono inferiori, e non sa rassegnarsi alla caduta.

Preferiscono suicidarsi, perché fra i Siamesi, cosa davvero inesplicabile per un popolo che si fa un dovere di non uccidere l’animale più nocivo e di non schiacciare il più vile insetto, il suicidio è considerato come un trionfo ed una sublime virtù.

Anzi colui che si impicca è perfino creduto degno di pubbliche lodi, chissà per quali strane e vecchie costumanze, e si decreta al suo cadavere un’apoteosi.

Feng, che era stato raccolto ancora fanciullo sui confini del Laos, in un villaggio di selvaggi Stienghi devastato dalla guerra, conosceva ormai da troppo tempo il suo padrone per non indovinarne i pensieri. Il suo istinto d’uomo selvaggio l’aveva avvertito che una ben più grave disgrazia stava per piombare sulla casa e colpire soprattutto la dolce Len-Pra.

Quindi, appena terminata la cena, si era celato fra i vasi di peonie che abbellivano la veranda, deciso a impedire al padrone di sopprimersi.

L’aveva veduto soffermarsi sulla terrazza, aveva udito le sue parole, aveva udito pure il funebre grido dell’uccello della notte che presagiva una imminente disgrazia.

Non osando però seguirlo appena era entrato nella stanza, non aveva avuto il tempo di vederlo prendere la catana; era giunto invece dinanzi ai vetri della porta quando il generale stava vuotando la tazza.

Dapprima credette che avesse trangugiato un bicchiere d’acqua o di trau, ma vedendolo poco dopo sdraiarsi sul letto e rimanere immobile, come fulminato, il sospetto che avesse bevuto qualche veleno gli balenò istantaneamente nel cervello.

Risoluto a strapparlo a qualunque costo alla morte, il bravo giovane, in preda ad un profondo turbamento, spinse poderosamente la porta, la quale, non essendo stata chiusa internamente, cedette al primo urto. In due salti fu presso il letto.

Lakon-tay, pallidissimo, coi lineamenti solo un po’ alterati, dormiva o pareva dormisse profondamente. Il suo respiro però era affannoso e attorno ai suoi occhi cominciava ad apparire un cerchio azzurrastro.

«Che cosa può aver bevuto il mio padrone?» si chiese Feng con angoscia.

Si precipitò verso il tavolino su cui stava ancora la tazza, e un grido gli sfuggì: Aveva scorto la palla di materia brunastra tagliata in due, che Lakon-tay non aveva più ricollocata nel vaso di porcellana.

«Ha bevuto dell’oppio disciolto nell’acqua!» esclamò. «Disgraziato padrone!»

Si precipitò fuori della stanza, attraversò in un lampo la veranda ed entrò come una bomba nel salotto.

Len-Pra, inquieta per i discorsi fatti dal padre, vi era tornata, non essendo riuscita ad addormentarsi. Anch’essa aveva udito le grida dell’uccello notturno e, superstiziosa al pari delle sue compatriote, le era balenato il pensiero che una disgrazia stesse per piombare sulla casa.

Vedendo entrare Feng cogli occhi dilatati dal terrore, il viso sconvolto, ansante, mandò un grido.

«Feng!» esclamò. «Che cos’hai?»

«Un medico, signora… tuo padre… suicidato… l’oppio…»

«Qui!… di fronte!… dallo straniero dalla pelle bianca… Ah! Padre mio!»

Feng era già nel vestibolo, urtando i servi che accorrevano da tutte le parti perché avevano udito il grido di Len-Pra. Scese a precipizio i gradini e si slanciò nella via.

Di fronte alla phe del generale, s’alzava un’elegante palazzina di legno, col tetto acuminato e le grondaie arcuate, di stile più cinese che siamese, e colla solita veranda.

Feng salì rapidamente i tre gradini, e col manico del coltello, che teneva nella fascia, percosse fragorosamente ed a più riprese il disco di bronzo sospeso sopra la porta, gridando contemporaneamente:

«Aprite, signor uomo bianco! Il mio padrone muore!»

Alla seconda battuta la porta si aperse e comparve un uomo vestito di bianco, con in capo un casco di flanella pure bianca, come usano gl’inglesi e gli olandesi nelle loro colonie d’oltremare, e con in mano una lanterna cinese coi vetri di talco.

Era un bel giovane di venticinque o ventisei anni, di statura piuttosto alta, di forme eleganti ed insieme vigorose, dalla pelle un po’ abbronzata, cogli occhi nerissimi ed i capelli e la barba pure neri.

«Chi muore?» chiese in buon siamese.

«Il mio signore, Lakon-tay.»

«Il ministro dei S’hen-mheng?» esclamò l’europeo con stupore.

«Si è avvelenato, signore.»

«Attendi un istante.»

L’europeo rientrò nella palazzina, in preda ad una visibile emozione, poi ne uscì di nuovo tenendo in mano una cassetta di legno laccato, contenente probabilmente degli antidoti.

«Presto, precedimi,» disse brevemente.

Attraversarono velocemente la via e salirono nell’abitazione del ministro, facendosi largo fra i servi, che gridavano e piangevano sulle scale, strappandosi le vesti e graffiandosi i volti.

«Ordina a questi uomini che stiano zitti,» disse l’europeo allo Stiengo. «Non è colle grida che si guarisce un moribondo.»

Preceduto da Feng, attraversò la veranda ed entrò nella stanza del ministro.

Len-Pra, cogli occhi pieni di lacrime, in preda ad una disperazione straziante, vegliava sola al capezzale di suo padre, sforzandosi, ma invano, di destarlo da quel sonno che a poco a poco lo traeva verso la morte.

Vedendo entrare l’europeo, gli si precipitò incontro, gridandogli con voce singhiozzante:

«Salvatelo, signore, e tutto il tesoro di mio padre sarà vostro.»

Il giovane si limitò a sorridere ed a scoprirsi il capo, figgendo i suoi occhi nerissimi in quelli della graziosa fanciulla. Poi s’avvicinò al letto e tastò il polso di Lakon-tay.

«Siamo in tempo,» disse. «La morte non sarebbe giunta prima d’un paio d’ore. Non temete, fanciulla, io lo salverò.»

«Fatelo, e tutto vi apparterrà, ed io vi sarò riconoscente finché avrò un soffio di vita.»

L’europeo per la seconda volta sorrise, dicendo a mezza voce:

«Mi basterà la riconoscenza della bella Len-Pra.»

S’avvicinò al tavolo, su cui stavano ancora la tazza e la palla d’oppio che Lakon-tay aveva tagliato quasi per metà.

«È parna,» disse, «l’oppio migliore, ma anche il più pericoloso. Bah! Vinceremo la sua potenza mortale.»

Aperse la cassetta, ne estrasse una fiala contenente un liquido color del rubino e versò in una tazza alcune gocce, aggiungendovi poi dell’acqua. Il liquido spumeggiò per qualche istante spandendo un odore acuto, poi tornò limpido.

«Ciò basterà per salvare vostro padre, Len-Pra,» disse il giovane medico.

 

S’impadronì d’un coltello colla lama d’acciaio e il manico d’oro che aveva veduto su una mensola, s’appressò al letto, aperse a forza i denti del generale e gli versò in bocca la misteriosa miscela.

Tosto un fremito scosse il corpo di Lakon-tay, fremito che durò qualche minuto, e la respirazione, che poco prima era affannosa, divenne quasi subito regolare e tranquilla.

«Salvato?» chiese Len-Pra, alzando sull’europeo i suoi begli occhi bagnati di lacrime.

«Aspettate un quarto d’ora o venti minuti, e vostro padre aprirà gli occhi.

Ah! Quegli indiani hanno degli antidoti veramente meravigliosi, che gli Europei, con tutta la loro scienza, non hanno potuto ancora trovare. È stata una vera fortuna, Len-Pra, che abbiate pensato a me. Non so se un altro medico, e specialmente uno dei vostri, avrebbe potuto strappare vostro padre alla morte. La dose d’oppio era forte, ma…»

«Dite, signor dottore.»

«Quale dispiacere può aver spinto vostro padre, ministro potente ed invidiato, favorito del re, valoroso fra i valorosi, a cercare la morte?»

«Non lo so, signore. Era tornato questa sera assai turbato e triste.»

«Che sia morto l’ultimo S’hen-mheng?» disse il medico. «Mi hanno detto che ieri mattina era assai ammalato e che alla corte regnava una profonda preoccupazione.»

«Il S’hen-mheng morto!» esclamò Len-Pra facendo un gesto di disperazione.

«Sì… morto…» mormorò una voce presso di lei.

Lakon-tay aveva aperto gli occhi e si era alzato, appoggiandosi sui gomiti.

Len-Pra gettò un grido di gioia.

«Ah! Padre mio!»

Il generale rimase immobile, cogli occhi dilatati, guardando ora la figlia ed ora lo straniero, certo stupito di trovarsi ancora vivo.

«Padre mio!» gridò nuovamente Len-Pra. «Non rimproverarmi d’averti strappato alla morte.»

La fronte del generale, che prima si era aggrottata, si rasserenava.

Gettò ambe le braccia al collo di Len e se la strinse al petto con un moto improvviso, dicendo:

«Perdonami, mia dolce Len, se io avevo cercato fra le braccia della morte di sottrarmi alla disgrazia che piomberà sulla nostra casa, ma al vecchio generale era mancato il coraggio di sfidare il disprezzo della corte e la collera del re.»

«Voi, il più prode guerriero del Siam!» esclamò l’europeo.

Lakon-tay guardò il medico, poi gli tese la mano, dicendo:

«Lo straniero nostro vicino. È a voi che debbo la vita, vero? Grazie per la mia Len, alla quale avete conservato il padre, che era risoluto a morire.»

«Sono ben lieto di avervi salvato, generale,» rispose l’europeo. «I valorosi come voi sono ben rari nel Siam.»

Un mesto sorriso sfiorò le labbra di Lakon-tay.

«Un dimenticato, ormai,» disse con voce triste, «e fors’anche un maledetto dai grandi e dal popolo, i quali mi accuseranno di essere stato io l’autore della morte dei S’hen-mheng, i protettori del regno.»

«Il quale regno potrà prosperare anche senza gli elefanti più o meno bianchi,» rispose l’europeo. «Credetelo, generale, sono vecchie superstizioni che un giorno spariranno anche dal Siam.»

«Forse avete ragione,» disse Lakon-tay, «ma nessuno potrà persuadere né i grandi né il popolo e nemmeno i talapoini.»

«Ecco un uomo moderno,» disse il dottore, sorridendo. «Per noi europei, perdonerete se parlo franco, gli elefanti, di qualunque colore siano, sono tutti animali né superiori né inferiori agli altri.»

«E voi, europei, ne sapete ben più di noi,» disse il generale.

«Condividete dunque la mia opinione?»

«Come uomo, sì, come siamese, no. Dovrei rinnegare la mia religione e le credenze dei miei avi.»

«E noi crediamo in Sommona Kodom,» mormorò Len-Pra.

«Avete veduto il re?» chiese l’europeo.

«Ieri sera, dopo la morte dell’ultimo S’hen-mheng

«Sapete, generale, che mi sembra per lo meno strana la morte di quei sette elefanti in così breve tempo?»

Lakon-tay fissò sull’europeo uno sguardo riconoscente.

«Anche voi sospettate che quella morte non sia naturale?» chiese.

«Sì, generale. Avete qualche nemico potente alla corte?»

«Tutti ne hanno: l’invidia ne fa sorgere dovunque.»

«Qualcuno che aspirasse al vostro posto?»

«Ve n’è più d’uno, ma io non credo che costoro abbiano osato sfidare l’ira di Sommona Kodom.»

«Comunque, un sospetto voi l’avete.»

«Sì,» rispose il generale.

«Frugate bene nella vostra memoria: quel nemico può venire a galla.»

«Ah!…»

«L’avete trovato?»

«Len-Pra,» disse il generale, «lasciaci soli. La confidenza che devo fare a questo europeo deve essere, per ora, ignorata da te.»

La fanciulla tese la sua piccola mano verso il medico, che gliela strinse sorridendo, e uscì, dicendo: «La mia riconoscenza, finché avrò un soffio di vita.»

«Parlate adagio, non stancatevi,» disse l’europeo, volgendosi verso il generale. «Siete ancora un po’ debole.»

«Non provo che un po’ di sonnolenza.»

«Non ritenterete la prova, spero.»

«No, ve lo prometto, perché ora ho un desiderio terribile di vendicarmi dei nemici che hanno giurato la mia perdita.»

«Parlate.»

«Le vostre domande mi hanno fatto nascere un sospetto, che prima non mi era mai balenato nel cervello. Sì… nella morte degli elefanti bianchi deve esserci entrata la mano di Mien-Ming.»

«Chi è costui?»

«Un Cambogiano che dal nulla è riuscito a diventare, non so per quali male arti, puram, ed a guadagnarsi il favore del re.»

«Un avventuriero?»

«Che era stato prima ai servigi del re di Birmania, un uomo falso, doppio, capace di commettere qualsiasi delitto, assetato d’ambizione e tuttavia temuto, perché è protetto dal re.»

«Aveva qualche motivo per tentare la vostra perdita?»

«Sì, quello di vendicarsi d’avergli io negato la mano di Len-Pra.»

«Ve l’aveva chiesta?»

«Tre mesi or sono.»

«Ed ecco che un mese dopo il primo S’hen-mheng moriva,» disse l’europeo, che era diventato pensieroso. «Non avete però alcuna prova che possa essere stato lui.»

«Nessuna e poi, anche avendone qualcuna, nemmeno io avrei potuto lottare contro un uomo così potente.»

«È buddista?»

«Io credo che sia un adoratore di Fo o di Confucio, come la maggior parte dei Cambogiani.»

«Ecco una preziosa informazione,» disse l’europeo. «Un confuciano può ridersene di Sommona Kodom, a cui non crede. Deve però aver avuto dei complici.»

«Certo, signore, fra i paggi, i servi od i mahut dei S’hen-mheng

«Sono amico di alcuni grandi della corte,» disse l’europeo, alzandosi. «Spero di ottenere il permesso di visitare l’elefante bianco che è morto ora. Conosco bene i veleni io: vedremo.»

«L’alba sta per spuntare e voi siete ormai fuori pericolo.»

«Come potrò ricompensarvi per avermi conservato alla mia dolce Len?» chiese il generale con voce commossa.

«Accettandomi come vostro alleato, per combattere i vostri misteriosi nemici,» rispose l’europeo. «Gli italiani amano la lotta e qui vi sarà ben da lottare, generale. Un valoroso come voi non deve cadere così sotto i colpi d’un avventuriero.

Daremo battaglia, mio generale, e spero che vinceremo e che smaschereremo quell’uomo, se potremo provare che sia realmente colpevole.

Ci rivedremo più tardi, dopo il mezzodì.»

Capitolo V. Il puram del re

L’ultimo dei S’hen-mheng era appena spirato e Lakon-tay era appena uscito per recare al re la triste notizia, quando un uomo, approfittando della commozione generale che regnava nella sala degli elefanti, usciva inosservato per una porticina che metteva dietro le mura della cinta reale.

Quell’uomo era uno dei servi incaricati di vegliare l’ultimo S’hen-mheng, e che nel momento in cui Lakon-tay manifestava al mahut favorito i suoi sospetti, si era trovato così vicino a loro da non perdere una sola parola.

Camminava rapidamente lungo la cinta, guardandosi di frequente alle spalle, come se temesse di essere seguito da qualcuno, e pareva in preda ad un profondo orgasmo.

I suoi occhi obliqui, che tradivano in lui un Cambogiano, scrutavano i viali, e la sua pelle giallastra diventava livida al minimo rumore.

Giunto presso una delle tante porte della cinta, trasse dalla sua larga fascia una chiave e l’aperse con precauzione.

Al di fuori un giovane dalla pelle scurissima pareva lo attendesse, tenendo per la briglia uno di quei piccoli e ardenti cavalli del paese, bardati all’orientale, con staffe corte e larghe e gualdrappa rossa e infioccata, trapunta in oro.

«È in casa il tuo padrone?» chiese il servo con precipitazione.

«Sì, e ti attende,» rispose il giovane.

Con un salto il servo fu in sella e raccolse le briglie, dicendo:

«Lascia andare».

Il cavallo, sentendosi libero, partì di carriera, sollevando un nembo di polvere.

L’uomo seguì per qualche chilometro la cinta del palazzo reale, poi si slanciò fra le tortuose e fangose vie della vecchia città, atterrando tre o quattro passanti che non avevano avuto il tempo di evitarlo, finché sbucò sul gran viale costeggiante il Menam, fiancheggiato da bellissime phe colle verande illuminate da enormi lanterne cinesi, di carta oliata variopinta o coi vetri di talco.

Il Cambogiano lo lasciò galoppare per alcune centinaia di metri, poi con una violenta strappata lo arrestò dinanzi ad una phe grandiosa, d’architettura cinese, coi tetti arcuati ed irti di punte e di comignoletti scintillanti d’oro.

Alcuni servi, sfarzosamente vestiti di seta gialla a fiorami di vari colori, stavano chiacchierando e masticando del betel sulla gradinata marmorea della palazzina.

«Il vostro padrone?» chiese il Cambogiano, balzando a terra con un’agilità da cavallerizzo perfetto.

«È nel suo gabinetto,» rispose un valletto.

«Solo?»

«Solo: devo annunziarti?»

«Non occorre: ho troppa premura.»

Entrò, salendo una gradinata di legno di tek, coperta da tappeti di feltro variopinti e colle ringhiere di metallo dorato e, senza nemmeno bussare, aperse una porta di ebano con laminette d’argento.

In un elegante salotto, tappezzato tutto in seta cinese ricamata in rosso, un uomo stava sopra un immenso cuscino, fumando una pipa formata da una conchiglia, dal cui camino si sprigionavano nuvolette di fumo oleoso e punto profumato.

Era un uomo piuttosto obeso, interamente calvo, fra i quarantacinque ed i cinquant’anni, dalla fronte bassa, gli zigomi assai sporgenti, gli occhi obliqui come quelli dei Cinesi e la pelle giallastra.

In tutta la sua persona c’era un non so che di falso e di ripugnante, malgrado la ricchezza delle sue vesti di seta azzurra cosparse di rubini e di perle, le collane che dovevano costare dei tesori, ed il sorriso che non abbandonava mai le sue labbra.

Vedendo entrare il servo dell’elefante bianco, si levò di colpo, esclamando:

«Tu, Kopom!…»

«Io, signore.»

«Il S’hen-mheng

«Morto or ora.»

Un sorriso di gioia feroce comparve sulle labbra dell’uomo grasso.

«Sono finalmente vendicato!» esclamò con voce giuliva. «Ah! Lakon-tay ha osato respingere la mano di Mien-Ming, il possente puram del re! Mi conosceva troppo male quell’imbecille. Credeva di essere invulnerabile, ed è caduto come un colosso d’argilla.

Non si offende impunemente un uomo par mio, e Len-Pra un giorno, dovessi travolgere nella rovina tutto il Siam, sarà mia.

Folle! Sfidare la mia collera! Non basta il coraggio: ed ecco la sua fama compromessa, la sua popolarità perduta, il suo onore fatto a pezzi, mentre avrebbe potuto diventare potente quanto me.

L’offesa che m’ha fatto la pagherà cara e Len-Pra piangerà lacrime di sangue!

Come era, quando è uscito per recarsi dal re?»

«Irriconoscibile, mio signore,» rispose il Cambogiano.

«Che scoppio di collera da parte del re!» disse Mien-Ming, con un brutto sorriso. «Me la immagino la scena. Il mio veleno non doveva fallire nemmeno contro l’ultimo dei S’hen-mheng

«Un veleno terribile, signore.»

«Ho chiuso io stesso, entro un bambù del mio giardino, il più alto ed il più grosso, il baffo d’una tigre, ed ho spremuto colle mie dita il liquido del verme che era nato. Non mi sono però accontentato di questo, e vi ho unito una forte dose d’un veleno vegetale che avevo raccolto nei nostri boschi della Cambogia.

Nessuno avrà avuto alcun sospetto, è vero, Kopom?»

A quelle parole il viso del Cambogiano si rannuvolò, e il suo turbamento non sfuggì allo sguardo acuto del puram del re.

«Mi sembri inquieto,» gli disse il gran giustiziere, con voce aspra. «Che cos’hai?»

 

«Lakon-tay non mi parve convinto che la morte dei S’hen-mheng fosse naturale,» rispose Kopom, con voce esitante.

«Che cosa ti ha detto?» chiese il puram, aggrottando la fronte.

«A me, nulla, ma ha manifestato dei sospetti parlando col mahut dell’elefante bianco.»

«Sospetta di me?»

«Oh no, signore, del re di Birmania.»

Mien-Ming scoppiò in una risata.

«Che imbecille! Tutti i prodi sono bambini! Il re di Birmania! E a quale scopo avrebbe fatto avvelenare i S’hen-mheng del re del Siam?»

«Per gelosia.»

«Ciò è cosa che non ci riguarda, vero, Kopom? Sono fedeli i tuoi complici?»

«Sono tutti Cambogiani, e non credono alle trasmigrazioni di Sommona Kodom.»

Il puram del re s’avvicinò ad un pesante mobile in legno di tek, una specie di forziere tutto intagliato e laminato in oro, aperse uno sportello e ne estrasse un sacchetto di pelle, che pareva pesantissimo.

Levò quattro verghe d’oro e le porse al Cambogiano, i cui sguardi erano diventati ardenti, al veder scintillare nelle mani del puram il fulvo metallo.

«Ecco qui mille tical che dividerai coi tuoi complici,» disse. «A più tardi il resto, giacché la vostra impresa non è ancora terminata. Un giorno tu sarai mandarino.»

«Non vi sono più S’hen-mheng da uccidere, mio signore!» disse Kopom.

«Ma vi è Len-Pra da rapire,» rispose Mien-Ming. «Credi tu che io non voglia raccogliere i frutti della mia vendetta?»

«Dovremo uccidere il generale?»

«No, almeno per ora. Mi basta allontanarlo.»

«Che cosa devo fare?»

«Recarti alla pagoda di vot-baromanivet e avvertire Kodom di recarsi qui all’istante. Prenderai una lettiga con otto servi.

Faremo fare della strada a quel bravo talapoino, giacché ambisce di diventare il capo della comunità!

Fa’ presto: quell’uomo mi preme.»

Kopom mi mise nella cintura le verghe d’oro, fece al briccone un profondo inchino e uscì correndo.

Non erano trascorsi venti minuti, quando Mien-Ming, che si era ricoricato sul largo cuscino di seta, riaccendendo la sua pipa carica d’oppio e sorseggiando una tazza di tè bollente, udì il gong sospeso alla porta risuonare fragorosamente.

«Deve essere quel bravo talapoino,» mormorò. «Che gambe ha quel Kopom!»

Si alzò posando la pipa su una mensola d’argento e si diresse verso la porta, mormorando fra sé:

«Riceviamolo degnamente, quantunque lo ritenga un briccone mio pari.»

Un uomo magrissimo, col viso incartapecorito e rugoso, entrò, facendo un profondo inchino e dicendo con una voce fessa, punto piacevole:

«Che Sommona Kodom guardi il puram del re.»

Quell’uomo aveva il capo scoperto e privo di capelli, i piedi nudi; il suo corpo era avvolto in tre pezzi di seta gialla, il colore riservato al re: il primo gli avviluppava il braccio sinistro e metà del corpo fino alla cintura, lasciando nudo il braccio destro: il secondo dalla cintura gli scendeva fino ai polpacci delle gambe: il terzo invece gli avvolgeva le reni come una larga fascia e sosteneva una lunga corona formata di cento e otto globetti, di cui si servono tutti i talapoini per recitare le loro preghiere in lingua bali.

Oltre ad aver il capo rasato, aveva così anche la faccia e perfino le sopracciglia.

I talapoini sono monaci buddisti e, soprattutto nel Siam, formano delle corporazioni potentissime e assai rispettate non solo dal popolo e dai grandi, ma anche dallo stesso re: posseggono un numero infinito di val, ossia di conventi, che racchiudono dei tesori favolosi.

Ve ne sono di parecchi ordini, e tutti devono vivere di carità e mendicare ogni giorno alle porte dei ricchi e anche dei poveri; e non tornano mai ai loro monasteri a mani vuote, anzi sempre carichi come muli, giacché nessuno oserebbe rifiutare a così santi uomini una moneta o del riso od altro.

Ricevono poi offerte dai grandi e dallo stesso re, il quale anzi tutti i giorni accoglie i monaci della pagoda di Mong-kut, che formano fra i talapoini una specie di aristocrazia, e che devono venire nutriti a spese della corte.

Il talapoino che era entrato nel salotto di Mien-Ming non era un monaco qualunque, anzi per i suoi meriti e per le sue virtù era stato innalzato alla carica di sancrato, titolo che corrisponderebbe alla dignità di vescovo, e ne portava le insegne dorate sul talapa che teneva in mano, una specie di ventaglio di seta gialla, che quei religiosi portano sempre con sé, onde coprirsi il viso ogni volta che incontrano delle donne.

«Che cosa desideri da me, puram?» chiese il monaco, dopo essersi seduto su un seggiolone di bambù, offertogli premurosamente da Mien-Ming.

«Sai, sancrato, che il S’hen-mheng è morto?»

«L’ho appreso or ora e non puoi immaginarti, puram, il dolore immenso che mi ha cagionato quella notizia.»

«Ed a me del pari,» disse il puram sospirando, «e prevedo che gravi disgrazie colpiranno il nostro povero paese, se non si troverà qualche altro S’hen-mheng che incarni l’anima di Sommona Kodom.»

«Possibile che non ne esista più alcuno nelle folte foreste del settentrione? Che il nostro paese sia stato maledetto?»

«Tutte le spedizioni organizzate dal re sono tornate a mani vuote, e temo anch’io che qualche possente stregone o qualche genio malvagio abbia gettato la jettatura sul regno.»

«Qualche naghar

«O una di quelle terribili garude di cui parlano le nostre storie e i nostri libri sacri; a meno che…»

«Parla, puram,» disse il talapoino.

«La notte di ieri io l’ho trascorsa pregando dinanzi alla statua di Sommona Kodom, nella pagoda di vat-scetuphon, affinché il dio m’indicasse il luogo dove potessi trovare un altro S’hen-mheng e salvare così il regno dai disastri che non tarderanno a colpirlo.»

«E te lo ha indicato?» chiese il talapoino, con ansietà.

«Tornando a casa verso l’alba, mi sono sentito cogliere da un sonno irresistibile e poco dopo m’è apparso in sogno Sommona Kodom.»

«Il dio?»

«Sì.»

«E ti ha parlato?»

«Mi ha parlato,» rispose il puram imperturbabile. «Egli montava una gigantesca garude dalle penne d’oro, col rostro e gli artigli di rubini e gli occhi di fuoco.

M’invitò a salirvi, dicendomi:

«Ti voglio condurre, giacché mi hai tanto pregato, in un luogo ove tu troverai il driving-hook che io ho sepolto prima di abbandonare la terra, e senza il quale non si potrà trovare alcun elefante bianco».

Poi l’aquila riprese il volo con rapidità prodigiosa; seguendo il corso del Menam, finché si librò sopra una città semidiroccata, con alte cupole e porticati immensi, popolata solamente da pipistrelli.»

«Ecco dove si trova il driving-hook», mi disse allora il dio. «Cercalo, perché senza quello il Siam non avrà mai alcun S’hen-mheng

Poi scomparve, senz’altro aggiungere.»

Mien-Ming tacque un momento, poi, volgendosi verso il monaco, che pareva lo ascoltasse ancora, gli chiese:

«Tu che sei fra tutti i sancrati il più istruito e che conosci tutti i libri antichi hai mai udito parlare di una città simile?»

«Sì, i libri fanno menzione di quattro grandi città, cadute in rovina da secoli e secoli, e che sarebbero state popolate un giorno da un popolo immenso, e narrano che in una di esse sarebbe stato veramente sepolto il driving-hook di Sommona Kodom, dopo la sua ultima trasformazione.»

«Anch’io ho udito, nella mia gioventù (quando non ero ancora sceso nel Siam, perché sono Cambogiano), parlare di rovine imponenti e soprattutto d’una immensa città, che si dice fosse stata eretta da un re lebbroso.»

«Dove si troverebbe quella città?» chiese il monaco.

«Ho udito parlare del lago misterioso di Tuli-Sap,» disse il Cambogiano.

«Se Sommona Kodom ti ha ispirato, tu devi parlare subito al re, onde si organizzi una spedizione che vada a cercare nella città del re lebbroso il driving-hook

Il puram scosse la testa, poi fissando sul monaco, che lo guardava con stupore, i suoi occhi obliqui dal lampo giallastro, gli disse:

«Tu che sei uomo di religione, credi che Sommona Kodom mi sia apparso in sogno per indicarmi veramente il modo con cui il Siam potrà riavere i S’hen-mheng

«Sì, giacché tu lo avevi pregato una notte intera.»

«Ebbene, io dò a te l’incarico di recarti dal re e di dirgli che Sommona Kodom ti è comparso in sogno. Tu, ministro della religione, sarai meglio creduto di me.»

«Ma tu, puram, rinunci agli onori che ti spetterebbero se il driving-hook si trovasse.»

«Li cedo a te, quegli onori; io ne ho avuti abbastanza.»

Il monaco cadde in ginocchio dinanzi al puram, esclamando:

«Tu sei l’uomo più generoso che io abbia conosciuto sulla terra. Che cosa potrò fare per te?»

«Salvare Lakon-tay e stornare dal suo capo la collera del re. Non voglio che quel prode cada in disgrazia,» disse il Cambogiano, fingendo una profonda commozione.